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Un approccio relativistico dissolve lo hard problem?


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Nir Lahav e Zachariah A. Neemeh hanno scritto nel 2022 un articolo fondamentale dal titolo A Relativistic Theory of Consciousness.

L’ambizione del saggio è duplice: dissolvere lo hard problem della coscienza (sollevato da David Chalmers) e dissolvere anche il problema del carattere privato della coscienza.

Come è noto, Chalmers considera “difficile” il problema di spiegare perché abbiamo una coscienza, dal momento che tutto potrebbe benissimo funzionare identicamente anche se fossimo tutti zombies senza coscienza.  Tale tesi deriva dall’assunzione che il nostro funzionamento come sistemi percettivo-cognitivi sarebbe identico anche se non fossimo coscienti. Infatti, se intendiamo che un sistema di questo tipo funzioni egregiamente se risponde agli stimoli/input che gli provengono dall’ambiente “computando” (attraverso il sistema nervoso centrale) comportamenti/output adeguati, che bisogno c’è che a questa macchina meravigliosa si aggiunga anche la coscienza?

La cosa si comprende ancor meglio se si considera il dilemma posto classicamente dalla filosofia della mente:

  1. o la coscienza (in quanto sopravviene, cioè “si aggiunge” all’attività dei circuiti neurali) assolve una funzione, cioè ha un ruolo causale, che l’organismo/cervello  senza di essa non assolverebbe [ma allora, in questa prospettiva definibile come dualistica, alcunché di “immateriale” interagirebbe con il cosmo fisico (come la res cogitans cartesiana attraverso la ghiandola pineale), in modo tale che in questo cosmo accadrebbero cose diverse da quelle che accadrebbero in assenza della coscienza medesima, e ne risulterebbe rotta la chiusura causale del mondo fisico (e sarebbe confutato il c.d. fisicalismo)];
  2. oppure  la coscienza è un tratto free rider, una sorta di ombra che accompagna l’attività neurale, che non modifica in alcun modo il decorso degli eventi determinato da questa attività neurale [ma in questo caso la coscienza resterebbe del tutto gratuita ed essenzialmente inesplicata (cosa che appare davvero bizzarra, dato il carattere particolarissimo della coscienza)].

Come fanno gli autori dell’articolo in parola a dissolvere questo hard problem?

Essi rifiutano anche la prospettiva illusionistica (o eliminativistica) secondo la quale la coscienza è alcunché di illusorio e inesistente (cosa che ovviamente ripugna all’esperienza che ne abbiamo).

Essi, adottando un approccio essenzialmente monistico (per la precisione un dual aspect monism), negano (attraverso una complicata formalizzazione matematica che, tuttavia, non è strettamente necessaria per comprendere il cuore della loro argomentazione) che sia possibile che un sistema percettivo-cognitivo (identico a quello umano), descritto sotto il profilo esclusivamente neurocomputazionale, possa essere zombie, cioè “assolutamente” privo di coscienza.

La tesi fondamentale degli autori è la seguente:

A system either has or doesn’t have phenomenal consciousness with respect to some observer.

Un sistema percettivo-cognitivo appare privo di coscienza soltanto per un altro sistema percettivo-cognitivo, cioè all’interno di un sistema di riferimento centrato su questo secondo sistema,

esattamente come uno stesso corpo, in base alla teoria della relatività, può avere masse diverse (e anche essere caratterizzato da lunghezze spaziali differenti e intervalli temporali di differente durata) a seconda che lo si osservi dal suo punto di vista o da un punto di vista esterno.

In generale:

Phenomenal consciousness is neither private nor delusional, just relativistic. In the frame of reference of the cognitive system, it will be observable (first-person perspective) and in other frame of reference it will not (third-person perspective). These two cognitive frames of reference are both correct, just as in the case of an observer that claims to be at rest while another will claim that the observer has constant velocity. Given that consciousness is a relativistic phenomenon, neither observer position can be privileged, as they both describe the same underlying reality.

Questo stesso ragionamento porta a spiegare la ragione per la quale le “esperienze soggettive” sembrano avere carattere privato e incomunicabile (quello che percepisco io in questo momento, tu, che mi leggi, non lo percepisci; quanto meno non mai esattamente come lo percepisco io).

Ciò che io percepisco è un insieme di fenomeni mediati dal mio sistema percettivo-cognitivo che, nella mia prospettiva, si rende trasparente a se stesso (così come, se inforco occhiali adatti e ben puliti, posso vedere distintamente le cose che mi circondano senza vedere le lenti).

Philosophers refer to this feature of phenomenal consciousness as “transparency”: we seem to directly perceive things, rather than mental representations, even though mental representations mediate experience.

Ma se facciamo centro in un altro sistema percettivo-cognitivo (ad esempio nel tuo) ecco che il mio sistema percettivo-cognitivo appare come un intrico di reti neurali attraversato da scariche elettriche e flussi di neurotrasmettitori, senza che tu abbia alcuna percezione di ciò che io percepisco.

While Alice may observe herself feeling happiness as she’s looking at a rose, Bob will only measure patterns of neural activity. [Like in] the case of constant velocity, wherein Alice claims to be at rest while Bob is moving, while Bob claims that Alice is the one moving and that he is stationary. From Alice’s perspective, she has qualia and Bob only has patterns of neural activation, while from Bob’s perspective Alice just has patterns of neural activation while he has qualia.

