Dalla crisi economica all’imperialismo

imperialismoLa storia d’Europa (che si fa inesorabilmente storia del mondo) tra 1870 e 1914 può venire interpretata come se scaturisse dalla c.d. grande depressione (economica) registrata tra il 1873 e il 1895.

In realtà i fattori che determinarono gli eventi e i processi di questa fase storica sono molto più complessi, ma può essere comodo prendere le mosse (quasi marxianamente) dagli aspetti economici, avvertendo che in molti casi questi, più che come vere e proprie “cause”, potrebbero essere intesi anche solo come “pretesti”, giustificazioni e occasioni per l’emergere di dinamiche più profonde.

I fattori (congiunturali e strutturali) che, a loro volta, determinarono la crisi economica (ai quali abbiamo già accennato in aula) sono illustrati nel manuale di quarta (d’ora in poi vol II), al cap. 18, § 1, pp. 519-24 (che termina con la delineazione dei primi, immediati effetti della crisi: il protezionismo economico, accennato già in aula, e la tendenza alla formazione di monopoli).

A quanto accennato in aula (in particolare alle dinamiche che portarono alla crisi di sovrapproduzione, secondo quanto previsto da Marx) il testo aggiunge un ulteriore interessante (anche se discutibile) fattore: l’arresto degli investimenti nel settore ferroviario (p. 522). Da aggiungere, invece, all’incidenza delle importazioni del grano americano a basso costo, anche quella delle importazioni del grano proveniente dalla Russia, sempre a basso costo (la riduzione dei prezzi dei beni di largo consumo, avvantaggiando le importazioni dall’estero, impoverisce i produttori locali, che, quindi, consumano meno; d’altra parte, chi acquista questi prodotti a basso prezzo si ritrova a disporre di più denaro per acquistare altri beni…).

Il manuale lega, poi, (cap. 1, § 2, pp. 524-31) strettamente alla crisi economica, l’avvio di quella nuova forma di colonialismo che va sotto il nome di imperialismo (il termine, come segnalato già a p. 519 risale a un fortunato testo di Hobson del 1902, di chiara ispirazione marxista, che, a sua volta, ispirò anche la riflessione di Lenin, esposta nel saggio Imperialismo, fase suprema del capitalismo, del 1916).

L’analisi è sostanzialmente corretta, anche se la più recente storiografia (rispetto al modello di Hobson fatto proprio sostanzialmente anche dagli autori del manuale) rileva nella ricerca da parte degli Stati, nelle colonie, di nuovi mercati nei quali esportare capitali e trovare nuovi acquirenti per i prodotti delle proprie industrie (in fase di sovrapproduzione) più un’intenzione o una giustificazione (accanto alle altre giustificazioni, come quelle “paternaliste” ricordate dal manuale alle pp. 530-31 e quelle, invece non evocate dal manuale, ispirate dal darwinismo sociale) per l’espansione coloniale, soprattutto in Africa, che un’azione coronata da successo (come dimostrano alcuni dati: a) la Francia esportò molti più capitali in Russia, p.e. per finanziare la costruzione della ferrovia transiberiana, di quanti non ne esportò nei suoi domini in Africa, traendo profitti molto maggiori in Russia che in Africa, anche perché in Africa spesso impegnò più risorse, p.e. in termini di spese militari, di quante non ne riuscisse a ricavare; b) Paesi come la Germania o la Russia giocarono a fine Ottocento e per la prima metà del Novecento – e anche oltre – un ruolo decisivo nella storia del mondo, senza che le scarse ed effimere loro esperienze coloniali in Africa o altrove abbiano avuto alcun peso al riguardo).

Rispetto a quanto accennato in aula (espansione inglese in Africa lungo un asse Nord-Sud vs espansione francese lungo un asse Ovest-Est, con il conseguente incidente, in Sudan, di Fashoda, nel 1898, di cui il manuale, tuttavia, non parla), il manuale riporta, poi, due eventi bellici significativi, legati all’espansione europea rispettivamente in Africa e in Asia: la guerra anglo-boera tra il 1899 e il 1902, vinta dagli Inglesi (con la fondazione dell’Unione Sudafricana, cfr. p. 526) e la guerra tra Russia e Giappone del 1904-05, vinta sorprendentemente dal Giappone (cfr. p. 528) per il controllo del mercato cinese, da cui scaturì, per reazione interna, la prima rivoluzione russa del 1905.

