Il nazismo in Germania

Presentare il nazismo anche solo sotto il profilo storico, a maggior ragione se non si hanno mesi o anni a disposizione per sviscerarne tutte le sfaccettature, è motivo di grande imbarazzo. Si tratta, infatti, come è ben noto, di un evento davvero unico nella storia dell’umanità, di durata relativamente breve (12 anni in tutto, di cui 6 di relativa pace e 6 di guerra aperta, dal 1933 al 1945), ma che cionondimeno ha comportato conseguenze incalcolabili sia sotto il profilo strettamente storico (lo scoppio della più terribile guerra mai combattuta sulla Terra, il più premeditato e sistematico genocidio che la storia ricordi, la nascita dell’Onu e del mondo contemporaneo, con la scomparsa, per decenni, delle guerre in Europa – salvo l’eccezione costituita dalla ex Jugoslavia – e il lungo periodo della cosiddetta “guerra fredda” tra superpotenze dotate dell’arma nucleare…), sia, forse ancor di più, sul piano filosofico (nel campo, in particolare della teoria politica, ma anche dell’antropologia, o riflessione sulla natura umana, e della psicologia delle masse…).

Tutte le interpretazioni di tale fenomeno appaiono limitate e parziali, riferite a questo o quell’aspetto di esso (economico, sociologico, psicologico, politologico, perfino legato alla storia delle sette religiose e dell’esoterismo, di cui il nazismo era imbevuto), ma forse mancano l’appuntamento di una comprensione esauriente e complessiva, che renda pienamente ragione della sua comparsa. L’esplorazione del nazismo, in particolare dei suoi lati più oscuri, sollecita una riflessione su noi stessi, che non vorremmo forse condurre a termine. Ci potremmo chiedere, infatti, quanto quello che è stato definitivo il “male assoluto” (secondo p.e. Papa Benedetto XVI non era escludersi una vera e propria interferenza demoniaca sull’agire di Hitler e dei nazisti) possa esercitare ancora su di noi, magari per la sua “estetica” o per il suo stesso estremismo politico e dottrinale, una sorta di sinistra fascinazione.

In ogni caso il nazismo rimane, quasi “sbalzato” dal concreto contesto storico che vide la sua nascita e la sua morte, appunto in quanto “male assoluto” nella sfera politica, un paradigma negativo, a cui spesso ci si riferisce come a una sorta di buco nero dal quale si invita a stare alla larga (quando ad es. si fanno paragoni tra i genocidio ebraico e altri passati o possibili genocidi o tra l’atteggiamento di questo o quel “tiranno” del nostro tempo e la figura di Hitler assurta quasi a sinonimo di dittatore tanto assoluto quanto spietato per antonomasia).

Nonostante tali difficoltà il nostro compito è cercare di inquadrare storicamente il fenomeno del nazismo, anche solo per provare a circoscriverlo e riflettere sull’impossibilità di una sua riedizione negli stessi esatti modi in cui esso così drammaticamente ebbe luogo.

Per prima cosa ci possiamo chiedere perché in Germania la dittatura nazionalsocialista si affermò quasi dieci anni dopo l’avvento del fascismo al potere in Italia.

In effetti la situazione della Germania negli anni ’18-20 non era molto diversa da quella italiana, anzi era più drammatica, dal momento che la Germania aveva perso la guerra. Vi si assistette a un equivalente del nostro biennio rosso, con la proclamazione di una sfortunata “repubblica dei consigli”, soffocata nel sangue della repressione ordinata dal governo legittimo (a guida socialdemocratica) e operata dai cosiddetti Freikorps, gruppi di ex militari di estrema destra, molti dei quali sarebbero confluiti nel nazismo, che si resero responsabili, tra l’altro, dell’assassinio di Rosa Luxemburg (la celebre intellettuale comunista che si era espressa criticamente, come sappiamo, nei confronti del leninismo). Erano gli anni della devastante inflazione del marco tedesco resa inevitabile dalla necessità di ottemperare al versamento del debito di guerra fissato dal trattato di Versailles.  Nel ’23 Hitler cercò esplicitamente di imitare la marcia di Roma di Mussolini tentando il fallito putsch di Monaco (a cui seguì la stesura, in carcare, del Mein Kampf, il libro in cui il futuro dittatore esponeva la sua dottrina politica, dottrina aberrante che avrebbe quasi completamente e letteralmente attuato dopo la sua ascesa al potere, davanti all’incredulità dei più). Tuttavia, forse grazie al senso dell’obbedienza dei Tedeschi (e, in particolare, dei militari) verso il potere costituito (quello stesso senso dell’obbedienza su cui in seguito farà gioco lo stesso nazismo), la repubblica democratica uscita dalle ceneri del Secondo Impero (o Secondo Reich) tedesco, la cosiddetta repubblica di Weimar (dalla città in cui fu firmata la costituzione, nel 1919), si salvò. Essa poté sopravvivere, in seguito, nonostante la minaccia sempre rappresentata da un esercito che costituì sempre un potere parzialmente autonomo (e che rimase tale, sotto taluni aspetti, perfino durante il nazismo), grazie anche agli aiuti americani (piano Dawes, quindi piano Young), almeno fino alla crisi del ’29: con il denaro americano i Tedeschi potevano pagare i danni di guerra ai Francesi i quali, a loro volta, restituivano i prestiti contratti con gli Americani durante la guerra.