Dunque non si ha mai un sistema percettivo-cognitivo che funziona come uno zombie, ma si ha sempre solo un sistema percettivo-cognitivo che è conscio di qualcos’altro; e questo qualcos’altro può anche essere un altro sistema percettivo-cognitivo che appare al primo sistema in modo diverso da come appare a se stesso; anzi, in quanto è trasparente a se stesso, in modo diverso da come non appare a se stesso.

Qualia and eidetic structures are not private and hence phenomenal consciousness is neither some mysterious force beyond the realm of science nor an irreducible element of reality. Rather, they appear to be private because in order to measure them, one needs to be in the appropriate frame of reference, viz., that of the cognitive system in question [...]. It is ultimately a question of causal power. Only from this frame of reference is there causal power for the representations in the dynamics of the system. Only from the frame of reference of the cognitive system are these neural patterns recognized as representations [...]. These representations are the input and output of the cognitive system [...]; they are the ones that cause the dynamics in this cognitive frame of reference. From outside that observer reference frame, as in the position the neuroscientist takes as a third-person observer, the same exact phenomena appear as neural computations. This is because the third-person perspective is constitutively outside of the dynamics of representations of the cognitive system in question, and hence these representations do not have any causal power over the neuroscientist

Gli autori giungono a definire un principio di equivalenza in base al quale “qualitative and quantitative aspects of consciousness are formally equivalent“, cioè la mia percezione p.e. di una mela rossa è sempre traducibile, mediante opportune trasformazioni, in un insieme di processi neurocomputazionali correlati a tale mia percezione (tali processi sarebbero nient’altro che questa stessa mia percezione così come appare non a me, ma a un altro che studia il mio cervello mentre io ho questa percezione).

In questa prospettiva, dunque, non si tratta di entità diverse: una materiale (il cervello) e l’altra immateriale (la coscienza) di cui occorra comprendere la relazione e, soprattutto, perché (hard problem) e come (easy problem) la prima generi la seconda (per assolvere quale funzione). Si tratta del medesimo sistema riguardato (cioè come appare) all’interno di sistemi di riferimento diversi (il proprio e un altro).

Questa prospettiva corrisponde, come gli stessi autori suggeriscono, a una prospettiva fenomenologica naturalizzata, come quella “sognata” ad es. da Francisco Varela (prima di morire): ciò che un (filosofo) fenomenologo individua come tratti caratteristici della coscienza che abbiamo del mondo (l’esempio che fanno gli autori, che evocano Husserl e Heidegger, riguarda il modo in cui facciamo esperienza del tempo) può essere “spiegato” anche in termini di funzionamento di strutture di tipo neurocomputazionale.

Questo progetto è senz’altro condivisibile, nella misura in cui non pretende di ridurre il lato fenomenologico al lato “meccanico”, ma, in un orizzonte monistico, li tiene insieme entrambi come aspetti di un tutto inscindibile.

Gli autori, infatti, si considerano giustamente fisicalisti, ma di  un fisicalismo tuttavia allargato e non riduzionista. La coscienza non sarebbe illusoria (come per l’eliminativismo), ma sarebbe, per così dire, “l’altra faccia” dei sistemi fisici.

Physical patterns (e.g., of neural representations) and phenomenal properties (e.g., qualia) are two sides of the same coin.

Si sarebbe tentati, tuttavia, di trarre da questo approccio conclusioni piuttosto minimaliste: la coscienza potrebbe essere considerata, in questa prospettiva, un carattere in ultima analisi free rider, emergente in modo eccezionale e accidentale in condizioni molto particolari, all’interno di un universo prevalentemente meccanicistico, cieco e inconscio.

Proprio in quanto lo hard problem risulta dissolto pare che si debba rinunciare anche alla connessa ipotesi “panpsichistica” cara ad es. a Chalmers (cioè all’ipotesi che la coscienza sia qualcosa di “trascendente” che pervade l’universo, invocata come tale appunto in quanto inesplicabile fisicalisticamente).

Ma l’hard problem è davvero dissolto?

Si e no.

Certamente, gli autori, come altri prima di loro (Marco Giunti, ad esempio), hanno portato buoni argomenti contro l’ipotesi zombie, cioè che possano concettualmente esistere organismi viventi in tutto e per tutti simili a noi, ma privi di coscienza.

Tuttavia, resta la differenza tra a) sistemi di elaborazione di informazioni privi di coscienza, come ad es. una videocamera (che traduce informazioni tratte da onde luminose in informazioni registrate su supporto magnetico) o anche un organismo profondamente addormentato che, tuttavia, minimalmente, reagisce agli stimoli dell’ambiente, e b) sistemi di elaborazione di informazioni coscienti (sistemi cognitivi, nel linguaggio degli autori).   Quando, come e perché in certi sistemi sorge la coscienza? Qui torniamo alle risposte classiche di Tononi, Baars etc.  Ma, se queste possono, almeno a livello congetturale, risolvere lo easy problem (quale soglia deve essere superata, p.e. in termini di integrazione tra le informazioni, affinché si dia coscienza;  o quali componenti del sistema nervoso centrale devono essere eccitati etc.), rimane il problema di capire perché le stesse funzioni assolte dalla coscienza non potrebbero essere assolte in assenza di essa.

Sotto questo profilo l’esistenza della coscienza, anche se considerata dagli autori un “non problema”, in quanto essa, all’interno del loro paradigma monistico, sarebbe “spontaneamente” parte di un sistema cognitivo, che evidentemente abbia raggiunto una certa complessità (senza che tale sistema possa operare in “modalità zombie“, cioè inconsciamente), resta nei fatti un problema, a meno che non ci si risolva, appunto, minimalisticamente, a considerarla un tratto free rider, privo di ruolo causale, accidentalmente associato a certi stati cerebrali.