Interessanti e utili le riflessioni, suggerite dal manuale, sui diversi modelli di colonialismo (più penetrante e “totale”, anche se forse meno profittevole, in Africa e in certe regioni dell’Asia, come l’India inglese e l’Indocina francese; più “tradizionale”, legato al controllo del mercato, in Cina; nella forma delle “colonie di popolamento” da parte della Gran Bretagna in regioni come il Canada, il Sudafrica ecc.).

Per quanto riguarda § 3 del cap. 18, relativo al nuovo ciclo di espansione economica all’alba del Novecento,  trascurando il primo titolo dedicato alle cause (sempre di difficile individuazione), può essere sufficiente ricordare il ruolo, legato alla c.d. seconda rivoluzione industriale,  dell’industria chimica (p.e. dei coloranti), ma soprattutto dell’elettricità, del telefono, dell’acciaio (esempio: la Tour Eiffel a Parigi). Anche il petrolio era destinato a svolgere un ruolo sempre più rilevante, ma forse in una fase leggermente successiva (la diffusione dell’automobile era ancora molto scarsa) (cfr. pp. 533-35).

Del titolo relativo alla nuova divisione mondiale del lavoro (pp. 535-36) può bastare ricordare la concorrenza sempre maggiore della Francia e soprattutto della Germania nei confronti della Gran Bretagna, per quanto riguarda l’Europa, e l’affacciarsi delle due nuove grandi potenze industriali extraeuropee degli Stati Uniti e del Giappone.

A queste due potenze è dedicato il § 1 del cap. successivo, il 19, cfr. pp. 556-564.

Delle vicende che hanno portato Stati Uniti allo status di grande potenza basti sapere che è di quest’epoca l’espansione statunitense nel Pacifico (con la progressiva annessione delle Hawai, di Guam e delle Filippine) e la progressiva estensione dell’influenza degli Stati Uniti sull’America Latina (protettorato su Panama, sostegno all’indipendenza di Cuba della Spagna ecc.).

Per quanto riguarda il Giappone, dopo che questo Paese fu costretto proprio da una nave americana, nel 1853, a riaprirsi al commercio mondiale (dopo secoli di quasi totale isolamento), si ricordi la rapidissima reazione dei Giapponesi: nel giro di pochissimi decenni abbatterono il loro sistema quasi feudale per diventare un moderno Paese industriale, guidato in modo relativamente autoritario da un restaurato (1868) imperatore (o tenno), fino al punto da sconfiggere clamorosamente la Russia nella guerra del 1904 (e da annettersi la Corea, in modo da esercitare un’influenza crescente sulla “madre” Cina, da cui gran parte della cultura giapponese derivava).

Il manuale dedica molte righe a taylorismo e fordismo (pp. 536-39), nozioni che si sforza di distinguere, ma che spesso vengono usate come sinonimi: in sostanza nacque (negli U.S.A. per diffondersi poi in Europa) la moderna catena di montaggio, contraddistinta dalla parcellizzazione estrema delle fasi di lavorazione (e, dunque, in termini marxiani, di un aumento dell’alienazione dell’operaio), fenomeno su cui ironizza una celebre sequenza del film Tempi moderni di Charlie Chaplin. È vero, però, che, come spiega il manuale anche nella pagine successive (pp. 540-42) dedicate alla società di massa (cfr.  p. 540), delle quali basta leggere quasi i titoli (nascono cinema, grandi magazzini, stadi, insomma nasce la moderna società dei consumi di massa, prima negli U.S.A. e in Gran Bretagna, quindi nel resto d’Europa) si registrò anche un aumento dei salari, non previsto dall’analisi marxiana, che rese meno economicamente svantaggiate le condizioni (psicologicamente, invece, assai dure) degli operai e consentì, appunto, il diffondersi del consumismo tra tutti i ceti . Tra i fattori che determinarono tale aumento salariale e, in generale, il miglioramento delle condizioni degli operai il testo segnala giustamente, oltre alla diffusione dell’industrializzazione (che rese più “preziosa” la “merce” lavoro), l’azione dei sindacati (a cui possiamo aggiungere quella dei partiti socialisti, sovente di ispirazione marxista, ma tali da avere di fatto rinunciato all’obiettivo rivoluzionario, a vantaggio di conquiste più concrete e immediate).

