Rinascimento naturalistico e panteistico

Generalmente si dice che il Rinascimento, preceduto sotto questo profilo dall’Umanesimo, consistette nel mettere “al centro” l’Uomo, rispetto a Dio, e nel considerare degna di imitazione la Natura. Questa interpretazione tradizionale non è scorretta, ma va chiarita, altrimenti risulta parziale e fuorviante.

Dio non è affatto escluso, come avverrà, anche in questo caso parzialmente (soprattutto nell’ambito del materialismo sensista), durante l’illuminismo, né lo è la Chiesa e la sua tradizione (che anzi partecipa ampiamente, come suggeriscono i numerosi monumenti rinascimentali di Roma, in diversi suoi esponenti di punta, come Papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, Giulio II della Rovere, i papi medìceo Leone X e Clemente VII ecc., al movimento culturale umanistico-rinascimentale). Soltanto: implicitamente ispirati dalle implicazioni teologiche e cosmologiche dell’infinità dell’universo suggerita p.e. da Cusano, gli uomini del Rinascimento tendono a riconoscere Dio nella Natura e a divinizzare la Natura stessa, oltre che se stessi e l’Uomo, a partire dall’idea che, se tutto è in tutto e ogni punto dell’universo ne è simultaneamente centro e periferia, Dio è in ogni cosa e ogni cosa è in Dio (Cusano parlava di complicatio, explicatio e implicatio di ogni cosa in Dio e di Dio in ogni cosa).

Se sottolineiamo l’identità Dio – Natura (come farà poi ancor più risolutamente il filosofo Spinoza nel secondo Seicento) neghiamo la trascendenza di Dio e cadiamo nel panteismo (tutto è Dio), considerato una religione “pagana”, ma se, simultaneamente, mettiamo in luce l’imperscrutabilità di Dio come principio di ogni cosa, recuperiamo questa trascendenza, possiamo considerarci p.e. cristiani, anche se sui generis, e la nostra concezione può essere considerata piuttosto panenteista (la concezione secondo la quale tutto è in Dio). Il Rinascimento oscilla tra le due visioni (entrambe implicite nel neoplatonismo a seconda che si privilegi il caratteristico “monismo” di tale dottrina o, piuttosto, l’infinita trascendenza dell’Uno rispetto alle sua “immagini” cangianti che costituiscono il mondo apparente).

Senz’altro durante il Rinascimento si tende a sottacere la dottrina del “peccato originale”, che, nella parole di San Paolo, sarebbe responsabile della corruzione non solo dell’uomo, ma anche della natura, e del bisogno di entrambi di redenzione ad opera di un gesto gratuito di Dio (come l’invio di Suo Figlio nella carne per morire e risorgere a riscatto del peccato).  Si inclina, quindi, a una concezione neo-pelagiana (il libero arbitrio, da solo, può farci scegliere di essere come Dio o di decadere al rango di bestie, senza bisogno dell’intervento della grazia divina), implicita p.e. nel De dignitate hominis di Pico della Mirandola.

Infine, se consideriamo che, in un cosmo infinito, senza alto né basso, “tutte le strade portano a Roma”, cioè a Dio, perché anche attraverso il peccato (o, nel linguaggio di San Paolo, la “carne”) si sperimenta il divino (dal momento che tutto è Dio e la Natura è Dio ecc.), possiamo comprendere la ricchezza e pluralità di prospettive filosofiche emerse nel RInascimento, da quelle più mistiche, come il platonismo, a quelle più attente alla Natura e e alla Storia, con le loro regole, talora anche dure, come, rispettivamente, l’aristotelismo e la concezione di Machiavelli: prospettive diverse, ma, in un certo senso, forse, convergenti (in ultima analisi anche Machiavelli giustifica i mezzi violenti o fraudolenti a cui, talora, si deve ricorrere, solo nel caso che si perseguano fini “degni”). Si dice e si scrive che nel Rinascimento i saperi cominciano a venire praticati in modo autonomo (la filologia p.e. si distingue dalla teologia per metodo e  obiettivi), ma non al punto tale da perdere di vista l’unità a cui tutti tendono (la “verità”, l’armonia ecc.).

Sul RInascimento, in generale, in conclusione, oltre alla pagina di questo sito già altrove ricordata…

Cfr. manuale di Filosofia, vol. 2A, U1, cap. 1, §§ 1-5, pp. 5-9; § 7,  pp. 11-13; §§ 9-10, pp. 15-17.

Cfr, anche manuale di storia, vol. I, U2, cap. 2, § 9.1, pp. 263-66, § 9.5, pp. 276-78