L’inizio della dominazione spagnola in Italia

L’Italia nell’aureo periodo del primo rinascimento (o, come alcuni lo chiamano, umanesimo), dalla pace di Lodi (1454) alla discesa di Carlo VIII (1494), Paese ricco di cultura ed economicamente avanzato, probabilmente il Paese più progredito al mondo sotto moltissimi profili, modello di civiltà per gli altri Stati europei, subisce al passaggio dal XV al XVI secolo uno scacco dal quale non si sarebbe più completamente ripresa.

Carlo_VIIICome sappiamo, Carlo VIII fallì nel suo tentativo di appropriarsi del regno di Sicilia (Napoli). Ma la facilità della sua discesa, favorita da Ludovico il Moro e da diverse fazioni interne ai diversi stati italiani, può essere paragonata alla facilità con cui un coltello penetra nel burro.

E, infatti, nel 1499 quello che non riuscì a Carlo VIII, riuscì al suo successore Luigi XII (sempre di Valois), che conquistò Milano scacciandone Ludovico il Moro (percepito dagli stessi Milanesi come un usurpatore). Da questa data il ducato di Milano non riguadagnò, sostanzialmente, più la sua indipendenza fino a quando fu assorbito nel nascente regno d’Italia (1859-61). Negli anni su cui ci stiamo soffermando, quelli delle c.d. delle guerre d’Italia (1494-1559), riapparvero di quando in quando gli Sforza a reggere il ducato, ma come veri e propri vassalli (non solo formali) dell’impero. Così, durante l’età napoleonica – 1797-1814 – risorse una repubblica, quindi un regno d’Italia con capitale Milano, ma di fatto sotto l’egemonia francese.

L’anno dopo la caduta del Moro, nel 1500, iniziò la spartizione, concordata a Granada, del regno di Napoli tra Francia e Spagna, che, dopo contrasti sorti tra le due potenze atlantiche, si risolse con la definitiva annessione del regno da parte della Spagna (trattato di Blois del 1505, riconfermato da trattati successivi, fino alla pace di Cateau-Cambrésis del 1559). Anche Napoli, come Milano, subì, dunque, da allora, la dominazione straniera per secoli, almeno fino al 1734, quando, dopo il passaggio dalla dominazione spagnola a quella austriaca (1713-14: paci di Utrecht e Rastatt), che coinvolse anche Milano, guadagnò l’indipendenza sotto la dinastia dei Borbone che, tuttavia, restava nell’orbita dei Borboni di Spagna e di quelli di Francia).

L’unico stato che conservò una certa forza, perfino accresciuta durante la prima fase delle guerre d’Italia, durante le quali fece il proprio gioco, senza minimamente preoccuparsi di difendere l’Italia dagli stranieri, fu Venezia, che raggiunse anzi la massima estensione, arrivando a comprendere, in una certa fase, ampi territori della Romagna e alcune basi in Puglia. Proprio questa espansione inquietò le altre potenze che, ispirate dal papa Giulio II (che a sua volta voleva assumere il pieno controllo della Romagna, già dominata da Cesare Borgia, il duca Valentino, figlio naturale del precedente papa Alessandro VI), si coalizzarono nella lega di Cambrai contro Venezia e la sconfissero sonoramente ad Agnadello nel 1509. AgnadelloSembrava che fosse tutto perduto, se Venezia non fosse stata salvata (oltre che da un accorta azione diplomatica, che le costò, tuttavia, le ultime conquiste) dal popolo, che insorse contro le truppe dell’Impero. Questa vicenda, se da un lato segnò l’inizio del tramonto politico, oltre che economico (dovuto all’apertura delle nuove rotte oceaniche), della Serenissima, dall’altro lato mostra quanto i contadini del Veneto (e del Friuli) fossero legati alla Repubblica di San Marco, .