Gli autori stessi sono consapevoli di questo problema, quando scrivono:

There are still several open questions that need to be addressed in the future. For example, what are the necessary and sufficient conditions for a cognitive frame of reference to have phenomenal consciousness?

Tuttavia, secondo me, l’intuizione degli autori, consistente nel considerare l’emergere della coscienza dal punto di vista relativistico, oltre a risolvere l’annosa questione del carattere privato della coscienza, ha il pregio di rimarcare il carattere che chiamerei trascendentale e, come tale, irriducibile della coscienza (gli autori, del resto, come detto, si proclamano fisicalisti, ma non riduzionisti).

Consideriamo la cosa sotto il seguente profilo. Tutto il ragionamento sviluppato dagli autori, come abbiamo visto, si regge sulla tesi ampiamente argomentata dell’impossibilità di sistemi zombie. Addirittura gli autori si spingono a sostenere che un sistema cognitivo artificiale (“ALICE”) in tutto e per tutto assimilabile per il suo funzionamento a un sistema naturale (“Alice”) dovrebbe essere altrettanto cosciente.

N. B. Quest’implicazione, astrattamente corretta, a me pare implausibile: un sistema artificiale, cioè non organico, potrebbe non avere un’organizzazione interna davvero assimilabile a un sistema vivente. Tuttavia, sono d’accordo con gli autori che, se un determinato sistema fosse del tutto equivalente a un sistema vivente cosciente, sarebbe un sistema vivente cosciente.  Non è però scontato che sia sufficiente che l’equivalenza debba riguardare soltanto i due sistemi in quanto processano informazioni, come pensano gli autori quando sostengono che, senz’altro,

the neurocomputational structures are equivalent to the phenomenal structure.

Infatti, può darsi che la coscienza richieda altro rispetto a ciò che oggi comunemente associamo al termine “cognitivo” in senso funzionale (“neurocomputazionale”, nel lessico degli autori). Ma la questione qui può essere lasciata aperta, in quanto non è pertinente alle ragioni del mio interesse per la teoria degli autori.

La coscienza, dunque, in quanto caratteristica di ogni sistema percettvo-cognitivo propriamente detto (cioè tale da aver raggiunto, evidentemente, la sufficiente complessità), dovrebbe essere molto più diffusa di quello che si potrebbe credere (come argomentano, ad esempio, in modo convincente, Ginsburg e Jablonka, sulla base di un principio di analogia, in riferimento agli animali che consideriamo “inferiori”).

Ma, soprattutto, tutto il ragionamento poggia sul diverso modo in cui appaiono le cose (e, in particolare, i sistemi percettivo-cognitivi) a seconda che si adotti una prospettiva in prima persona (cioè a partire da un sistema percettivo-cognitivo trasparente a se stesso)…

the first-person perspective [...] is the cognitive system from its own observer perspective

… o una prospettiva in terza persona. Il “mio” sistema percettivo-cognitivo, che a me appare trasparente (cioè non appare affatto), ad altri può apparire come intrico di neuroni etc.

Quello che non è dato sapere è come siano le cose in se stesse. Quando gli autori invocano i diversi “sistemi di riferimento” di fatto invocano diverse “prospettive” cioè diverse forme della coscienza. Al di fuori di un sistema di riferimento (proprio o altrui), nella stessa logica degli autori, sembra difficile poter parlare di “universo” o di “realtà”

(come del resto accade anche se si adotta la prospettiva della relatività generale per la quale è necessario conoscere lo stato dell’osservatore, p.e. in quiete o in moto relativo, rispetto ai diversi sistemi fisici che osserva o in cui è immerso, per caratterizzare questi stessi sistemi fisici).

È vero che gli autori, dichiarandosi fisicalisti, precisano quanto segue:

We avoid the term “first-person perspective” because of its occasional association with immaterial views of consciousness; cognitive frames of reference refer to physical systems capable of representing and manipulating inputs. These systems have physical positions in space and time and instantiate distinct dynamics.

Tuttavia, nonostante queste avvertenze, va ricordato che per gli autori

a cognitive frame of reference [---] is the perspective of a specific cognitive system from which a set of physical objects and events are being measured

Ne segue che

  1. un sistema di riferimento cognitivo trasparente a se stesso (peraltro chiamato dagli autori anche “osservatore”) è esattamente una prospettiva in prima persona;
  2. il fatto che questo sistema abbia “una posizione fisica” nello spazio e nel tempo non comporta che tale posizione sia “assoluta”: spazio e tempo non possono che dipendere dallo stesso (o da un altro) sistema di riferimento (nulla, compresi spazio e tempo, è ciò che è assolutamente, ma ha certe proprietà solo a partire da un determinato sistema di riferimento / osservatore).

Del resto gli stessi autori dichiarano:

The essence of the relativistic principle is that there is nothing over and above the observer.

In definitiva l’invito (forse involontario) di questo articolo mi sembra sia quello di adottare una prospettiva radicalmente fenomenologica e di istituire relazioni (matematiche) tra fenomeni senza che vi sia alcuno spazio residuo per una pretesa “realtà in sé”.  Se non è panpsichismo, è comunque una prospettiva in cui la coscienza (l’osservatore), nelle sue diverse manifestazioni (prospettive), appare imprescindibile.

