Necessaria, utile o superflua che sia, la filosofia, in quanto libera ricerca della saggezza, dunque, in ultima analisi, del bene (se per saggezza intendiamo la “scienza del bene”), si scontra con un’ipotesi, emersa anche dal dibattito in aula e on line, cioè che il bene sia diverso per ciascuno di noi (e perfino possa cambiare nel tempo anche per ciascuno di noi).
Se il bene che cerchiamo fosse semplicemente quello che pensiamo che esso sia, non c’è dubbio che registriamo un’ampia divergenza di opinione al riguardo (tra chi aspira alla giustizia sociale, alla gratificazione individuale, tra chi aderisce a una certa religione e chi a un’altra ecc.).
La scommessa della filosofia, tuttavia, è che sia possibile individuare razionalmente un “bene” in qualche modo “assoluto” (noi diremmo: “oggettivo”), dimostrabile, come è la salute del corpo di cui il medico ha scienza, mentre le nostre opinioni al riguardo, certamente varie e diverse, non riuscirebbero ad afferrare il vero bene, ma soltanto parvenze di bene delle quali, prima o poi, ci pentiremmo (come chi pensasse che fosse molto salutare bere ettolitri di vino).
I primi autori che, genialmente, supposero che il bene non fosse assoluto, ma relativo, ossia dipendesse dalle circostanze e dai punti di vista furono i sofisti.
Per comprendere la loro prospettiva radicalmente relativistica possiamo leggere alcuni frammenti del cosiddetto Anonimo sofista (del V sec. a. C.) e alcuni testi che riferiscono la dottrina di Protagora, che estende il relativismo dal campo etico (concernente il “bene”, che sarebbe diverso per persone diverse e/o per la stessa persona in momenti diversi) al campo ontologico (concernente l’ essere, in greco òn/òntos, che sarebbe a sua volta diverso per persone diverse e/o per la stessa persona in momenti diversi; nel senso che p.e. una certo cibo sarebbe amaro o sarebbe dolce a seconda che chi lo gusta sia malato o sano). In sostanza l’ipotesi sofistica è che le cose sono sempre esattamente come appaiono o, in altra prospettiva, è la stessa cosa sapere e credere (o percepire, sentire) che le cose stiano un certo modo.
Cfr. U2, cap. 1, §§ 1-4, pp. 95-102.
A questo punto possiamo chiederci: “Ma davvero le cose sono come appaiono?”. P.e. La facciata di un edifico che appare rettangolare a chi la osserva dalla piazza antistante, mentre appare trapezoidale a chi la osserva da una via laterale, è precisamente sia rettangolare sia trapezoidale, a seconda del punto di vista da cui la si osserva, oppure è veramente rettangolare e si limita ad apparire talora trapezoidale?
Concludiamo questo primo modulo mostrando come la filosofia, originariamente, oltre che suscitata dalla ricerca del bene, utile e necessaria, e/o scaturita dalla meraviglia per i fenomeni inesplicabili della natura, derivi da una critica radicale del relativismo delle opinioni.
È davvero possibile sostenere una posizione relativistica, come quella degli antichi sofisti?
La filosofia, in Socrate e Platone, nel momento in cui si metta alla ricerca della saggezza, deve fare i conti con questa insidiosa dottrina relativistica, apparentemente convincente (oggi più che mai, in assenza di “verità” imposte da Chiese o Partiti dogmaticamente), ma tale da rendere vana la ricerca medesima.
Cfr. il brano del Teeteto che abbiamo letto.
Se ci si riflette, il relativismo, se fosse accolto, vanificherebbe la ricerca. La questione è tanto più importante e urgente, quanto più, ancor oggi, si confonde spesso il giusto pluralismo delle dottrine (politiche, religiose, morali ecc.), esito di grandi movimenti storici come quello scaturito dalle grandi rivoluzioni liberali dell’età moderna (inglese, americana, francese) con il relativismo.
Non bisogna confondere, infatti, l’ammissione del pluralismo delle legittime opinioni, dovuto alla difficoltà o, magari, all’impossibilità di scoprire quale di esse, ammesso che ve ne sia una, è quella “vera” con la tesi del relativismo: per il relativismo non c’è alcuna possibile ricerca della verità, conseguita magari attraverso la discussione e il confronto delle opinioni, perché ciascuna opinione è già vera per chi la coltiva e non c’è, quindi, bisogno di discutere se essa sia vera o meno.
Il pluralismo è reso necessario dalla mancanza di certezze riguardo alla dottrina (politica, religiosa, morale ecc.) migliore o più vera. In passato spesso una dottrina si era imposta tirannicamente come “vera” senza, tuttavia, mai riuscire fino in fondo a dimostrarsi tale. Tuttavia, la pluralità delle opinioni non sottende la loro equivalenza. Ciascuno ritiene legittimamente che la sua opinione sia migliore, ma, non potendo dimostrarlo agli altri, “tollera” le opinioni altrui ed è disponibile a rivedere anche la propria, qualora altri lo persuadano magari attraverso ragionamenti.
Il relativismo consiste, invece, nel credere che le propria opinione non valga più di quelle degli altri, che le opinioni siano tutte vere e tutte equivalenti. Ma ciò vorrebbe dire, autocontraddittoriamente, che non si ha davvero quella certa opinione, perché si riconoscono come equivalenti alla propria anche opinioni diverse od opposte.