Tale circostanza fu segnalata con ammirazione anche da Niccolò Machiavelli:

E tutto dì occorre [tutti i giorni capita] che uno di loro preso si lascia ammazzare per non negare el nome viniziano [veneziano]. E pure iersera ne fu uno innanzi a questo Vescovo, che disse che era Marchesco [cioè apparteneva alla repubblica di San Marco], e Marchesco voleva morire, e non voleva vivere altrimenti; in tal modo il Vescovo lo fece appiccare; né promessa di camparlo [di farlo sopravvivere], né d'altro bene lo possé trarre da questa opinione; dimodoché, considerato tutto, è impossibile che questi re [nemici di Venezia] tenghino questi paesi con questi paesani vivi.
[cit. in Tito Maniacco, Storia del Friuli, Newton Compton, Roma 1990, p. 94]

Dopo alterne vicende, tra le quali il tardivo tentativo di papa Giulio II di organizzare una “lega santa” contro gli stranieri  che ebbe per effetto un’effimera cacciata dei Francesi da Milano (riconquistata dai Francesi con la battaglia di Marignano), nel 1516, col trattato di Noyon, tra la Spagna e la Francia del nuovo sovrano, Francesco I di Valois, fu ratificata la situazione prodottasi al volgere del secolo: Milano alla Francia e Napoli alla Spagna.

Dopo l’elezione a imperatore del Sacro Romano Impero nel 1519 di Carlo V d’Asburgo, che la spuntò proprio su Francesco I di Francia e unificò le corone di Germania, Italia e Spagna, ricominciarono guerre di respiro europeo tra l’Impero e la Spagna da una parte e la Francia dall’altra (si tratta, sotto un certo profilo, della persistente conflittualità che dal tempo della divisione tra Franchi occidentali e Franchi orientali dopo la morte di Ludovico il Pio nell’840 oppose  Francesi e Tedeschi fino alla Seconda guerra mondiale). Tali guerre, tanto per cambiare, si combatterono prevalentemente sul suolo italiano, proseguendo nella devastazione del territorio e nell’indebolimento sia politico sia economico della penisola (mentre nel resto d’Europa esplodeva il conflitto di religione tra cattolici e protestanti, iniziato dalla pubblicazione della famose tesi di Lutero a Wittenberg nel 1517).

Per quanto riguarda questa fase di guerre si possono segnalare i seguenti eventi importanti (cioè forieri di numerose implicazioni):

  1. la vittoria di Pavia (1525) di Carlo V sui Francesi (10 anni dopo Marignano) che portò Milano sotto l’egida degli Asburgo (ai quali rimarrà per secoli),
  2. sacco_Roma_1527il sacco di Roma del 1527 (dovuto all’iniziativa dei mercenari protestanti al soldo dell’imperatore contro l’oscillante politica di papa Clemente VII dei Medici, passato in quella fase dalla parte anti-imperiale) e, contestualmente, la cacciata dei Medici da Firenze (con l’instaurazione della repubblica, la seconda dopo quella durata dal 1494 al 1512, seguita alla calata di Carlo VIII, nella quale aveva operato Niccolò Machiavelli),
  3. il congresso di Bologna del 1529 che, ribadendo quanto già stipulato nella pace di Madrid del 1526, assegnò definitivamente Milano agli Asburgo, siglò la pace tra Carlo V e il papa e, per conseguenza, stabilì la restaurazione della signoria medicea su Firenze, ad opera dell’esercito tedesco, avvenuto nel 1530 (nonostante l’eroica resistenza di Francesco Ferruccio [“Tu uccidi un uomo morto!”] contro le soldataglie guidate da Maramaldo, evocata anche nel nostro inno nazionale).

Quest’ultima data, 1530 (quando lo stesso Carlo V fu consacrato imperatore dal papa, sempre a Bologna), viene considerata da molti studiosi come tale da segnare la fine del Rinascimento, anche sotto il profilo culturale, non solo politico.

Cateau-Cambresis

La pace di Cateau-Cambrésis del 1559, infatti, stipulata dopo ulteriori conflitti ribadì quanto già stipulato, con la sola seguente precisazione: dopo la divisione dei domini di Carlo V, nel 1556, a seguito della sua abdicazione, tra Ferdinando I, a cui fu assegnata la Germania, e Filippo II, a cui furono assegnate la Spagna, i Paesi Bassi e le nuove colonie americane, Milano e Napoli rimasero (come già ricordato) fino al 1713-14 (paci di Utrecht e Rastatt) agli Asburgo di Spagna; Spagna che consolidò la sua posizione anche attraverso il controllo del cosiddetto “stato dei presìdi” lungo la costa della Toscana (rimasta ai Medici, alleati, comunque della Spagna) e  l’influenza esercitata sullo Stato della Chiesa (legata alla Spagna al comune impegno nella lotta contro i protestanti). In ultima analisi tutta l’Italia, persa l’indipendenza, cominciò a gravitare nell’orbita spagnola.