La repubblica di Weimar (cfr. cap. 5, § 3) va ricordata essenzialmente per due ragioni:

  1. per l’enorme sviluppo culturale e scientifico (che l’ha resa quasi “mitica”), dall’elaborazione delle teorie della relatività di Einstein e della fisica dei quanti, alle riflessioni epistemologiche su tali nuove teorie ad opera dei loro stessi teorici e di altri, dalla Scuola di Francoforte di Adorno, Horkheimer e Marcuse (che sviluppò un’originale teoria sulla società dei consumi rifondendo marxismo e psicoanalisi) al Bauhaus, gruppo di artisti di varia estrazione e cultura che svilupparono nuove idee in campo soprattutto, ma non solo, architettonico, dal teatro di Brecht al cinema e alla pittura dell’espressionismo ecc.;
  2. per l’adozione di una costituzione scritta notevolmente avanzata in termini di estensione dei diritti politici e civili, di equilibrio tra i poteri dello Stato ecc., ma che, per sua stessa fragilità, non impedì l’ascesa formalmente legale di Hitler (come legale era stata l’ascesa al potere di Mussolini).

Veniamo ora a questa stessa ascesa. Premessa diretta fu, come accennato, la fine degli aiuti americani e il ripiombare della Germania nella crisi economica e, soprattutto, occupazionale.

La cosa migliore, considerato quanto detto nella lunga premessa di questa pagina, è forse “sezionare” il nazismo, a partire dal suo avvento al potere, per “temi”, piuttosto che seguire meccanicamente il suo sviluppo (dall’ascesa al potere in poi) in senso cronologico. In tal modo possiamo, quando il tema lo suggerisce, recuperare anche le premesse culturali da cui la dottrina nazionalsocialista prese le mosse ben prima dell’ascesa al potere di Hitler.  A questo fine possiamo consultare questa scheda video, che segue questi criteri espositivi, differenziandosi dal “solito” documentario sul nazismo (in rete se ne possono reperire a decine, forse a centinaia, alcuni di ottima qualità, ma tali, forse, da presentare le cose nella loro “fatticità” – cosa che si può fare più semplicemente studiando il manuale (cfr. cap. 10, § 1) – , senza suggerire possibili chiavi di lettura che possano approfondire il fenomeno).

Per quanto riguarda i passaggi fondamentali che portarono Hitler al potere, su cui tanto il manuale quanto la scheda proposta sono piuttosto reticenti, vale la pena ricordare, per sottolineare la formale legalità della cosiddetta Machtübernahme o presa dal potere, che il NSDAP (National-Socialistische Deutsche Arbeits-Partei, cioè il Partito Nazionalsocialista Tedesco del Lavoro) ottenne più del 37% dei voti (e pressoché altrettanta parte dei seggi, dato il vigente sistema elettorale proporzionale) nelle elezioni del 1932, divenendo il primo partito, ma senza la maggioranza assoluta che gli permetesse di governare. Il Presidente Hindenburg, eletto una prima volta nel 1925 e rieletto nello stesso 1932 proprio contro Hitler (che in quest’occasione sfiorò al ballottaggio sempre il 37% dei consensi), in virtù delle prerogative che gli concedeva la costituzione di Weimar incaricò di formare il governo altri personaggi prima di conferire l’incarico a Hitler, quali i conservatori von Papen e Schleicher, che, tuttavia, non disponevano di una solida maggioranza (perché il Parlamento era diviso tra comunisti, partiti democratici e nazionalisti di destra, raggruppamenti che non intendevano dialogare tra loro e il sistema elettorale e costituzionale impediva la formazione di governi stabili). Paradossalmente l’incarico a Hitler fu alla fine assegnato nel gennaio del 1933 dopo una tornata elettorale in cui il partito del futuro dittatore aveva perso significativi consensi. La soluzione si trovò perché Hitler rinunciò a formare un governo di soli nazisti, ma accolse tra i ministri anche cattolici e conservatori. Raggiunto così il cancellierato, prendendo a pretesto l’incendio del Reichstag, che gli permise di mettere fuori legge i comunisti (aumentando così artificialmente il peso del partito nazista), nel giro tre mesi, grazie anche un’ulteriore tornata elettorale che fece raggiungere al partito nazista il 44% dei voti, Hitler completò la Machtübernahme e iniziò a uniformare (o “sincronizzare”) tutta la società al nuovo regime (Gleichschaltung), mettendo fuori legge tutti gli altri partiti, i sindacati e concentrando su di sé i pieni poteri, successivamente “ratificati” anche dal popolo tramite plebiscito (dopo che, con la morte di Hindenburg, nel 1934 assunse anche la carica di capo dello Stato, comandante in capo dell’esercito, e iniziò a farsi chiamare universalmente Führer). Come si può osservare, la conquista del potere e la successiva “sincronizzazione” avvennero in modo formalmente legale, nonostante le violenze e le minacce messe in atto dalle S.A., l’organizzazione paramilitare del partito nazista, e anche sulla base di un notevole consenso popolare (certamente non maggioritario e neppure del tutto “spontaneo”, ma comunque consistente), favorito dall’uso sapiente dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e da una propaganda che sapeva ricorrere a una retorica adatta a generare consenso.