N.B. Qualcuno potrebbe obiettare che “osservatore” o “sistema di riferimento”, nel lessico della relatività di Einstein, non implicano necessariamente la “coscienza” in senso fenomenologico. Ma, se questo è vero appunto nella fisica di Einstein, non è vero nella teoria relativistica della coscienza: infatti, la tesi degli autori è che un sistema percettivo-cognitivo, in quanto tale, è sempre anche “naturalmente” cosciente.

Si potrebbe, infatti, trarre la seguente conclusione: se, come gli autori suggeriscono, adottiamo una teoria relativistica della coscienza, cioè, in ultima analisi, consideriamo che gli stessi sistemi cognitivi di riferimento possono apparire o meno coscienti a seconda che siano osservati da se stessi o da altri, ciascun sistema cognitivo di riferimento è trasparente quanto meno a se stesso e, dunque, cosciente; non è dato, cioè, alcun sistema cognitivo di riferimento, rispetto al quale l’universo sia completamente privo di osservatori, in quanto ciascun sistema cognitivo di riferimento deve essere considerato sempre anche come un osservatore.

Alla luce di questo modello si potrebbe ad esempio risolvere l’annosa questione del sonno profondo. Quando dormo di sonno profondo agli occhi di altri, cioè all’interno di altri sistemi cognitivi di riferimento , io sono vivo, respiro e scorre del tempo. All’interno del mio sistema cognitivo di riferimento questo tempo, tuttavia, non esiste assolutamente. È saltato. Io mi addormento e mi risveglio senza soluzione di continuità, dal momento che un sistema cognitivo di riferimento trasparente a se stesso non può mai essere inconscio.

Che dire di quando morirò?

Qui si apre la classica alternativa: o non ci sarà risveglio, come nelle prospettive materialistiche à la Epicuro, oppure ve ne sarà uno altrove, come nelle prospettive soteriologiche à la Platone, legate o meno a dottrine trasmigrazioniste.

Curiosamente gli argomenti platonici a favore dell’immortalità dell’anima possono vantare la stessa matrice degli argomenti di Epicuro contro la paura della morte. Si tratta del teorema di Parmenide “Ciò che è è e non può non essere”, traducibile, nel lessico degli autori dell’articolo qui discusso, come: “Non si dà nessun sistema cognitivo di riferimento che non sia cosciente e trasparente a se stesso”.

Come è noto, nella Lettera a Meneceo Epicuro rassicura il suo corrispondente con l’osservazione: “Quando c’è la morte non ci siamo noi, quando ci siamo non c’è la morte”.  Stranamente, però, Epicuro non ne deriva l’immortalità dell’anima, ma solo l’impossibilità di fare esperienza del passaggio dalla vita alla morte (proprio come non si può fare esperienza del passaggio dalla veglia al sonno).

Viceversa, nel Fedone, Platone, deriva dalla nozione di “anima” come sostanza contraddistinta dalla proprietà dell’esser viva (noi diremmo: di esserci) l’impossibilità (la contraddittorietà) per l’anima dell’esser morta.

Chi ha ragione?

Tutto è uno

Ascoltando non me, ma il Lògos, è saggio convenire che tutto è uno. Da tutte le cose l'uno, dall'uno tutte le cose. [Eraclito di Efeso,…

La coscienza non può essere l’effetto di alcunché

A me sembra che la coscienza possa essere adeguatamente spiegata assumendo il paradigma meccanicistico (che, in “filosofia della mente”, come sai, assume il nome di…

Una “filosofia perenne” nel segno di Platone?

Consonanze e dissonanze

tra Salvatore Lavecchia, Generare la luce del Bene.
Incontrare veramente Platone
,  Moretti&Vitali, Bergamo 2015

e Giorgio Giacometti, Platone 2.0.
La rinascita della filosofia come palestra di vita
,
Mimesis, Milano-Udine 2016.

Dopo aver rilevato le “risonanze” intellettuali tra la mia prospettiva, quale è esposta in Platone 2.0 (d’ora in poi P, seguito dall’indicazione del numero di pagina o di paragrafo d’interesse) e quelle di due colleghi filosofi praticanti, Stefano Zampieri ed Eugenio Agosta (nel caso di quest’ultimo con riferimento, tuttavia, alla sua prospettiva teoretica piuttosto che a quella pratico-filosofica),  non mi sottraggo a un esercizio per certi aspetti più audace: misurarmi con la prospettiva di un fine interprete di Platone di ambiente accademico: Salvatore Lavecchia, docente di Filosofia presso l’Università di Udine, che ho avuto modo di conoscere e apprezzare personalmente (e che tutto sembra meno che un arcigno “professore universitario”, in considerazione della profonde risonanze esistenziali generate in lui e nei suoi uditori da quello che egli studia  e insegna).

Quella di Lavecchia appare una prospettiva straordinariamente consonante con la mia, sebbene sviluppata a partire da  premesse in qualche misura diverse e, soprattutto, in vista di scopi diversi:

  1. quello di Lavecchia, “invitare” il lettore “immediatamente” a quella che egli denomina un’“agatologia” (cfr. G[enerare la luce del bene], p. 26), intesa come una vera e propria esperienza spirituale (cfr. G, p. 12),
  2. il mio quello di presentare criticamente una concreta pratica filosofica, la “consulenza filosofica”; certo, anch’essa, come l’“agatologia” di Lavacchia, “platonicamente” ispirata.