La dominazione spagnola non fu, a giudizio degli storici, affatto favorevole allo sviluppo economico dell’Italia, né della regioni del sud, già depresse dopo l’avvento degli Angioini (1266) e degli Aragonesi (1442, questi ultimi di cultura iberica, per la precisione “catalana”), né del Milanese (più progredito).

Per quale ragione? Non bisogna dimenticare che la Spagna si costituì durante la lunga reconquista dei territori “mozarabi” del Sud della penisola iberica (strappati ai musulmani palmo a palmo nel corso di secoli) ad opera soprattutto degli hidalgos, nobili cavalieri dediti soprattutto all’arte della guerra più che a quella del commercio e dell’industria (caricatura di tali hidalgos può essere considerato il celebre Don Chisciotte, il personaggio di Cervantes). Gli unici che si dedicavano ad attività non militari, marranos e moriscos, cioè ebrei e musulmani costretti alla conversione, furono cacciati a più riprese, ma soprattutto nel 1492, l’anno della scoperta dell’America. Quest’ultima e la successiva conquista delle Americhe non fecero che riconfermare questo spirito aristocratico: l’afflusso dell’oro e dell’argento americano consentì agli Spagnoli di “vivere di rendita” per decenni, senza dedicarsi ad attività produttive, ma limitandosi a “comprare” quello che loro serviva all’estero, fino a che, verso il Seicento, i metalli preziosi cominciarono a esaurirsi, ma, soprattutto, i prezzi dei beni di consumo, a causa della stessa “inflazione” di tali metalli, cominciarono a salire. La crisi si diffuse non solo in Spagna, ma ancora di più nei suoi domini italiani, già da tempo soggetti a una forte pressione fiscale (destinata ad aumentare proprio per compensare le minori entrate coloniali).

La domanda che si fanno gli storici, a cominciare dagli scrittori contemporanei a queste vicende, come Machiavelli e Guicciardini, è una sola: come è stato possibile che un Paese fiorente e avanzato (certo, ambita preda proprio per le sue ricchezze e la sua storia), nel volgere di pochissimi anni, potesse perdere la sua “libertà”, come si diceva allora?

Machiavelli per primo si accorse che la fragilità dell’Italia era legata alle divisioni tra i suoi “principi”, ciascuno dei quali tramava spesso contro l’altro, senza farsi scrupolo di allearsi a “stranieri”. Nel Principe (1513) Machiavelli auspicava che qualcuno (come avrebbe forse potuto essere “il duca Valentino”, cioè Cesare Borgia, astro all’epoca tuttavia già tramontato) potesse “pigliarsi” l’Italia (ricorrendo, se necessario, anche a violenza e frode) e difenderla dalle invasioni straniere (fine nobile che avrebbe “giustificato” il ricorso a tali mezzi, nella tipica logica “machiavellica”). L’unità d’Italia o, almeno, l’alleanza tra i principi d’Italia (già invocata p.e. da Francesco Petrarca nel Trecento) era, dunque, auspicata soprattutto per ragioni militari, cioè per garantirne l’indipendenza, in un’epoca nella quale nessuno ancora pensava che l’Italia fosse (destinata a diventare politicamente) una “nazione” in senso moderno.

È vero che le classi dirigenti dei diversi stati italiani riconoscevano sempre più nella lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio (il toscano letterario, il futuro “italiano”) un “volgare illustre” nel quale anche letterati di altre regioni potevano esprimersi, ma questo non significa che già qualcuno auspicasse l’unificazione politica di coloro che coltivavano l’italiano come lingua letteraria. Anche l’ostilità molto antica degli Italiani nei confronti dei Tedeschi (che arriva fino alle guerre d’indipendenza risorgimentali contro l’Austria, anzi alla prima e alla seconda guerra mondiale) può essere fatta risalire al “ricordo” della invasioni barbariche (con la conseguente dominazione di un’élite feudale germanica su un mondo di contadini di origine “latina”), ricordo che echeggia anche nel pensiero di Dante, secondo il quale l’Italia (come territorio metropolitano di Roma) era il “giardino dello imperio”, mentre i Tedeschi erano definiti “lurchi” (noi diremmo: “crucchi”).

