La filosofia “sfida” la morte?

Abbiamo letto che secondo Aristotele (cfr. U1, cap. 1, t2, p. 23)  possono filosofare (avendo provato meraviglia) solo coloro che hanno raggiunto un certo grado di “benessere e agiatezza”. Questa teoria si può esprimere anche evocando la sentenza latina: “primum vivere, deinde philosophari“, che suggerisce come, prima di pensare a farsi troppe domande, la cosa importante è procurarsi di che vivere.

Come suggerisce Enrico, alcuni casi, come quello di Diogene di Sinope, che viveva in una botte, suggeriscono che ci si possa accontentare davvero di poco (si possa, cioè, più che voler vivere, limitarsi a “sopravvivere”), come condizione per poi dedicarsi alla filosofia.

Eppure, altri casi, certamente estremi, ma non meno celebri, indicano che, talora, il filosofo è pronto perfino a morire, pur di non smettere di fare “il suo mestiere”.

Così Zenone, entrato in collisione col tiranno Falaride, venne bruciato vivo dentro un toro di metallo, senza emettere alcun gemito, pur non di non sottomettersi al tiranno; Seneca preferì il suicidio alla sottomissione al suo ex allievo Nerone; Ipazia, filosofa platonica, nel IV sec. d. C., fu massacrata da fanatici cristiani per non essersi voluta convertire alla nuova religione; Giordano Bruno, nel 1600, fu arso vivo a seguito di una sentenza del tribunale dell’inquisizione, per non aver voluto ritrattare la propria filosofia. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Ma l’esempio più celebre, che, tra l’altro, presenta notevoli paralleli (ma anche differenze) con il caso della condanna di Gesù, è senz’altro quello del processo a Socrate, conclusosi con la condanna a morte del filosofo. Se Socrate costituisce, in generale, un paradigma (esempio, modello) del filosofo, la sua morte “eroica” costituisce a sua volta un paradigma del “martirio” del filosofo, che rimane fedele alle sue idee.

Leggi, dunque, il resoconto che Platone fa delle fasi salienti del processo.

Approfondisci, quindi, l’argomento sul manuale (cfr. U2, cap. 2, § 7, pp. 140-41).

Finora sembra, dunque, che si possano individuare due diverse nozioni di filosofia.

  1. Per filo-sofia possiamo intendere, con Socrate e Platone, l’amore (o la ricerca) della saggezza, intesa a sua volta come scienza del bene. Se è vero l’intettualismo etico (o socratico), cioè la teoria di Socrate secondo la quale chi conosce il bene non può non farlo, la ricerca (della conoscenza) del bene sarebbe la cosa più necessaria (di fatto la svolgiamo, anche inconsciamente, per decidere qualsiasi cosa) e più utile del mondo (gli altri saperi sarebbero inutili o dannosi senza la conoscenza del bene, cfr. l’Alcibiade maggiore). Per conoscere il bene si dovrebbe essere disposti anche a rischiare la vita (dal momento che non si sa se la morte sia un bene o un male, mentre ricercare il bene è senz’altro la cosa migliore da fare finché non lo si conosce, cfr. l’Apologia di Socrate).
  2. Per filo-sofia possiamo, però, intendere, con Aristotele, l’amore (o la ricerca) della sapienza, cioè della conoscenza di ogni cosa (non solo del bene), praticata per amore della sola conoscenza. Secondo Aristotele (cfr. Metafisica) parrebbe che questa ricerca sia possibile solo se prima si sono soddisfatti i bisogni fondamentali, anzi quando si abbia già un certo grado di agiatezza e di benessere (altro che essere disposti perfino a morire pur di svolgerla!).

