La crisi del ’29 e il New Deal di Roosevelt

Sulla crisi del ’29 e il New Deal di Roosevelt possiamo fruire di questo video da Il tempo e la storia (Raistoria).

Cfr. quindi il cap. 8.

Come fatto in aula, può valere la pena chiarire come opera la “speculazione” finanziaria. Bisogna ricordarsi che la “azioni” costituiscono “pezzi” della proprietà di un’azienda. Chi detiene un’azione, dunque, guadagna la relativa porzione (dividendo) del profitto (non reinvestito nell’azienda medesima) conseguito da un’azienda per tutto il periodo in cui l’azione è detenuta. Tale è il valore “oggettivo” di un’azione. Tuttavia, se il rendimento previsto è superiore a quanto la determinata azione è destinata a rendere (perché, ad esempio, l’azienda che l’ha emessa non riesce più a conseguire profitti, a causa di una crisi nell’economia “reale”), l’azione risulta “sopravvalutata”, viene venduta e acquistata a un prezzo superiore al suo valore e, quando questa situazione riguarda gran parte delle azioni immesse sul mercato, come accadde negli Stati Uniti della seconda metà degli anni Venti, si forma una cosiddetta “bolla finanziaria”. Quando ci si comincia ad accorgere di questa bolla, chi detiene azioni comincia a venderle, il che, per la legge della domanda e dell’offerta, deprime ancora di più il prezzo delle azioni (eventualmente anche al di sotto del loro valore). Il risultato è la paralisi dell’economia: le aziende perdono il loro capitale, non sono più in grado di investire e di restituire i loro prestiti alle banche, falliscono, come falliscono le stesse banche, licenziano i loro operai, i quali perdono il loro potere d’acquisto, non comprano più i prodotti di altre aziende, che a loro volta falliscono ecc.

Come sottolineano manuale e video, una crisi di tale portata, come fu quella del ’29,  non può essere legata solo alle operazioni speculative, ma deve dipendere anche da una crisi “reale” di sovrapproduzione (come quelle pronosticate da Marx), che aumenta la “forbice” tra il valore effettivo delle azioni (ridotto appunto dalla crisi) e il valore immaginato (il prezzo), artificiosamente sostenuto dalla speculazione (che scommette sempre sul buon andamento dell’economia reale).

Interessante la “reazione” del Presidente Roosevelt (il cosiddetto New Deal), prima quasi “istintiva”, quindi giustificata e “teorizzata” da John Maynard Keynes, il celebre economista. Sostenendo la domanda (cioè aiutando i cittadini a conservare un certo potere d’acquisto, difendendo i depositi bancari, assumendo manodopera in attività imprenditoriali sostenute con denaro pubblico ecc.) si riuscì a “salvare” molte imprese, quindi molti posti di lavoro ecc. (anche se la crisi fu effettivamente superata solo grazie alle spese militari effettuate per l’entrata nella Seconda Guerra Mondiale). Il limite di queste politiche “keynesiane” (invocate anche oggi da chi chiede di favorire in Europa, dopo l’ultima crisi economica, la “crescita” rispetto al “pareggio di bilancio”) è che gli Stati, per attuarle, devono spendere molto, spesso devono spendere più di quanto non incassino (perché, se incrementassero il prelievo fiscale, di nuovo finirebbero per deprimere il potere d’acquisto dei cittadini), col risultato di finire in “deficit”: la moneta si svaluta, spesso deve essere sganciata dall’oro (non è più convertibile in oro), si indebolisce rispetto a monete straniere (diventano più costose le importazioni, p.e. di materie prime, a volte necessarie allo stesso sviluppo economico) ecc.

Certamente si registra tra le due guerre in tutti i Paesi avanzati un incremento dell’ingerenza dello Stato nel privato, o per ragioni puramente economiche, come negli U.S.A. (anche se non mancarono i critici che accusavano Roosevelt e i democratici di simpatie per ideologie “stataliste”), o per ragioni politiche, come negli Stati totalitari (o autoritari) di destra e di sinistra (U.R.S.S.) del continente europeo.

In tutti questi Paesi si registra anche il ruolo determinante, nel forgiare l’opinione pubblica e nell’allinearla ai diversi governi (compresi quelli democratici), dei mezzi di comunicazione di massa “unidirezionali”, come il cinema e la radio.