N.B. A Venezia, per esempio, si parlava “veneziano” (come a Napoli “napoletano” ecc.), mentre i documenti ufficiali erano redatti in latino. Nessuno supponeva che la lingua toscana avrebbe dovuto svolgervi un ruolo che non fosse, eventualmente, di tipo puramente letterario. Non bisogna anacronisticamente considerare il “veneziano” un “dialetto” dell’italiano. Semmai lo era del latino o, meglio, era un “volgare” derivato dal latino. La distinzione tra lingua e dialetto, del resto, come ormai tutti i linguisti riconoscono, non è strettamente linguistica (morfologica), ma è “politica”: lingua è quel dialetto (o, meglio, idioma) che è riconosciuto ufficialmente come tale da uno Stato. Come scrive Tito Maniacco:

Le lingue servono per comunicare, ma ci sono le lingue di quelli che comandano e le lingue di quelli che ubbidiscono. Le lingue di quelli che ubbidiscono, le lingue subalterne vengono chiamate "dialetti".
[Storia del Friuli, Newton Compton, Roma 1990, p. 74]

Se tutto questo è vero, allora la ragione della debolezza dell’Italia potrebbe essere ricercata non tanto nella sua frammentazione politica, come tale (ciascuno stato, come p.e. Venezia, poteva all’epoca considerarsi del tutto legittimamente come “compiuto”, senza bisogno di immaginarsi come “parte” di una nazione più grande, che era di là da venire), quanto in quell’atteggiamento tipicamente individualistico, che faceva sì che questi stati, troppo piccoli per resistere alle  potenze d’Oltralpe (Francia, Spagna, Impero tedesco), mancarono di federarsi (di allearsi tra loro) per difendersi da tali potenze.

Si tratta di quel’atteggiamento individualistico che, forse, dura tutt’oggi, nelle forme del cosiddetto “familismo amorale”, per cui, secondo alcuni studiosi, l’italiano medio tende ad avvantaggiare se stesso e la propria famiglia senza troppi scrupoli morali e legali, secondo la massima di sapore machiavellico: “mors tua vita mea” (massima che tuttavia Machiavelli avrebbe considerato adatta piuttosto ai principi che ai privati).

Ovviamente questo atteggiamento, che durante il Rinascimento era, almeno, “nobilitato” dai suoi effetti in campo culturale e politico, con la dominazione spagnola, contraddistinta da una sorta di neo-feudalesimo, scadde nelle tipiche forme del clientelismo politico e amministrativo, che, purtroppo, ancor oggi caratterizza la cultura italiana (pensiamo agli scandali legati alla corruzione politica, agli intrighi in ambito anche universitario, ai favori che si ricercano presso amministratori e burocrati in cambio di servigi, talora vere e proprie corvées, a carattere personale ecc.)

La cosa intrigante è che questo atteggiamento individualistico fu, probabilmente, insieme causa ed effetto dello “spirito” tipico del Rinascimento (secondo p.e. la classica interpretazione di Jakob Burkhardt): ciascun artista, come ciascun principe, entrava in orgogliosa competizione con i suoi pari, per primeggiare (per essere “primo”, a somiglianza dell’Uno neoplatonico, per evocare la sotterranea corrente culturale che animò molti artisti e pensatori del tempo), senza riguardo per nessuno: questa “gara” culturale avrebbe grandemente favorito la fioritura dell’arte e, più in generale, della cultura rinascimentale, distinguendola dallo “spirito” di un Medioevo molto più “comunitario” e votato all’obbedienza e al rispetto delle gerarchie politiche e religiose.

Se le cose stessero così, però, che senso avrebbe “lamentare” gli effetti “politici” auto-distruttivi (sul lungo periodo) di questo individualismo (in quanto favorì l’assoggettamento dell’Italia agli stranieri e, quindi, la fine del Rinascimento), mentre se ne riconosce il valore sotto il profilo etico e culturale (come fonte dello stesso Rinascimento)?

Insomma, si potrebbe sostenere che le cose sono andate come non potevano non andare: ogni bel gioco dura poco e la più grande bellezza spesso è la prima a sfiorire… O no?

Cfr. vol. 1, cap. 8, § 8.9, pp. 251-254; cap. 13, § 13.1, spec. pp. 411-413.