Perché è così importante la “virtù”?

arete

In che cosa consiste la virtù? Perché è così importante, in generale, per i Greci?

La virtù è ciò che di meglio siamo e facciamo.

“Virtù” deriva da “vir”, “uomo”. In questo senso la virtù, riferita a ciascuno di noi in quanto uomo, è ciò che fa di un uomo un uomo (come nell’esortazione: “Sii uomo!”). Il termine greco per “virtù”, cioè “areté”, ha la stessa radice di “àriston” (“ciò che è meglio”), “àristos” (“il migliore”): la virtù è il nostro meglio, ciò in cui possiamo eccellere, il nostro miglior modo di essere, prima ancora che di agire.

Riferita non all’uomo in generale, ma a ciascuno di noi, virtù è ciò in cui ciascuno può eccellere, ciò per cui è nato, ciò che lo realizza, nel senso che rende “reale” (o effettiva, attuale) la sua natura (ciò che siamo da quando siamo appunto nati, da distinguere da ciò che possiamo diventare sulla base dell’esperienza successiva). Si tratta di ciò che si è essenzialmente, ossia ciò che necessariamente siamo, non ciò che siamo accidentalmente, ossia ciò che possiamo essere o non essere, che siamo magari oggi, ma non domani.

In un orizzonte diverso, religioso, si parlerebbe di ciò a cui siamo chiamati (da Dio), cioè della nostra vocazione.

Ad esempio, un bravo medico è forse nato per essere tale (in questa prospettiva la sua successiva “educazione” non ha fatto altro che portare fuori – e-dùcere – quello che già egli era in potenza). Se fa il medico, realizza la sua natura, diviene quello che è (senza sapere ancora di esserlo). Se, invece, per una serie di circostanze accidentali, casuali, ad esempio perché cede alla tentazione di procurarsi piaceri a buon mercato (ad esempio, se il “potenziale” medico si dedica non alla medicina, ma all’arte di “far soldi”, detta in greco “crematistica”), costui non farà il medico, magari potrà essere felice (chi lo sa, secondo la visione antica ci sarebbe da dubitarne…), ma non sarebbe “realizzato”. L’accaduto sarebbe un vero “peccato”, una sorta di “spreco” (di risorse, di energie, soprattutto di… competenze, altro termine con cui si potrebbe tradurre “virtù”).

Questo esempio suggerisce che la propria virtù o la propria natura (ciò per cui siamo nati) si realizza solo se riusciamo a trovare, per così dire, il “nostro posto” nell’ordine del cosmo/mondo (e della società, della “città” ideale che abitiamo con tutti gli altri esseri umani). Questo nostro “dovere”, se lo compiamo, più del piacere del momento, può renderci anche felici.

Tale è fondamentalmente, ad esempio, la scommessa degli stoici, i filosofi antichi che più di tutti (eccetto forse il solo Socrate) hanno identificato virtù e felicità.

  • Ma per quanto riguarda l’agire nella prospettiva filosofica tipicamente greca, espressa in modo esemplare nell’insegnamento di Socrate, non vige forse, come tu mi insegni, l’intellettualismo etico (riveduto e corretto da Platone con la dottrina della pluralità delle anime), secondo il quale se si sa ciò che è bene non si può non farlo (e, più in generale, ognuno fa ciò che crede bene, anche se, successivamente, si dovesse accorgere di avere sbagliato)? L’idea che, a volte, pur sapendo ciò che è bene, facciamo il male, perché “cadiamo in tentazione”, non è tipicamente cristiana e non presuppone due concezioni ignote ai Greci: la dottrina del peccato originale (che ci rende tutti “deboli”) e la dottrina del libero arbitrio (secondo la quale non basta sapere che una cosa è buona per farla, ma occorre anche liberamente volerla)?

Certo. E allora?

  • Allora, se basta sapere che cos’è il bene per farlo, la virtù etica, in una prospettiva greca, coinciderà con questa stessa conoscenza!

Questa è effettivamente la tesi di Socrate ripresa dagli stoici. Tuttavia l’intellettualismo etico, se esclude che si debba aggiungere alla conoscenza del bene (e del male) anche la volontà di perseguirlo, non esclude affatto che sia utile esercitarsi a praticare il bene, svolgendo tutta una serie di esercizi spirituali, di fatto esercizi di rimemorazione e di conoscenza (come p.e. l’esame di coscienza quotidiano, che spesso crediamo sia legato alla religione cristiana, ma che, in realtà, risale ai pitagorici ed era praticato ad es. dallo stoico Seneca).

N. B. Poiché, come detto, i Greci non distinguono tra volontà e intelligenza nei termini p.e. dei cristiani, non si tratta tanto di suscitare in noi sensi di colpa o di inadeguatezza a imperativi morali (cfr. la tesi di Epitteto secondo la quale il saggio non accusa né se stesso né altri di quello che accade), quanto di sforzarsi sempre di comprendere le ragioni degli eventi per non cadere negli stessi errori in futuro.

Ora, alla luce di tutto questo, come possiamo intendere la virtù? Evocando Aristotele possiamo considerarla una “disposizione costante” o “abito” ad agire bene, conseguita attraverso l’esercizio.

L’esercizio si rivela, dunque, un elemento fondamentale dell’etica antica. Se è vero, infatti, che, come insegna Socrate, basta “sapere” o anche solo” credere” che qualcosa sia “bene” per perseguirlo, è anche vero che questo stesso “sapere” non è qualcosa di astratto, di formale, di verbale, ma, per essere autentico, dunque efficace, deve trattarsi di un sapere vissuto, frutto dell’esperienza che consegue all’esercizio.

Charlie

Il concetto di virtù degli stoici, in particolare, riprende quello classico, socratico, platonico e aristotelico (giustizia, coraggio, temperanza, saggezza ecc.), con la differenza che il bene che questa virtù promuove non è tanto o solo quello della città (polis), quanto soprattutto quello del cosmo stesso (cosmopolitismo). Lo specifico dovere (l’officium, il compito, la funzione, ciò che spetta o conviene a ciascuno, kathékon) sarà diverso a seconda che uno sia uno schiavo (come il filosofo Epitteto) o un imperatore (come il filosofo Marco Aurelio), ma la virtù è la stessa e coincide con la conoscenza del proprio dovere (come per Socrate).

di Giorgio Giacometti