Dal “Gesù storico” al “Cristo della fede”

Cominciamo dunque a comprendere come si sia progressivamente formata la dottrina cristiana che fu “definitivamente” fissata nei grandi concili ecumenici del IV sec.

In primo luogo, sulla base di alcuni criteri di ricostruzione storiografica, cerchiamo di farci un’idea dell’originaria predicazione di Gesù di Nazareth.

Cfr. anche F (cioè libro di filosofia, 2A), U6, cap. 1, § 2, pp. 519-21 (pagine che, tuttavia, non mettono in sufficiente evidenza il carattere “apocalittico” del messaggio originario di Gesù, come ricostruito dagli storici).

Seguiamo poi gli effetti in ambito teologico ed etico della progressiva ellenizzazione (o spiritualizzazione o filosoficizzazione) del cristianesimo, che già si intravede nelle Lettere di Paolo e nel Vangelo di Giovanni (cfr. F, U6, cap. 1, §§ 2, pp. 521-23).

A questo punto ci dobbiamo chiedere. Ma questa progressiva trasformazione del messaggio originario di Gesù in termini accettabili alla cultura greco-romana è legato soltanto alla diversa visione del mondo tra mondo ebraico e mondo greco-romano? Che ruolo vi gioca la filosofia pagana? In effetti vi sono anche ragioni intrinseche che spingono alla trasformazione del messaggio, alla sua spiritualizzazione, all’abbandono della fede cieca nella lettera di quello che leggiamo nelle Scritture (tipico dei gruppi cosiddetti fondamentalisti): le numerose contraddizioni interne alla Bibbia e anche le sue incongruenze con l’esperienza (anche scientifica) del mondo; inoltre non bisogna dimenticare che lo stesso Gesù nei Vangeli, come pure San Paolo, quando evocano passi dell’Antico Testamento (la Bibbia ebraica), lo fanno spesso conferendo loro un’interpretazione allegorica (o simbolica o spirituale).

Davanti alle contraddizioni della Bibbia (passi che sembrano contraddirne altri; ad esempio in Genesi1, 20-26 prima vengono creati gli animali e poi l’uomo, mentre in Genesi2, 1-19 prima viene creato l’uomo e poi gli animali) e alle rappresentazioni “primitive” che essa contiene (incongruenze con l’esperienza e con la ragione) p.e. di Dio (dipinto, antropomorficamente, come animato da “ira”, “gelosia” ecc. e dotato di “mani” ecc.) fin dai tempi dalla prima diaspora ebraica e, poi, ancora, durante il cristianesimo si dovette, infatti, adottare un’interpretazione non letterale.

D’altra parte lo stesso Paolo avverte nella Prima Lettera ai Corinzi (3, 6):

la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita

L’interpretazione allegorica delle Scritture, suggerita da Paolo, viene successivamente sviluppata soprattutto dal grande filosofo cristiano Origene, nell’opera Principi (lettera E, cfr. pp. 6-8) su basi (neo)platoniche. Cfr. anche F U6, cap. 1, § 5, Origene, pp. 529-30.

Il rischio, tuttavia, è che, una volta abbandonato il senso letterale, le Scritture vengano interpretate in modo puramente spirituale, quasi che esprimessero in forma simbolica nient’altro che la filosofia dell’interprete di turno. In un certo senso questo è stato il caso di quella fondamentale corrente interpretativa delle Scritture cristiane (che venne successivamente giudicata eretica, cioè eterodossa) , più volte riemersa nella storia, che va sotto il nome di gnosticismo. Cfr. U6, cap. 1, § 4, Lo gnosticismopp. 526-27.

Per ovviare a questo rischio e alla conseguente proliferazione di interpretazioni divergenti, quando il cristianesimo divenne religione di Stato nell’impero romano, venne introdotto un ulteriore criterio interpretativo, il principio di autorità. In particolare si decise che la dottrina della fede dovesse essere quella fissata una volta per tutte, unanimemente, dai vescovi (cioè i successori degli apostoli, nominati secondo una linea di successione riconducibile agli apostoli stessi e, dunque, ipoteticamente depositari anche di eventuali conoscenze trasmesse oralmente da Cristo) riuniti in concilio. Ciò, oltre a fissare una volta per tutte il canone dei testi considerati sacri (scartando p.e. i vangeli cosiddetti apocrifi), diede origine alla forma attuale della fede cristiana, comune a cattolici, ortodossi e protestanti (ossia ai principali gruppi cristiani attuali), formulata nel Credo niceno-costantinopolitano che si recita p.e. durante le messe cattoliche. Un’attenta analisi di questo testo permette di riconoscere tanto gli effetti, nei secoli, delle interpretazioni (allegorizzanti) platonicamente ispirate, quanto le tracce dell’originaria fede primitiva.

Ma che cosa costituisce, alla fine, la differenza cristiana? In che cosa il cristianesimo si distingue da questa o quella filosofia, anzi dalla filosofia in generale, dopo avere ricevuto nella stessa formulazione del Credo, vincolante per tutti i credenti, un’interpretazione così marcatamente filosofica?

Si potrebbe esaminare più approfonditamente i passi del Credo che sembrano irriducibili a una interpretazione platonizzante o stoicizzante, ma, forse, la cosa migliore è rivolgersi un filosofo, che è anche un santo cristiano, il quale, pochi anni dopo le fondamentali definizioni dogmatiche di Nicea e Costantinopoli, in ambiente latino, approfondisce, vivendola sulla propria pelle, la “specificità” della fede cristiana rispetto a qualsivoglia filosofia (come quella che egli stesso, prima della conversione, ha abbracciato): sant’Agostino.

Cfr. U6, cap. 2, §§ 1-3, pp. 532-35; § 5, pp. 537-38; § 9, pp. 544-45 e il testo U6, P2, T5, pp. 572-73.

Possiamo anche fruire di alcuni segmenti di un film recente a lui dedicato, ad es. la sequenza relativa alla conversione, o quella relativa alla disputa contro i donatisti.