Questa consonanza sembra molto promettente, se è vero, come scrive Lavecchia, che “nella luce del bene […] l’io è l’autogenerarsi che accade a partire dall’altro e nell’altro” (G, p. 100) all’interno di un “legame” (che non è “vincolo”) di universale “amicizia” (ibidem) fondato sulla similitudine, all’interno di una sfera “in cui ogni opposizione tra identità e alterità, fra io e altro [intendo: tra me e Salvatore], è fecondamente trascesa” (ibidem).

Questa promettente consonanza si registra su una serie di intuizioni centrali, che è difficile isolare una per una, tante e tali sono.

Forse il gesto più audace che fondamentalmente condividiamo è quello di riproporre nel nostro tempo la filosofia come pratica spirituale, platonicamente ispirata.

Ciò comporta, innanzitutto e fondamentalmente, un rapporto ai testi filosofici, in particolare platonici, ben oltre un mero interesse filologico (anche se nel pieno rispetto dei testi). Vi esercitiamo una libera ermeneutica guidata dalla nostra personale esperienza della verità. Ho cercato di giustificare tale ermeneutica – che ho denominato “classica” perché attestata presso gli antichi e lo stesso Platone (cfr. P[latone 2.0], pp. 539-45) -, sul piano scientifico ed epistemologico, ai §§ 6.4-7 del mio Platone 2.0. In un certo senso Lavecchia non fa che “applicarla”, in piena consapevolezza, come si evince già nell’introduzione a Oltre l’Uno e i Molti [altro testo fondamentale di Lavecchia, dedicato, come recita il sottotitolo, a Bene ed essere nella filosofia di Platone, Mimesis, Milano-Udine 2010],  quando egli si assume la responsabilità di esplicitare tratti non documentati della protologia platonica (la presunta dottrina esoterica della Monade e della Diade, ricostruita dalla cd. Scuola di Tubinga), colmando “lacune lasciate dalle fonti”, e si appella a un lettore che non si fermi ai testi, ma sperimenti in se stesso se quello che Lavecchia scrive “potrebbe [o meno] riguardare Platone” (cfr. O[ltre l’Uno e i Molti], pp. 8-9, io avrei integrato: “e soprattutto la verità che attraverso i testi di Platone si manifesta”).

Anche in Generare la luce del bene Lavecchia invita il lettore a “sperimentare” nella propria vita la sua lettura di Platone (G, p. 27) in un “esercizio di prassi e meditazione filosofica” (ibidem), dopo aver avvertito, nell’Introduzione, che ciò a cui il libro mira è disvelare un futuro che “va scoperto, generato a partire da poche tracce” disseminate da Platone nei suoi dialoghi (G, p. 12). Ciò perché Platone, come il suo maestro Socrate (e, io aggiungerei, ogni “filosofo” e “scritto filosofico” degno di questo nome; anzi, ogni scritto tout court che voglia venire filosoficamente letto) “non vuole dare una qualche cosa a chi non riesca a darsi la realtà da cui il filosofare attinge sostanza e senso” (G, p. 29). “I suoi scritti, in altre parole, non vogliono produrre un’esperienza che non sia del tutto propria della persona con cui dialogano, vale a dire partorita dalla cosciente attività di quella persona” (ibidem).

Del tutto consonante con l’approccio “filosofico” ai testi che propongo in Platone 2.0, invocando a più riprese la critica platonica della scrittura contenuta nel Fedro di Platone e nella VII Lettera,  è quest’ulteriore, preziosa considerazione di Lavecchia (G, p. 86):

In nessun luogo Platone caratterizza in modo esaustivo il percorso di trasformazione che conduce a questo obiettivo [cioè "farsi buono nel modo più compiuto" (Repubblica, 501d8)]. [...] I suoi scritti non vogliono essere manuali di ascesi e meditazione. L'itinerario di trasformazione che propongono, infatti, non può essere percorso a partire dall'uso di uno scritto. Vivo Platone, si poteva tentare di accedere all'Accademia, e sperimentare, così, la concretezza dell'incontro individuale col maestro. La persona che oggi legge i dialoghi platonici è, invece, chiamata a incontrare Platone oltre ogni incontro esteriore con un maestro: a farsi, dunque, generatrice del proprio percorso - della via consonante con la propria singolarità - a partire dalle indicazioni [io avrei scritto: "dal campo di oscillazione semantico", cfr. P, p. 535] dello scritto. Indicazioni che mai vorranno essere intese come ricette, norme, leggi.

Ora, proprio questa messa in luce dello stile ermeneutico “classico”, che Platone esige e che, mi sembra, Lavecchia e io pratichiamo, permette di chiarire la delicata questione se vi siano o meno “dottrine” attribuibili a Platone.

Chi legge il libro di Lavecchia ha l’impressione che egli attribuisca a Platone diverse dottrine (a ragione o a torto, in opposizione più o meno esplicita ad altri interpreti ecc.) spesso evocando precedenti ricerche “erudite” dello stesso Lavecchia; ad es. la dottrina platonica relativa all’“esistenza” di un Metaprincipio oltre Uno e Dualità indeterminata (esaminata in Oltre l’Uno e i molti, cfr. O, p. 23 e ss.), quella relativa alla manifestatività del Bene come diffusivum sui (cfr. G, p. 32 e passim, vedi anche O, p. 12, p. 24 e passim; ) ecc.

