La cosa interessante che possiamo rilevare, riesaminando criticamente i diversi approcci all’agire umano delle diverse scuole greche di filosofia (in particolare degli epicurei, degli stoici e degli aristotelici, ma la cosa vale anche per Socrate, per i platonici, per gli scettici, per i cinici ecc.), è che in tutti gli approcci è fondamentale, dopo aver riconosciuto ciò che è bene fare, non tanto volerlo fare (come abbiamo visto, per l’intellettualismo etico, la volontà non ha autonomia rispetto all’intelligenza), quanto esercitarsi a praticarlo, sviluppando la cosiddetta “virtù” (in greco “areté“), ossia la disposizione costante (o habitus, abitudine) ad agire bene (che si contrappone al vizio, cioè l’abitudine ad agire male).
N. B. La virtù richiede esercizio e fatica, come il salire una china, mentre il vizio è facile, come scendere a valle. Tuttavia, entrambi, una volta consolidati, costituiscono una “seconda natura” da cui è difficile liberarsi, come non ci può liberare dalla prima natura (dal proprio corpo).
La differenza tra le diverse scuole riguarda soprattutto la funzione della virtù, intesa come un mezzo per gli epicurei, come un fine per gli stoici, come un mezzo e come un fine (a seconda che si tratti di virtù etica o di virtù razionale) per gli aristotelici.
Un’altra differenza riguarda il rapporto con le passioni (amore, odio, ira, gelosia ecc.): se per stoici ed epicurei, data l’autosufficienza della ragione, esse vanno del tutto ignorate (a-patia), per gli aristotelici (come per i platonici) è sufficiente conferire ad esse la “giusta misura” (metrio-patia), poiché tali passioni costituiscono, in un certo senso, il “motore” dell’azione umana.
Il risultato di tutto questo è che, se con un’immaginaria “macchina del tempo” si sbarcasse nell’Atene del II sec. a. C. (o a Roma nel II sec. d. C.), non potremmo facilmente comprendere dal comportamento di un filosofo a quale scuola appartenga. Per scoprirlo (posto che il “gioco” vieti di chiedergli espressamente la scuola di appartenenza), dovremmo interrogarlo e chiedergli le ragioni per cui fa quello che fa.