L’empirismo di John Locke

La filosofia di Locke è rilevante non solo per la giustificazione che fornisce al costituzionalismo politico, ma anche come origine dell’empirismo moderno, che vedrà tra i suoi cultori Berkeley e Hume e che contraddistingue, ancor oggi, il “senso comune” scientifico.

Rispetto all’empirismo premoderno e allo stesso Bacone (moderno nelle intenzioni, ma ancora “rinascimentale” nei risultati, avendo immaginato una scienza sperimentale sì, ma attenta più agli aspetti qualitativi che quantitativi della natura) Locke si contraddistingue per la consapevolezza della rilevanza della nuova scienza della natura (è contemporaneo di Newton, che conosce e apprezza) e per l’adozione del nuovo concetto cartesiano di “idea” (in generale per l’adozione dell’atteggiamento soggettivistico “cartesiano”, cfr. l’adesione di Locke alla tesi “cogito ergo sum“).

Rispetto al razionalismo cartesiano, fondato sulla nozione di “idee innate”, Locke marca, tuttavia, una fondamentale differenza: tutte le idee sono per lui apprese o tramite sensazione (cioè dall’esterno) o tramite riflessione (cioè dall’interno) e si distinguono solo in quanto semplici (non ulteriormente scomponibili, evidenti in senso cartesiano) o complesse (queste ultime costruite dalla nostra ragione e soggette all’errore, ossia non sempre corrispondenti alla realtà e bisognose di continua verifica sperimentale).

Va notato che nonostante i limiti della conoscenza possibile che Locke onestamente ammette  (la conoscenza è in ultima analisi sempre solo probabile, data la sua base empirica), Locke, a differenza p.e.  di Hume, mette in luce la  fecondità e l’utilità dell’approccio empiristico che, se condotto seriamente, genera il massimo grado possibile di conoscenza a cui possiamo pervenire.

Cfr. U5, cap. 3, §§ 1-5, pp. 407-17.