D’altra parte, io stesso, nel sottolineare consonanze e dissonanze riguardo a certi “contenuti” della ricerca di Lavecchia, come farò tra poco, sembrerò credere che Platone “dica” cose più o meno simili a quelle che “dice” Plotino ecc.

Tutto questo sembra suggerire che esista un “oggetto” che possiamo chiamare “la dottrina di Platone” (quella scritta o magari quella non scritta ecc.) che si può confrontare con la “dottrina di Plotino” o, come suggerisce Lavecchia, con il “cristianesimo” (cfr. O, p. 55, n. 34) o con la dottrina contenuta nei Veda (cfr. O, p. 66 e ss.) ecc.

Eppure io stesso sostengo in Platone 2.0 che non si dànno propriamente dottrine platoniche (cfr. P, p. 432, anzi, arrivo a dire – cfr. P, p. 436 – che non esistono “dottrine filosofiche” tout court,!), ma che Platone ci consegna solo un metodo (quello su cui anche Lavecchia si concentra nella seconda parte di Generare la luce del Bene), ossia quello del dialogo maieutico.

Come si conciliano questi due approcci?

La mia ipotesi, che mi sembra consonante con la prospettiva di Lavecchia (fatta salva la naturale ambiguità del linguaggio), è la seguente: una dottrina è costituita da una serie di giudizi, proposizioni o tesi sul mondo, suscettibili di essere vere o false (in linguaggio aristotelico “apofantiche”, dichiarative); è qualcosa sulla quale si può essere più o meno d’accordo. Invece gli scritti di Platone (e, nella mia prospettiva, anche dei platonici di ogni tempo, anzi tutti gli scritti di qualsiasi genere letti attraverso un’adeguata ermeneutica, come quella che chiamo “classica” – cfr. P, §§ 6.4-7 -, Lavecchia direbbe – cfr. G, p. 29: ricorrendo alla “percezione spirituale” resa possibile della loro “generatività filosofica”) non sono suscettibili di essere veri o falsi, ma propongono immagini e metafore (come la metafora centrale del Sole su cui Lavecchia a lungo si sofferma, cfr. G, p. 37 e ss.) che permettono al lettore di avvicinarsi più o meno alla Verità (con V maiuscola) – forse Lavecchia direbbe: “al Bene” – a seconda delle capacità del lettore medesimo.

Ora, Lavecchia e io siamo giunti, appunto, a “comprensioni” apparentemente simili (a giudicare dai nostri scritti, sebbene il linguaggio in cui ci esprimiamo sia un po’ diverso e comunque, come ricordato, per natura, ambiguo), leggendo cose simili (i testi platonici).

Questo può costituire un indizio che il nostro “comune” maestro, ahimé (apparentemente) morto, ossia Platone, a sua volta volesse suggerirci queste e non altre comprensioni, che, dunque, egli stesso vi sia pervenuto.

Ma si tratta solo di sospetti, di ipotesi… Platone è morto, non sapremo mai che cosa egli pensasse. Dobbiamo assumerci la responsabilità di affermare qualcosa “a partire da Platone”, senza pretendere che sia Platone ad affermarlo. In questo preciso senso, legato alla mia nozione di “ermeneutica classica”, non “oso” attribuirgli dottrine.

Passando, dunque, dal “metodo” ai “contenuti” (con i limiti appena precisati: si tratta di qualcosa che scopriamo grazie a Platone, più che a “informazioni” che ricaviamo dai suoi testi), un’intuizione su cui registro una profonda consonanza tra Lavecchia e me riguarda l’(appena evocata) idea che, nel lessico di Lavecchia, il “Bene” sia diffusivo di sé (cfr. p. 32) per amore (èros, cfr. G, p. 77 e ss., dove ci si immaginerebbe di trovare piuttosto “agàpe” secondo l’ormai vieta e poco approfondita distinzione, che non tiene conto, a quanto pare, dell’uso che fa di “èros” lo Pseudo-Dionigi, cfr. O, p. 85) e che “diffusivo di sé”, per amore, sia anche il filosofo che prende il “Bene” a modello (cfr. G, p. 84 e ss.).

Nella mia prospettiva, alla domanda “Perché proporsi come consulente filosofico?” si possono, infatti, dare molte risposte, ma la più intrigante chiama in causa proprio l’amore (nel senso di èros) che si prova per coloro con cui si entra in dialogo (cfr. P, p. 656); un amore non presuntuoso, perché, pur nella consapevolezza di potersi concedere (e che gli possa venire riconosciuto dall’altro) il ruolo di “maestro” (cfr. P, p. 461 e ss.), il filosofo non smette di provare un sincero interesse per la prospettiva dell’altro da cui egli stesso ha molto da imparare del mondo e di se stesso (cfr. P, p. 402 e p. 657).

Evoco qui, al riguardo, per esteso un passo assai significativo al riguardo (e quasi “letteralmente” consonante con certi passi di Lavecchia)  del mio Platone 2.0 (p. 656):

Il filosofo potrebbe voler coinvolgere nel suo gioco i “non filosofi” anche per amore, in senso antico e platonico...
– Per amore?
Sì, per amore loro e per amore della verità e del bene comune. Nel mito platonico della caverna chi ha la (s)fortuna di liberarsi dall’illusione delle ombre proiettate sulle pareti dell’antro e di uscire alla luce del Sole, rientra poi nell’oscurità per liberarne i suoi antichi compagni ancora prigionieri, a costo di venirne ucciso. Il filosofo – non dimentichiamolo –, a ragione o a torto, crede che (per chiunque, non solo per sé) non ci sia niente di meglio nella vita che filosofare  Dunque perché non offrire ad altri, anzi a tutti, quest’opportunità, allargando la comunità inconfessabile di coloro che cercano la verità e il bene con amore (èros)?

