La “simbiosi” tra Impero e Papato e la sua crisi

Come riportare un po’ di ordine, vale a dire di pace, ispirandosi alla concezione medioevale dell’ordine (espressa esemplarmente da Adalberone di Laon) in un modo sempre più frammentato politicamente ed economicamente, quale era l’Europa occidentale dopo le invasioni del IX-X sec., preda del cosiddetto “incastellamento“?

L’opera fu intrapresa dai “nuovi” imperatori d’Occidente, i re di Germania (meglio: della Francia orientale) della dinastia sassone (a cominciare da Ottone I, re dal 937 e riconosciuto imperatore dal Papa dal 962), i quali si consideravano eredi di Carlo Magno.

Costoro emersero dopo la fase di disfacimento dell’impero carolingio seguita al trattato di Verdun (843), che determinò una prima separazione tra un regno dei Franchi occidentali (futura Francia) e un regno dei Franchi orientali (futura Germania), e la definitiva scomparsa di un’autorità imperiale universale con la deposizione di Carlo il Grosso, l’ultimo dei “grandi” carolingi (887) [cfr. manuale di seconda, pp. 313-314].

Verdun

Questi “Ottoni” (l’ultimo, Ottone III di Sassonia, morì nel 1002), per ovviare al problema dell’anarchia feudale, cioè alla tendenza dei signori locali a rendersi sempre più indipendenti (tendenza favorita dall’ereditarietà dei loro feudi e dai crescenti privilegi e immunità di cui godevano o che si arrogavano impunemente, esercitando forme di signorie di banno sui loro sottoposti, ovvero poteri che sarebbero dovuti spettare al re o all’imperatore o ai suoi delegati), escogitarono uno stratagemma, già adoperato da Carlo Magno e dai suoi successori anche se in modo meno pronunciato: investire di poteri “comitali” o “marchionali” (cioè propri di conti e marchesi), attraverso l’assegnazione di feudi, vescovi e abati, ossia uomini di chiesa, che, non potendosi (almeno formalmente) sposare e non potendo, quindi, avere figli (legittimi), non potevano trasmettere in eredità i loro feudi, ma dovevano restituirli all’imperatore. Consideriamo, poi, che i vescovi abitavano, in generale, in città ed erano circondati da personale amministrativo più colto e capace di quanto non fosse quello che attorniava i signori laici, dediti per lo più alla guerra.

Chiesa e Impero, dunque, in questa fase si sostennero a vicenda in nome di quell’ordine che avrebbe dovuto favorire la pace sociale [cfr. manuale di seconda, pp. 323-25: da La rinascita dell’impero in Germania a Richieste di riforma nella Chiesa].

La strategia “ottoniana” conteneva, però, un’insidia: i vescovi tendevano a trascurare sempre di più i loro doveri “spirituali”, favorendo il malcontento popolare. Per un certo tempo gli stessi imperatori (della dinastia successiva a quella sàssone, ossia la dinastia di Franconia) sostennero la “riforma” della Chiesa, a cominciare dai suoi vertici: Enrico III di Franconia, ad esempio, a metà del XI sec., dopo una serie di Papi corrotti, eletti a seguito degli intrighi delle famiglie nobili di Roma e del Lazio, impose l’elezione di Papi tedeschi sensibili alla cultura religiosa che andava elaborandosi nel monastero di Cluny: la Chiesa avrebbe dovuto curare maggiormente la liturgia, la preparazione del clero e combattere la “clerogamia” (cioè il matrimonio degli ecclesiastici), misura che andava incontro, come accennato, all’interesse dell’imperatore (che cioè i vescovi non avessero figli a cui trasmettere i loro feudi), e anche la simonia (cioè la compravendita di titoli e benefici ecclesiastici).

Quest’ultima “battaglia”, tuttavia, si rivelò controproducente per l’Impero, perché si poteva considerare “simonia” anche la nomina dei vescovi da parte dell’imperatore, seguita dall’assegnazione di incarichi amministrativi e dei relativi feudi. Fu proprio il Papato, “purificato” dalla corruzione ad opera dei precedenti imperatori sassoni e frànconi, che “approfittò” di questa contraddizione: con Ildebrando di Soana, un italiano eletto papa col nome di Gregorio VII, si giunse al Dictatus Papae (1075) col quale furono stabiliti principi fino ad allora (quasi) inediti: il Papa doveva venire eletto esclusivamente dai cardinali (senza interferenze da parte dell’imperatore, che, invece, dai tempi di Ottone I, con il c.d. Privilegium Othonis, si arrogava l’ultima parola sull’elezione del pontefici) ed era il solo a poter nominare i vescovi (sottraendo, perciò, tale nomina sia all’imperatore, sia alla stessa curia locale, che, un tempo, li eleggeva).

Quest’ultima prescrizione diede origine alla cosiddetta “lotta per le investiture” tra Papato e Impero: si doveva decidere chi avesse l’autorità di nominare i vescovi e fornire loro i benefici necessari per esercitare le loro funzioni.

La cosa interessante è che lo scontro tra Gregorio VII e il nuovo imperatore Enrico IV di Franconia portò a una reciproca “sconfessione”: l’imperatore proclamò deposto di Papa e il Papa scomunicò l’imperatore.

Apparentemente il più “forte” era l’imperatore, fornito degli aiuti militari che gli potevano offrire i suoi vassalli, mentre il Papa non aveva quasi altro “potere” che quello della sua parola (tecnicamente possiamo distinguere tra la potestas o potere “temporale” proprio di chi, come un re o un imperatore, assolve un ruolo politico o pubblico, e la semplice auctoritas, morale, propria di chi, come un papa o un vescovo, esercita un potere soltanto “spirituale”). Tuttavia, almeno in una prima fase, più forte si rivelò il Papa: la scomunica legittimò l’insubordinazione dei vassalli all’imperatore e lo costrinse per tre giorni e tre notti, al freddo, nel gennaio del 1077, presso la marchesa Matilde di Canossa, a chiedere perdono al Papa e il ritiro dello scomunica [video].

Questo episodio è molto significativo: esso ci fa capire l’importanza dello “stato” degli oratores nel quadro proposto, ad es., da Adalberone di Laon: il “potere” reale, apparentemente, è nelle mani dei bellatores, che dispongono delle armi e possono minacciare di morte chi non obbedisce loro; tuttavia, la “catena di comando” presuppone  il riconoscimento dell’autorità, e questo riconoscimento è mediato da “parole”, “discorsi”, dalla “cultura” di chi comanda e di chi obbedisce.  Di qui la rilevanza “politica” e “giuridica” degli oratores, cioè della parola della Chiesa, per dirimere controversie, deporre re e imperatori, assegnare titoli ecc.

Su questi argomenti cfr. manuale di terza, cap. 2, § 2.1, pp. 35-39.