La pratica (stoica) della/e virtù

Apparentemente simile alla proposta epicurea è la proposta stoica (cfr. U5. cap. 2, § 1, pp. 409-10), quale è esposta, p.e., da Epitteto (cfr. U5. cap. 2, § 7, p. 426). Per essere felici occorre essere “autosufficienti”, basare la propria vita solo su ciò che dipende da noi, senza preoccuparsi di ciò che ci può provenire da altri o da altro.

Tripartizione_della_filosofia_stoica

Tuttavia nella prospettiva stoica il quadro si allarga. Cambiando la cosmologia, cambia anche il senso dell’etica. Gli stoici, come Aristotele, infatti, non pensano che il mondo sia fatto a caso, ma che, concepito come un organismo guidato da una “ragione” cosmica, il Lògos di eraclitea memoria (che sarebbe stato “rilanciato” anche in ambito ebraico e cristiano) (cfr. U5. cap. 2, §§ 3-4, pp. 416-19),  obbedisca a un preciso disegno (a un fine). In quest’orizzonte  è “logico” che anche l’individuo debba darsi fini coerenti con  i fini che l’universo stesso si dà e gli dà. Il fine di ogni cosa non siamo più noi (ciascuno di noi), dunque, ma è il bene universale (come per Socrate e Platone, che, tuttavia, lo limitavano alla “città” che abitavano, mentre gli stoici lo estendono al mondo intero). Il nostro dovere consiste nel fare ciò che realizza tale bene cosmico, mettendo a frutto i nostri talenti (piuttosto che rifugiandoci, come suggerirebbero gli epicurei, nella ricerca ossessiva del piacere, sia pure nella forma dell’assenza di dolore). L’esercizio della virtù non è, come per gli epicurei, un mezzo per conseguire l’imperturbabilità, ma un vero e proprio fine che, realizzando il nostro dovere, ci rendere felici e consegue il nostro bene (come se fossimo gli organi di quel più vasto organismo che è il cosmo). Cfr. U5. cap. 2, § 5, pp. 419-422.

Charlie

Ma in che cosa consiste la virtù? Perché è così importante, in generale, per i Greci?

Ricordiamo che nella prospettiva filosofica tipicamente greca, espressa in modo esemplare nell’insegnamento di Socrate, vige l’intellettualismo etico (riveduto e corretto da Platone con la dottrina della pluralità delle anime), secondo il quale se si sa ciò che è bene non si può non farlo (e, più in generale, ognuno fa ciò che crede bene, anche se, successivamente, si dovesse accorgere di avere sbagliato). L’idea che, a volte, pur sapendo ciò che è bene, facciamo il male, perché “cadiamo in tentazione”, è tipicamente cristiana e presuppone due concezioni ignote ai Greci: la dottrina del peccato originale (che ci rende tutti “deboli”) e la dottrina del libero arbitrio (secondo la quale non basta sapere che una cosa è buona per farla, ma occorre anche liberamente volerla).

Ora, se vige l’intellettualismo etico, non si tratta di volere il bene, ma di esercitarsi a praticarlo, praticando tutta una serie di esercizi spirituali, di fatto esercizi di rimemorazione e di conoscenza (come p.e. l’esame di coscienza quotidiano, che spesso crediamo sia legato alla religione cristiana, ma che, in realtà, risale ai pitagorici ed era praticato ad es. dallo stoico Seneca).

N. B. Poiché, come detto, i Greci non distinguono tra volontà e intelligenza nei termini p.e. dei cristiani, non si tratta tanto di suscitare in noi sensi di colpa o di inadeguatezza a imperativi morali (cfr. la tesi di Epitteto secondo la quale il saggio non accusa né se stesso né altri di quello che accade), quanto di sforzarsi sempre di comprendere le ragioni degli eventi per non cadere negli stessi errori in futuro.