Per quanto riguarda la tesi del documentario, ripresa dal libro Kaputt dell’italo-tedesco Curzio Malaparte, secondo la quale sarebbe stata la paura a determinare l’atteggiamento e il comportamento dei Tedeschi durante il nazismo e la Seconda Guerra Mondiale, si potrebbe intenderla, dal momento che, come lo stesso Malaparte asserisce, la paura in questione non sarebbe la paura della morte o del dolore, ma del “diverso”, come paura di venire infettati e contaminati (di qui la rappresentazione dell’ebreo come di un topo, la condanna degli stupri commessi contro le donne ebree durante la notte dei cristalli, a fronte delle assoluzioni degli omicidi perpetrati in questa stessa occasione ecc.) e, per converso, un desiderio esasperato di “igiene” e di purezza (supposta “razziale”).

Per quanto riguarda la figura di Hitler, di cui né il manuale, né il documentario approfondiscono la biografia, può essere interessante ricordare quanto segue. Adolf era di nazionalità austriaca (ragion per cui dovette a più riprese ricevere lezioni di pronuncia tedesca), ma militò nell’esercito di Guglielmo II. Fin da giovane si nutrì di ideologia antisemita, senza frequentare scuole regolari. Dopo la guerra, durante il biennio rosso, fu per qualche tempo informatore dell’esercito. Con questo incarico “spiò” le prime riunioni del piccolissimo partito dei lavoratori tedeschi (nel ’20). Finì in breve tempo, per il suo carisma e le sue doti oratorie, per diventarne leader, cambiando il suo nome in  Partito Nazional-Socialista Tedesco del Lavoro e adottando come simbolo la svastica. Si tratta di un antico simbolo solare hindu, che già figurava, accanto a un gladio romano, nel simbolo dell’organizzazione esoterica Thule da cui molti nazisti provenivano (come Himmler, per esempio). Hitler decise, per distinguere il nuovo movimento, di rovesciare l’orientamento della svastica (segno di malaugurio secondo le stesse dottrine esoteriche, di cui personalmente Hitler non fu mai appassionato, a differenza di molti altri gerarchi). Il nuovo nome del partito (nazional-socialista) doveva collocarlo nell’ambito di quei movimenti nazionalisti che, come il fascismo italiano, volevano appoggiarsi al popolo (anche se soprattutto a ceti medi e disoccupati), imitando alcuni stilemi dei coevi movimenti socialisti (Mussolini, come sappiamo, era socialista; il rosso, che circondava la svastica, ha la medesima origine del rosso della bandiera rossa comunista,  a sua volta di antica tradizione, risalente, a quanto pare, alle bandiere del movimento anabattista dei contadini guidati nel Cinquecento da Thomas Müntzer, evocativo del sangue, adottato successivamente dai movimenti repubblicani e anarchici dopo la Rivoluzione Francese). In effetti, durante il regime, Hitler, pur organizzando Stato, partito ed esercito, su basi fortemente gerarchiche, sotto un altro profilo pose tutti i cittadini tedeschi, di sicura stirpe ariana, su un piano di pari dignità, in quanto membri del medesimo Reich, adottando politiche sociali non dissimili da quelle di Mussolini, che lo aiutarono a conservare un ampio consenso; anche se non si spinse molto oltre in questa direzione, dopo aver liquidato fisicamente l’ala sinistra del partito, nel 1934, (rappresentata dalle S.A. di Röhm), per conservare l’alleanza dei gruppi industriali tedeschi (come detto in aula la politica economica interna del regime fu improntata a criteri di libero mercato, anche se lo Stato condizionò pesantemente le scelte delle aziende attraverso le sue commesse, soprattutto militari, mentre alcune aziende, a loro volta, sfruttarono ampiamente, soprattutto durante la guerra, la manodopera coatta dei campi di concentramento).