Dal “Gesù storico” al “Cristo della fede”

resurrezioneCome si passa dall’originaria (presunta) predicazione di Gesù di Nazareth, ricostruita dagli storici, alla dottrina “ufficiale” (ortodossa) delle principali chiese cristiane, quella compendiata, per intenderci, nel Credo niceno-costantinopolitano (che si recita a messa)?

Innanzitutto, nel giro di pochi anni a Gesù sarebbe attribuita la natura di “figlio di Dio” in senso letterale (come “unigenito”, distinto dal resto della creazione, e non solo “primogenito”).

Scrive ad esempio Bart Ehrman, uno dei principali studiosi delle cosiddetta Third quest:

Prendiamo per esempio il titolo di "Figlio di Dio": in termini generali, esso fa riferimento al particolare status di Gesù, un'identità che lo avvicina a Dio. Ma la questione è: quando Gesù ha ricevuto questo status particolare? Alcuni gruppi, all'inizio, credevano che lo avesse ricevuto al momento della resurrezione, quando fu "generato" da Dio come suo figlio. Questa credenza si riflette, ad esempio, nelle antiche tradizioni preservate in At 13, 33 e Rm 1, 3-4 [cioè negli Atti degli Apostoli e nella Lettera ai Romani di San Paolo, nella quale leggiamo che il vangelo di Dio "riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti", come se Gesù fosse stato figlio carnale di Giuseppe, costituito come Figlio di Dio solo al momento della resurrezione]. Altri, forse qualche tempo dopo, iniziarono a credere che Gesù doveva essere stato un figlio particolare di Dio non solo da risorto, ma già nel corso della sua missione nel mondo. Per costoro, Gesù era diventato Figlio di Dio al momento del suo battesimo, quando una voce dal cielo aveva proclamato: "Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato", come recito il testo presente in alcuni manoscritti di Luca [Lc, 3, 21] e come credevano alcuni gruppi giudeo-cristiani. Altri iniziarono a credere che Gesù doveva essere stato Figlio di Dio non solo durante il suo ministero pubblico, ma nell'intero corso della sua vita: in alcuni Vangeli più tardi [cioè Matteo e Luca, ma non Marco!], ci sono indicazioni sul fatto che Gesù non avesse un padre terreno (cfr., per esempio, Lc 1, 35). Altri ancora giunsero a credere che Gesù doveva essere stato il Figlio di Dio, non semplicemente dalla sua nascita, ma da sempre. Già alla fine del I secolo, alcuni gruppi di credenti andavano proclamando che Gesù era in sé divino, che esisteva prima della sua nascita, che aveva creato il mondo e tutto ciò che contiene [cfr. il Prologo del Vangelo di Giovanni], e che era venuto sulla terra per compiere una missione in quanto Dio.
[Bart Ehrman, Il nuovo testamento. Un'introduzione (2012), Roma, Carocci 2015 , pp. 249-50]

Per la verità l’ipotesi che Cristo “esistesse” prima di nascere nel grembo di Maria può essere fatta risalire a un enigmatico “inno” che si trova nella Lettera ai Filippesi di Paolo (2, 5-11), inno composto in epoca anteriore alla stesura di questa lettera stessa che lo riporta (scritta negli anni ’50 del I sec., dunque prima di tutti i vangeli), dunque davvero molto antico, che recita così:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio 
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!,
a gloria di Dio Padre.

Che significa che Gesù era “nella condizione di Dio” (dal greco si può tradurre anche “nella forma di Dio”)? Secondo alcuni che Gesù era appunto Dio e avrebbe rinunciato a tale condizione nell’atto dell’incarnazione, per riacquistarla poi dopo la resurrezione (si direbbe: per riacquistarla “potenziata”, dal momento che è solo allora che Dio “lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”).

Dunque, ad onta di quello che lo stesso Ehrman e altri sembrano suggerire, si potrebbe desumere che l’ipotesi che Cristo fosse Dio sia davvero molto antica, almeno presso alcuni gruppi di cristiani.

Come che sia, Paolo accredita tale ipotesi (che Cristo fosse Dio o “simile a Dio” – un angelo? – ancora prima di nascere), ma soprattutto quella della divinizzazione (“glorificazione”) di Cristo dopo la sua morte, forse perché tale ultima credenza era consona al modo in cui la figura di Gesù poteva più facilmente venire accolta in ambito greco-romano (ma non ebraico!), data la consuetudine tipicamente greco-romana, ma ignota agli Ebrei, anzi da loro avversata, di divinizzare i reggitori di Roma dopo la loro morte (con quella che tecnicamente si definitiva un’ apoteosi), a cominciare da Romolo per continuare con gli imperatori della dinastia giulio-claudia.  Saremmo, in ogni caso, agli inizi della cosiddetta ellenizzazione del cristianesimo.

Tale ellenizzazione prosegue con Giustino, nel II sec., che interpreta il Lògos (di cui si parla nel Prologo del Vangelo di Giovanni, come identico a Cristo ed egli stesso “Dio”) nel significato di “ragione” (divina) mediante cui tutte le cose sarebbero state fatte (dunque in senso stoico e neoplatonico, lettura consentita dallo stesso Vangelo di Giovanni che, probabilmente, dipende a sua volta dalla lettura “platonica” della Bibbia ebraica condotta da Filone di Alessandria). Gesù è ormai compiutamente divenuto “Dio”, anche se sembra ancora “subordinato” in qualche modo al Padre (subordinazionismo,  dottrina successivamente condannata come eterodossa, ma ancora sostenuta  nel III sec. da Origene e che trapela, talora, anche in Agostino).

