Finalismo o meccanicismo?

La critica aristotelica ai presocratici pone ancor oggi una questione tutt’altro che risolta.

L’universo si spiega ricorrendo a sole cause meccaniche (materiali o efficienti), come sembra suggerire la moderna scienza della natura, o si devono invocare anche cause formali e finali (oggi in genere si fa riferimento a un intelligent design più o meno legato alla fede in un Dio provvidente e misericordioso)?

Lo stesso Aristotele, come abbiamo visto, in un passo della Fisica (cfr. anche U4, cap. 4, t1, pp. 334-35) sembra per un attimo dare credito all’ipotesi darwinistica ante litteram che le cause finali siano solo apparenti e che l’ordine (in particolare l’organizzazione funzionale dei viventi) possa essere scaturito dal caso (o dal caos), salvo poi confutare questa ipotesi.

Leggi qui un’interpretazione di questo passo che l’associa alle moderne vedute evoluzionistiche (la prima parte di quest’interpretazione ti aiuta a intendere a fondo il testo aristotelico; la seconda parte, a partire dal riferimento alle teorie di David Bohm, non serve comprenderla a fondo, ma ti serva di spunto per intuire i possibili sviluppi della problematica finalismo/meccanicismo fino ai giorni nostri).

D’altra parte già nel mondo antico, non solo Empedocle, ma soprattutto gli atomisti (chiamati da Aristotele genericamente “fisici” o “meccanicisti”), elaborarono una concezione che consentiva loro di escludere le cause finali e formali, “giocando” su un numero infinito di atomi in movimento, spazi e tempi infiniti. Cfr- U1, cap. 4; § 2, da La struttura atomica della realtà, pp. 73-76.

Come spiegare non solo la straordinaria varietà di “cose”, ma soprattutto l’apparente finalità dell’organizzazione dei corpi (soprattutto viventi)? Come è possibile, in altre parole, che gli atomi, combinandosi a caso, producano esseri viventi così complessi e organizzati, che sembrano, invece, obbedire a un progetto?

Un moderno tentativo di risposta a questo quesito è offerto dalla teoria darwiniana (XIX sec.) della selezione naturale dell’organismo casualmente più adatto (che sembra fosse stata anticipata da Empedocle di Agrigento nel VI sec. a. C.).

L’atomismo risponde a questo stesso quesito introducendo l’ipotesi che gli atomi siano in numero infinito, come infinito è lo stesso spazio (infatti, se incontrassimo un limite, il limite separerebbe il nostro spazio da un altro spazio, dunque ci sarebbe sempre dell’altro spazio oltre qualunque limite concepibile). Se gli atomi sono infiniti e il tempo che hanno a disposizione è infinito, essi si possono ricombinare in un infinito numero di modi, compreso il modo di cui facciamo esperienza attualmente, cioè il nostro mondo. Il quale, quindi, risulta spiegato.

In un celebre racconto lo scrittore argentino Luis Borges immagina, analogamente, una biblioteca, la cd. Biblioteca di Babele, contenente un infinito numero di volumi le cui pagine sono scritte attraverso tutte le infinite combinazioni possibili di un numero finito di lettere (21 o 26). Una simile biblioteca può raccogliere tutte le opere letterarie possibili (comprese, quindi, quelle reali che conosciamo), senza che sia necessario supporne alcun “autore” consapevole.

D’altra parte lo stesso Aristotele, pur ritenendo implausibile la soluzione degli atomisti, non spiega esaurientemente l’origine delle cause finali (e formali). Cfr. U4, cap. 4, § 1, La concezione finalistica della natura, p. 324.

Una soluzione, sotto questo profilo, è quella offerta da Platone, riveduta e corretta, poi, dai neoplatonici e dai teologi delle religioni monoteistiche del Mediterraneo (ebraismo, cristianesimo, Islam): nel dialogo Timeo Platone immagina che un divino demiurgo (artefice) abbia “creato”, meglio “plasmato” il mondo dando a una “materia” (preesistente, coeterna) le forme delle idee (cfr. U3, cap. 2, § 5, Il mito del demiurgo, pp. 240-41). Questa soluzione viene ripresa dalla teologia successiva nella seguente versione: il creatore del mondo non è un dio subordinato al mondo delle idee, ma è lo stesso Dio supremo, mentre le idee non sono che i suoi divini pensieri (il loro mondo costituisce quel Lògos mediante il quale, come dice il Vangelo di Giovanni, “tutto è stato fatto”). In questa concezione il “male”, il fatto che non sempre i fini e le forme delle cose siano come si desidera che siano, viene imputato all’incapacità della “materia” (intrinsecamente caotica e informe) di assumere su di sé perfettamente la forma ideale che le si vorrebbe imprimere.

Certo, il problema dell’origine del male (dell’informe ecc.), è più grave in quelle prospettive, come quella degli antichi stoici, pure ripresa dalle religioni monoteistiche, che negano ogni spazio al caso (agli eventi che Aristotele chiama “accidentali”): se tutto è voluto da Dio e Dio è pura provvidenza, come spiegare il male? Di solito gli stoici ricorrevano all’esempio del cranio: il fatto di avere un cranio fragile, che ci espone a traumi, può sembrare frutto di un errore divino; ma, se non avessimo un cranio leggere, saremmo impediti nei nostri movimenti; in generale “non tutto il male viene per nuocere” e il nostro resta, come dirà il filosofo Leibniz, il “migliore dei mondi possibili”. Cfr. U5, cap. 3, § 3, La vita del cosmo, pp. 421-23.

La visione degli stoici, in quanto concepisce un Dio immanente (interno) al mondo, piuttosto che esterno, ricorda quella dei presocratici della Ionia, nell’interpretazione che ne possiamo dare sulla base di diversi frammenti. A differenza della lettura che ne dava Aristotele (i presocratici si sarebbero limitati a spiegare tutto in termini di cause materiali e, in qualche caso, efficienti o motrici), si può intendere la frase di Talete “tutto è pieno di dei”, come se Talete volesse dire che la “materia” (sia questa l’acqua di Talete, l’aria di Anassimene o il fuoco di Eraclito) è viva, dunque si dà da se stessa i propri fini e la propria forma (concezione chiamata ilozoismo o pampsichismo, che ritorna in certe concezioni filosofiche del nostro Rinascimento, dell’età romantica ecc.): in questa concezione non sarebbe un Dio trascendente, esterno al mondo, (o un demiurgo) a dare alle cose e ai viventi i loro fini e la loro forma, ma la Natura stessa, personificata, divinizzata, a darsi una forma e un fine (p.e. a cercare di divenire cosciente di se stessa nell’uomo), operando ogni cosa per il meglio. Cfr. (di nuovo) U1, cap. 2, § 2, pp. 25-29.