L’osservazione che la “caverna  [del mito platonico] è aperta” (cfr. G, p. 72 e ss.), rinforzando ulteriormente l’idea di una co-appartenenza di filosofo e non filosofo al medesimo universo di esperienza, mette in luce, in Lavecchia, una prospettiva radicalmente non dualistica, la medesima presupposta da Platone 2.0 (cfr, P, p. 390. n. 211), e ricorda la mia ipotesi, deliberatamente provocatoria, che la perlustrazione delle pareti della caverna la riveli “nastro di Moebius”, alcunché che ci conduce all’esterno di essa come se si trattasse dell’interno e viceversa (cfr. P, n. 123, pp. 456-7).

Anche la riflessione di Lavecchia sull’io (passim, ma spec. G, pp. 44-48), pur con alcune perplessità che esporrò più avanti, mi sembra “consonante” con molte mie considerazioni. Interessante, al riguardo, l’evocazione, in Lavecchia, del Libro dei ventiquattro filosofi (in G, a p. 45, ma anche in O, a p.  65, in esergo), soprattutto a proposito dell’idea di Dio come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo, intuizione ripresa, come si sa, anche da Cusano e Giordano Bruno. Tale immagine propone diverse ulteriori intuizioni, tra le quali quella che ciascuno di noi è anche centro e periferia dell’universo, Dio o bestia, a seconda dell’orientamento del suo “sguardo”, un po’ come immaginava Giovanni Pico della Mirandola nel suo celebre discorso sulla Dignità dell’uomo (nel quale, di nuovo, viene messa in gioco la nostra “assoluta” libertà, con accenti perfino neo-pelagiani). Nella mia prospettiva ciascuno di noi (che sa, cartesianamente, “che” è) scopre “chi” è solo filosofando… E che cosa scopre? Se va nella giusta “direzione”, di essere “al limite” tutti gli altri e Dio… più profanamente: di essere in un cammino di consonanza e convergenza con tutti gli altri e con Dio (cfr. P, § 4.5) .

Anche la “filosofia etico-politica” (“cosmo-politica”), implicita in Lavecchia (p.e. in G, pp. 59-62 e ancora in G, pp. 80-84), pur con diversità di accenti e di lessici, dovuta alla nostra diversa formazione, sembra riecheggiare quanto scrivo della “filosofia” come “gioco politico” assetato di verità e giustizia (e del Bene) nei primi paragrafi della sez. 7.5 di Platone 2.0. In generale l’intuizione, da Lavecchia più volte ribadita, che non si dà autentica teorési che non sia anche prassi o, come Lavecchia preferisce dire – distinzione lessicale non innocente, certo, che andrebbe approfondita -, poiési (cfr. p.e. G, pp. 79-80) è consonante con la a mia volta più volte insistita tesi secondo la quale “scopo della filosofia in senso antico è un ideale di coerenza performativa, un ideale insieme teoretico, etico e politico” (P, p. 570).  Anche se (perdendo con questo una straordinaria occasione!) non evoco il “cosmo” e la “bellezza” (come opportunamente Lavecchia fa) la “coerenza” a cui alludo suggerisce senz’altro la medesima direzione “generativa”.

Certo, la mia insistenza sull’antinomicità del “cosmo” e del Lògos che lo pervade e che ce lo rende intelligibile (in un orizzonte fondamentalmente, radicalmente “non-dualistico”) e, dunque, sull’antinomicità delle nostre stesse visioni del mondo (cfr. P, § 4.5.4)  mi porta talora a suggerire una certa “relatività” e/o “provvisorietà” del bene, di volta in volta ricercato (cfr. P, p. 592). Così, mostro talora di diffidare delle persone di cosiddetti “saldi principi” (cfr. P, p. 414), dietro i quali fiuto il rischio del dogmatismo e di quello che Lavecchia probabilmente chiamerebbe “normativismo”.

Tuttavia, come le ricorrenti metafore dell’elevazione e dell’evoluzione spirituale, a cui ricorro, dovrebbero suggerire (inaugurate rispettivamente al § 3.3.8 e al § 3.3.10 di Platone 2.0, ma poi frequentemente riprese), tutto ciò non mi porta affatto ad aderire a posizioni relativistiche, che a più riprese (cfr. P, p. 77; pp. 136-7; p. 403, n. 242), riecheggiando la celebre confutazione del relativismo protagoreo contenuta nel Teeteto di Platone (cfr. 169d e ss.), giudico autocontraddittorie; ma piuttosto a suggerire come un’autentica comprensione possa essere solo di ordine spirituale e/o intellettuale, non possa, cioè, scaturire soltanto da un procedimento meramente razionale o argomentativo (procedimento sempre esposto all’antinomia, appunto, anche sotto il profilo goedeliano, cfr. p.e. P, § 2.4.12 e § 5.3.1).

Lavecchia non mi sembra lontano da questa prospettiva, che esalta la natura “antinomica” della ragione (anche se egli sembra talora riferire tale antinomicità più al Principio che all’ordine intelligibile che ne scaturisce), quando p.e. mette in guardia, p.e. in G, p. 105 e ss., dalla riduzione del dialogo socratico – come tentano di fare Nelson e altri –  a una mera (direi: sofistica, dunque retorica, non filosofica) strategia “argomentativa” e fa appello alla funzione del filosofare come “cura (spirituale) di sé”.