Possiamo, a questo punto, considerare ora quello che Platone mette in bocca a Socrate in un celebre passo del Teeteto, nel quale viene evocata anche la buffa caduta di Talete nel pozzo mentre contemplava le stelle, e possiamo associare tale racconto al passo quello altrettanto famoso della Politica di Aristotele in cui si racconta dell’abilità “speculativa” dello stesso Talete (che si dimostrò capace di fare un grosso affare):

... Queste sono tutte cose utili a chi apprezza l’attività d’affari, anche per esempio la trovata di Talete di Mileto. È questa in effetti una pensata affaristica: è vero che gliela attribuiscono per la sua sapienza, ma è cosa che vale in generale. Siccome gli rinfacciavano per via della sua povertà l’inutilità della filosofia, affermano che avendo egli capito che vi sarebbe stata una grande produzione di olive in base allo studio degli astri, quand’era ancora inverno provvistosi di poche sostanze riuscì  a dar caparre per i frantoi di Mileto e di Chio, tutti quanti, prendendoli a nolo per poco visto che nessuno offriva di più. Quando poi venne il momento che erano in molti a ricercare i frantoi tutti insieme e all’improvviso, dandoli in affitto al modo che voleva lui, radunate molte sostanze giunse a mostrare che per i filosofi è facile arricchire se lo vogliono, ma non è questo ciò di cui si preoccupano.
[Aristotele, Politica, A 11 1259a6]

Sembra emergere quanto segue.

Anche per Platone (e Socrate) sembra che il filosofo, come “tipo”, si distingua p.e. dall’avvocato e, in generale, da chi vive perseguendo questo o quell’interesse personale,  perché ricerca la conoscenza (delle “essenze”, cioè di che cosa sono le cose in generale) per amor di verità (o per curiosità). Dunque, si direbbe che anche per Socrate/Platone, come per Aristotele, il filosofo non cerchi solo il bene, ma ogni cosa (la sapienza). Egli sarebbe libero e non servo perché non è condizionato da alcunché in tale ricerca (come dimostrano entrambi gli aneddoti riferiti a Talete), proprio come Aristotele, nella Metafisica, chiama libera la filosofia per la stessa ragione.

Tuttavia, la libertà che Platone attribuisce al filosofo (come ricercatore disinteressato di ogni sapere) sembra più radicale (estrema) di quella che gli attribuisce Aristotele. Mentre Aristotele sembra supporre che per poter godere di tale “ozio” il filosofo debba essere sufficientemente ricco (economicamente autonomo), in Platone sembra che il filosofo, proprio perché non si cura delle cose personali e non è condizionato da niente e da nessuno, possa essere anche molto povero o, perfino, rischiare continuamente la vita (come fece effettivamente Socrate durante il processo).

Inoltre ci sarebbe da chiedersi se non vi sia una stretta conessione tra la ricerca della saggezza (della scienza del bene) e la ricerca della sapienza (della conoscenza di tutto). Platone, ad esemoio, come abbiamo letto, in testi diversi, sembra considerare la filosofia entrambe le cose.

Quale potrebbe essere questa connessione? Se le altre conoscenze senza la conoscenza del bene possono essere perfino dannose (come leggiamo nell’Alcibiade minore), forse, però, proprio per conoscere il bene essere potrebbe rivelarsi utile conoscere altre cose, anzi forse tutte le altre cose. Come dire: non c’è saggezza senza sapienza.

Ad esempio se sapessi di avere un’anima immortale e che il suo destino è legato al modo in cui mi comporto in questa vita, il mio bene sarebbe agire in un certo modo (per esempio osservare i comandamenti divini).

Se, viceversa, sapessi di essere il mio corpo mortale e che non ci sono premi e castighi ultraterreni, potrei considerare il mio bene qualcosa di molto diverso (per esempio perseguire il piacere ed evitare il dolore).

Dunque, a seconda di quello che so (o credo di sapere) che l’universo sia in generale (a seconda del mio grado di sapienza) assumerò questo o quell’atteggiamento etico, cioè valuterò in questo o in quel modo quale sia il mio bene (diverso sarà il mio grado di saggezza).

Anche ammettendo questa “conciliazione” tra ricerca della saggezza e ricerca della sapienza resta, però, ancora un problema. Secondo Aristotele (ma anche secondo il Teeteto di Platone) sembrerebbe che la ricerca della sapienza debba essere fine a se stessa per potersi dire libera, cioè non asservita ad altri scopi. Ma, se cerchiamo la sapienza (cioè di sapere tutto) allo scopo di essere felici (di comprendere  e realizzare il nostro bene), sembrebbe che “asserviamo” (noi diremmo: “strumentalizziamo”) la filosofia come ricerca della sapienza alla filosofia come ricerca del bene. Come se ne esce?