Del cap. 19 la sezione più interessante è quella che riguarda il difficile equilibrio europeo (§ 2, pp. 564-571), con particolare riguardo alle vicende della Germania, che, dopo la sua costituzione nel 1871, a seguito della guerra franco-prussiana, era il Paese di fatto egemone in Europa.

Rilevante, in particolare, è la cosiddetta questione orientale, relativa all’assetto dei Balcani a seguito del disfacimento dell’impero ottomano: il congresso di Berlino del 1878 costituì un tentativo significativo, ma in ultima analisi insufficiente, di pervenire a una soluzione concordata tra le maggiori potenze (si veda la cartina a p. 567). Il fallimento di questi tentativi, reso evidente dalle reiterate guerre balcaniche (che portarono alla nascita degli Stati che ancor oggi contraddistinguono i Balcani: oltre la Grecia, già sorta nella prima metà dell’Ottocento, Bulgaria, Serbia, Romania, Albania, Montenegro, Bosnia), può essere considerato uno dei fattori che determinò lo scoppio della prima guerra mondiale.

Dall’altro lato è interessante comprendere come si giunse al sistema di alleanze che contraddistingueva l’Europa alla vigilia della prima guerra mondiale: da un lato la Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Italia (patto stipulato, nonostante la tradizionale posizione anti-austriaca, nel 1882 da un’Italia, irritata per l’espansione francese in Tunisia e desiderosa di uscire dall’isolamento europeo), dall’altro lato la Triplice Intesa tra Gran Bretagna, Francia e Russia. Questa contrapposizione finale tra i due sistemi di alleanze (anche se, come si sa, l’Italia si sarebbe poi sfilata dalla Triplice Alleanza per associarsi ai Paesi dell’Intesa nella guerra contro gli imperi centrali) può considerarsi il fallimento del progetto di Bismarck: quello di un equilibrio europeo centrato sulla e garantito dalla Germania. A questo fine Bismarck aveva promosso il riavvicinamento della Germania non solo all’Austria (patto del 1879), ma anche alla Russia (nel reiterato e fallito patto dei tre imperatori e poi nel cosiddetto patto di “controassicurazione” con la Russia, cioè che la Russia non sarebbe comunque entrata in guerra contro la Germania nel caso di un attacco a questa da parte della Francia). Sull’altro fronte la conclusione a fine Ottocento dell’espansione coloniale in Africa portò a un riavvicinamento tra Francia e Gran Bretagna (entente cordale del 1904), quando già vigeva dal 1894 la Duplice intesa tra Francia e Russia (legata, quest’ultima, anche ai forti investimenti francesi in Russia).

In generale poi (§ 3, pp. 571-74) si registra in Europa verso la fine dell’Ottocento (con la fine della crisi economica) anche una significativa (e imprevista) tendenza “reazionaria” in diversi Stati, talora sostenuta anche da strati popolari e contadini, sensibilizzati alla propaganda nazionalistica (battaglia del governo tedesco contro i socialisti, atteggiamenti anti-dreyfusardi durante l’affaire Dreyfus in Francia, cfr. p. 573, stretta autoritaria in Italia, conservatori al potere in Gran Bretagna ecc.), legata al fatto che le borghesie di questi diversi Paesi avevano in generale cambiato avversario: dalla classe militare-nobiliare (con la quale tendevano anzi ora ad allearsi) alla classe operaia; alla quale stretta segui, tuttavia, ai primi del Novecento, con il cambiamento della congiuntura economica e l’esaurimento dell’espansionismo coloniale, una fase di rinnovamento della fiducia nella democrazia (età giolittiana in Italia, affermazione definitiva degli ideali repubblicani e “dreyfusardi” in Francia, rinuncia in Germania alla persecuzione anti-socialista, ritorno dei liberali al governo in Gran Bretagna ecc.).