L’ellenizzazione  (e ci avviciniamo ormai al dogma niceno) si accentua nel momento, in cui per interpretare le relazioni tra il Padre e il Figlio, ai quali presto si aggiunge lo Spirito Santo, relazioni alla fine considerate “tra pari”, in quanto i tre condividono la medesima “sostanza” o, meglio, “essenza” (ousìa, termine chiaramente di origine platonico-aristotelica), viene introdotta la nozione di “trìas” (“triade”, in greco), resa in latino con trinitas.

Questa nozione da un lato sembra legata alla triade (implicita) neoplatonica di Uno, Intelligenza e Anima, come già rilevato, dall’altro sembra ricollegarsi all’interpretazione “triadica” dei misteri divini e di tutta la realtà offerta in un testo pagano, verosimilmente risalente ai primi secc. dopo Cristo, gli Oracoli caldaici, che, tuttavia, rivendicava (probabilmente a torto) un’origine molto più antica (babilonese, se non sumera).

È pur vero che già alla fine Vangelo di Matteo (28, 19) Gesù invita i suoi a battezzare tutte le genti “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, sicché, in modo implicito, sembrerebbe che l’idea di un Dio uno e trino sia molto antica. Tuttavia, questo stesso Vangelo fu scritto decenni dopo la morte di Gesù, verosimilmente già in ambiente greco, non specifica il tipo di relazione tra i “tre”, né, infine, si può escludere che tale sua conclusione sia un’aggiunta posteriore.

All’ellenizzazione “teologica” e “cristologica” fa da pendant una progressiva ellenizzazione “etica” e “soteriologica” (relativa alla salvezza individuale).

Col tramontare della credenza dell’imminente avvento del “regno di Dio” gli originari insegnamenti di Gesù tendono a a venire reinterpretati: il “regno” non è qualcosa che si manifesterà concretamente nella storia comune, ma assume una dimensione “spirituale”, interiore (fino a coincidere, di fatto, col “paradiso” dopo la morte); l’amore del prossimo e di Dio, la rinuncia ai beni terreni, l’esortazione a preferire la verginità al matrimonio ecc., diventano prescrizioni dirette non più a preparare i seguaci all’avvento del regno (cosa che, per altro, ben si attaglia alla radicalità di tali precetti), ma, in quanto indicazioni meramente “etiche”, a purificare il credente dal peccato e a prepararlo all’incontro post mortem con Dio.

Parallelamente al processo di ellenizzazione del cristianesimo, legato, tra le altre cose, alla necessità di renderlo comprensibile a un numero sempre crescente di pagani (mentre gli Ebrei credenti tendevano a diminuire), si registra anche una trasformazione del significato dell’opera di Gesù legata al “trauma” della sua morte (che in un primo tempo dovette essere stata vissuta da molti discepoli come una smentita della funzione messianica di Gesù).

Davanti all’inattesa e disperante crocifissione del creduto messia (che i discepoli, viceversa, credevano che si sarebbe insediato come re d’Israele) si elabora (a partire dalle Lettere di Paolo e nel Vangelo di Giovanni) il cosiddetto kèrigma (annuncio): la “buona novella” (o “evangelo”) non è più quella del prossimo avvento del regno di Dio, ma diventa quella della remissione dei “peccati del mondo” a seguito della morte e, soprattutto, della (creduta) resurrezione di Cristo, “agnello” sacrificale; a condizione, tuttavia, che i peccatori non semplicemente si pentano dei loro peccati (come esigevano, probabilmente, sia il Gesù “storico”, sia il suo maestro Giovanni Battista), ma abbiano fede nella funzione salvifica della morte del messia e nella sua resurrezione (anticipazione delle resurrezione dei giusti, concepita in un primo tempo ancora in un orizzonte apocalittico, in seguito “sublimata” e concepita come mezzo di “redenzione” dei peccati individuali dei credenti).

La fede nella resurrezione di Cristo si lega da un lato, come già accennato, al processo di ellenizzazione del cristianesimo, nella misura in cui si comincia a credere che proprio nella resurrezione Gesù sia stato “costituito” letteralmente “Figlio di Dio” (nel solco della tradizione pagana delle “apoteosi”), ma, dall’altro lato, eccede tale ellenizzazione, perché introduce una serie di credenze, caratteristicamente cristiane, che si radicano nel kèrigma e che avranno largo seguito (soprattutto, ma non solo, in Agostino e tra i cristiani protestanti):

  1. la credenza (retroattiva, in un certo senso) nel peccato originale (se non fossimo tutti inguaribilmente peccatori, non sarebbe stato necessario il sacrificio espiatorio di Cristo),
  2. la conseguente credenza nella nostra incapacità di conseguire con le nostre sole forze la salvezza (e la felicità o beatitudine), come invece credevano i filosofi greci,
  3. infine la credenza nella necessità della grazia o misericordia di Dio a questo fine (manifestatasi eminentemente con l’invio del Suo Figlio Unigenito a morire per noi).

Ecco una discussione approfondita sul rapporto tra il Gesù storico e il Cristo della fede.

di Giorgio Giacometti