Dalla filosofia alla religione

Come abbiamo visto l’originario messaggio “gesuano” (questo è il termine che di solito si usa per indicare ciò che si riferisce al “Gesù storico”), dopo la morte “ignominiosa” di Gesù e il sorgere della credenza nella sua (o Sua) resurrezione,  con la diffusione del cristianesimo presso i “gentili” (Greci e Romani, pagani) e le resistenze sempre maggiori che ai cristiani opponevano gli (altri) Ebrei, tende sempre più a ellenizzarsi, a filosoficizzarsi e spiritualizzarsi fino a culminare nella sintesi del credo niceno-costantinopolitano.

A questo punto dobbiamo chiederci, se il cristianesimo, così trasformato, sia stato, per così dire, completamente “riassorbito” dalla filosofia, sia diventato, cioè, un’altra filosofia del tutto simile ad altre filosofie pagane (come lo stoicismo e il platonismo, a cui viene spesso assimilato, anche per le numerose parole che i teologi cristiani traggono da queste filosofie, come “essenza”, “unità”, “processione”, “generazione”, “Verbo o Lògos” ecc.) oppure no.

Si può forse dire che nella versione della gnosi o gnosticismo, dottrina (diffusasi nel II sec., ma forse anche precedente) successivamente giudicata eretica, il cristianesimo sia facilmente assimilabile a una filosofia, in particolare al (tardo) platonismo che, come abbiamo visto (ma la cosa vale, sotto certi aspetti, per tutte le scuole di filosofia antica),  non è solo una dottrina, ma uno stile di vita e una via di salvezza.

Cfr. vol. I, p. 140.

La “gnosi”, come dice la parola stessa, crede infatti che ci si salvi (si consegua la felicità o beatitudine in Dio) per mezzo della sola conoscenza, esattamente come accade nel pitagorismo, in Socrate, nel platonismo e, in generale, per i filosofi greci (per cui agisce bene e consegue la felicità chi semplicemente sa che cosa sia il bene). Soltanto: la conoscenza suprema sarebbe stata rivelata segretamente da Gesù a una ristretta cerchia di discepoli (sarebbe dunque una conoscenza “esoterica”, per pochi iniziati) e sarebbe poi stata trasmessa agli “gnostici”. Di che cosa si tratta? Nonostante diverse versioni della dottrina, talora molto complicate, in sostanza gli gnostici credono (come i neoplatonici) di essere “figli di Dio”, del Principio di ogni cosa, imprigionati nella carne o materia (ad opera di Satana o di un dio malvagio, il demiurgo platonico, identificato nel Dio dell’Antico Testamento), dalla quale Cristo ci salva, semplicemente rivelandoci la nostra divina natura (che poi è anche la Sua) e riconducendoci al vero Padre (il Principio di ogni cosa). Cristo, inoltre, in quanto Dio, non può avere avuto un “vero” corpo, non può essere stato davvero crocifisso, la sua morte sarebbe pura apparenza (docetismo); oppure, secondo un’altre versione, occorre distinguere tra Gesù di Nazareth, puro uomo, morto in croce e “Cristo”, il Dio in lui, che l’avrebbe abbandonato prima della crocifissione (come si legge p.e. nel Vangelo apocrifo di Pietro).

Gli gnostici considerano poi se stessi pneumatici o spirituali, in quanto disporrebbero della conoscenza, mentre gli altri cristiani, costretti a nutrirsi di semplice fede, bisognosi di attingere ai sacramenti della Chiesa ecc. , sono chiamati psichici animici (in sostanza si tratta dei “normali” cattolici) e mentre i peccatori e i pagani, dediti alla ricerca del piacere del corpo, sono chiamati ilici. I secondi (gli psichici) si crederebbero bisognosi del sacrificio redentore di Cristo per salvarsi a causa della loro ignoranza (essendo sufficiente la sola conoscenza).

Ma è appunto questa credenza nella funzione di redenzione di Cristo (e ciò che a questo si collega) il tratto distintivo del cristianesimo “ortodosso”, quello che alla fine è trionfato e si è imposto a Nicea: al di là di tutta la “traduzione” della dottrina cristiana in termini di sapore platonico e stoico, persistono nel cristianesimo trionfante tratti dottrinali irriducibili alla filosofia greca, originali (tra l’altro, curiosamente, solo molto parzialmente risalenti al Gesù storico, come viceversa si potrebbe credere), tratti francamente “indigeribili” per un greco e, forse anche, in generale, per chi si serve della ragione in modo “normale” (tratti che, infatti, fruttarono la cacciata di Paolo dall’Areopago di Atene secondo gli Atti degli apostoli): che Dio si sia fatto uomo (una volta per tutte, in Gesù, non, quindi, neoplatonicamente, in ciascuno di noi, sempre), che (a differenza di un saggio greco, pensiamo a Socrate davanti alla morte, sereno, impassibile) si sia commosso, abbia pianto, abbia sofferto e sia morto (anche in quanto Dio), che abbia riscattato con la sua morte i peccati di altri, che sia risorto col suo corpo, come anche noi risorgeremo col nostro corpo, soprattutto: che senza tale sacrificio redentore noi non ci potremmo salvare con la nostre sole forze intellettuali (p.e. attraverso l’adesione a questa o quella filosofia pagana o attraverso il rispetto formale delle leggi di Mosè, se siamo ebrei).

Questi elementi dottrinali, così tecnicamente “ripugnanti” per la ragione, richiedono appunto la fede, quella fiducia nella “parola” contenuta nella Sacre Scritture, in particolare nei Vangeli, che, in prima battuta, sembra “gratuita”, scarsamente giustificabile razionalmente, dunque filosoficamente. Ma è proprio così? (come pensavano, ad esempio, nel Settecento molti filosofi illuministi e pensano ancor oggi molti atei).

Quale il rapporto tra fede e ragione? (domanda che ovviamente ha senso porsi nella misura in cui vi sia nel cristianesimo qualcosa che eccede quanto un filosofo possa ragionevolmente credere in assenza di qualsivoglia rivelazione).