La dialettica della “certezza sensibile” in Hegel

Nella Fenomenologia dello spirito (1807) di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (scritta a Jena mentre Napoleone cannoneggiava i Prussiani…) – cfr. manuale, pp. 54-55 (c. 1) [capoverso 1, ossia il blocco di testo tra due punti a capo a cavallo delle due pagine indicate, accanto al titolo Il significato dell’opera], pp. 56-57 [Coscienza, autocoscienza, ragione] –  troviamo fin dalle prime pagine un chiaro esempio del metodo con il quale, secondo Hegel, si dovrebbe esercitare la filosofia. Si tratta della dialettica. in queste pagine essa si esercita sul problema della certezza sensibile (altrove sostanzialmente a ogni altra cosa), ovvero interroga il modo con cui dobbiamo pensare il “questo” (qualsiasi oggetto ci si presenti dinnanzi) e l’Io, ovvero noi stessi in quanto percepiamo “questo” con i sensi.

Possiamo ricordare che per “dialettica” si intende etimologicamente l’arte del dialogo. Socrate, dialogando con i suoi interlocutori, confutava la loro opinione (dòxa), cioè come le cose apparivano loro, per cercare insieme a loro la verità, la scienza (epistéme), cioè come le cose veramente erano.

La dialettica, riesumata da Hegel, è, dunque,   il metodo filosofico per eccellenza, da distinguersi p.e. dai procedimenti deduttivi (dall’universale all’universale e, quindi, al particolare, come nel sillogismo aristotelico), caratteristici della logica e della matematica, e da quelli induttivi (dal particolare all’universale, cioè dall’esperienza alla teoria) attribuiti a certe scienze (come la geografia o la “storia naturale”).

Hegel, in particolare, (che in gioventù aveva studiato i dialoghi dialettici di Platone, Parmenide, Sofista, Filebo cfr.  manuale, p. 47 ) ci mostra come quando si pensa a fondo qualcosa, esso si rivela diverso da come appariva inizialmente. Se ne sviscerano, infatti, nascoste contraddizioni o aporie, in modo tale che la cosa, pensata  a fondo, si rivela antinomica.

Abbiamo visto, ad esempio, che l’io non è quello che appare. Se io fossi semplicemente “io”, infatti, non mi distinguerei da tutti gli altri che pensano se stessi come “io”. Dunque non è affatto sufficiente, come si crede, per individuarsi, affermare: “Io sono io”.

Anche l’espressione “questo libro” sembra indicare un individuo, ma, in effetti, esprime l’intersezione tra tutte le cose vicine a me (“queste”) e tutti i libri possibili, senza individuare alcunché di determinato (si tratta dell’intersezione indeterminata di due universali).

Altro esempio: “ora è giorno”  è proposizione  che dopo qualche ora “sa di stantìo”(come  scrive Hegel). Essa si rovescia nel suo opposto. Ciò che propriamente “è”  e resta non sono giorno o notte, ma la coscienza del presente (la certezza sensibile a  cui sono dedicate pagine fondamentali della Fenomenologia).

Possiamo evocare numerose altre celebri antinomie, ricavandole dalla storia del pensiero.

A queste possiamo aggiungere l’antinomia politica propria della democrazia, sottolineata da Kant nello scritto Per la pace perpetua (1795), ma che senz’altro anche Hegel sottoscriverebbe (che evochiamo per esemplificare come la filosofia, in quanto critica e dialettica, metta in discussione tutti i luoghi comuni, tutte le apparenti ovvietà, rivelandosi, in termini contemporanei, nient’affatto politically correct).

Immanuel Kant (che certo non era favorevole al dispotismo o all’assolutismo) espone come segue l’antinomia di cui è preda la democrazia:

La forma [di governo] democratica [...] è necessariamente un dispotismo, perch’essa stabilisce un potere esecutivo in cui tutti deliberano sopra uno ed eventualmente anche contro uno (che dunque non è d’accordo con loro), e quindi tutti deliberano anche se non sono tutti: il che è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà.
[Immanuel Kant, Per la pace perpetua (1795), Sez. II, Art. 1, tr. it. in Id., Stato di diritto e società civile, cit., p. 183].

In altre parole, delle due l’una: a) o la demo-crazia è il nome del potere che una maggioranza esercita (dispoticamente) su una minoranza (evidentemente contro la volontà di questa), b) oppure, se questo potere incontrasse il consenso unanime di coloro su cui si esercita, la democrazia cesserebbe, ipso facto, di essere un forma di governo, di potere, in senso proprio, risolvendosi in an-archia: in questo caso, infatti, nessun potere verrebbe esercitato su alcuno e ognuno potrebbe fare tutto quello che più gli piace (perché, se affinché le decisioni fossero operative ci volesse l’unanimità, egli potrebbe opporre il veto a qualsiasi deliberazione che non gli aggradasse).

Tornando ai paradossi di un Io che, nel tentare di definirsi, finisce per perdersi, eguagliandosi a tutti gli altri, potremmo, come suggerisce  Eugenio, invocare la distinzione matematica tra la forma  di una funzione p.e. y = f(x) e il suo contenuto  determinato (p.e. y = 2x). Si  potrebbe intendere, ad esempio, in questo modo la distinzione, in Fichte, tra  l’Io assoluto che è ogni cosa e l’io empirico (questa o  quella distinta persona). Tuttavia, secondo Hegel, ciò che  Fichte e Schelling non hanno messo a fuoco è precisamente come si passi dall’astratto (dalla forma dell’Io) al concreto (all’Io vivente).

Sotto questo profilo un ruolo fondamentale lo gioca, senz’altro, romanticamente, in Hegel, la Storia. Io sono senz’altro il frutto della mia storia, che a sua volta dipende da quella dei miei genitori, del mio popolo ecc. La mia storia mi distingue dagli altri certo più dei miei dati anagrafici…

Tuttavia la storia può costituire una punto di partenza, una condizione  a partire dalla quale posso comprendermi. Ma occorre anche, secondo Hegel, che la tradizione da cui provengo (celebrata da romantici e filosofi “reazionari”) sia “riflessa” da me che la vivo e posso, anche, metterla in discussione servendomi della ragione (celebrata da illuministi e filosofi “progressisti”).