In particolare, Lavecchia, quando mette in luce il “dolore” che costa il “parto” socratico (G, p. 107), la radicale trasformazione che esso comporta, il disorientamento che induce, riconduce tutto questo all’abbandono (da parte di un io alla ricerca della propria verità) di “ogni certezza, verità, realizzazione, anche le più salde, profonde, vitali”; alla spoliazione dell’anima da “ogni sostegno, costituito da qualche forma dell’essere” (ibidem). In tal modo anche Lavecchia, se pure con linguaggio diverso e con più prudenza di me, sembra alludere alla “crisi” di quegli (apparentemente) “saldi principi” su cui si fondano le nostre talora fin troppo “rigide” o “meccaniche” visioni del mondo, quando non si aprono alla “scoperta” antinomica p.e. dell’altro in noi stessi.

Molto bello e condivisibile il ritratto che Lavecchia dipinge (l’icona, verrebbe da dire) della maieutica socratica (cfr. G, p. 96 e ss.). La tesi messa in campo è la seguente: “Socrate può farsi levatrice del vero sapere perché, come le levatrici riguardo al corpo, è stato capace di concepire e partorire nella propria anima” (G, p. 98). Tale lettura riecheggia quanto io stesso ho sostenuto circa il tratto presumibilmente “ironico” del  “non-sapere” socratico, un non-sapere che, in realtà, non può non presupporre (postulare) una chiara direzione di ricerca (cfr. P, p. 149 e ss.); e, soprattutto, evoca la mia sottolineatura del ruolo del filosofo consulente come potenziale “maestro” che deve aver già percorso la via che suggerisce al proprio “discepolo” (cfr. P, pp. 461-2).

Come accennato, le consonanze sono tali e tante che non basterebbe un libro intero a metterle in evidenza….

Vengo ora ad alcune divergenze (dissonanze) di prospettiva, in ultima analisi non così rilevanti, forse più apparenti che reali (legate cioè a differenze lessicali), ma che mi sembra opportuno mettere in luce. Se le consonanze, infatti, indicano che qualcosa di “vero” o, almeno, di “comune” è stato colto, le dissonanze suggeriscono che ogni “filosofo”, in quanto uomo, non può non guardare a ciò che appare in quella sua determinata prospettiva che lo distingue da ogni altro.

Un’apparente divergenza (non tanto, per la verità, tra gli scritti di Lavecchia e il mio Platone 2.0, ma tra quello che Lavecchia scrive e quello che io penso…  non si tratta, infatti, di questioni che ho trattato nel mio libro) riguarda quello che in Oltre l’Uno e i Molti Lavecchia denomina “Metaprincipio”, sostenendo che si tratti del Bene piuttosto che dell’Uno (cfr. O, p. 17 e ss.).

Certamente è così, a me pare, se per “Uno” intendiamo l’ “Uno-Uno” irrelato della prima ipotesi esaminata dal Parmenide. Ma lo stesso Parmenide, seguito poi dai cd. (neo)platonici, che l’hanno a lungo commentato, “conosce” anche l’Uno-molti, l’Uno come centro di relazioni complesse. In Plotino il principio (che, oltre che “Uno”, come riportato da tanta manualistica, è altrettanto denominato “Bene”, e sempre “per modo dire”, ossia nella consapevolezza dell’insufficienza del linguaggio) è senz’altro diffusivum sui.

Plotino, come è noto, riprende la metafora già platonica della “generazione”, onde ciò che è giunto a perfezione spontaneamente genera, a cui egli aggiunge, come pure è noto, la metafora dell’èklampsis – o folgorazione -, quella della moltiplicazione di un “fuoco”, che si espande senza impoverirsi – che può ricordare la moltiplicatività della luce in Grossatesta, evocato da Lavecchia in G, p. 42 e ss., ecc…

Su Plotino, in generale, in chiave decisamente “non-dualistica” e “prospettica”, cfr. il mio Meditare Plotino, nel quale, nel lontano 1995, sperimentai per la prima volta la “nostra” libera – o “classica”- ispirata ermeneutica.

Dunque credo che si possa considerare il Principio non meno Uno che Bene, a condizione che si precisi che l’“Uno”, a cui si pensa, non è più immanente che trascendente, ecc.

Sotto questo profilo, per ammettendo che la tradizione cd. “neoplatonica” possa, qua e là, aver accentuato l’aspetto della trascendenza rispetto a quello dell’immanenza (ma Proclo non ha forse ispirato lo Pseudo-Dionigi?), non mi inoltrerei, come sembra fare Lavecchia (soprattutto in Oltre l’Uno e i Molti), in difficili “distinguo” tra “monisti radicali” e “non-dualisti”, ma, soprattutto con uno sguardo (fortemente critico) al dominante paradigma meccanicistico, nel quale siamo per così dire immersi, insisterei a parlare di una “tradizione platonica” tout court (che va da Pitagora, via Socrate e Platone, a Schelling e oltre… forse a Rudolf Steiner?, attraverso indifferentemente, pur con accenti diversi, Plotino, Proclo, Pseudo-Dionigi, Eriugena, Eckhardt, Cusano, Ficino, Pico, Bruno), che costituisce, secondo me, l’asse fondamentale della filosofia di ogni tempo (come philosophia perennis, e ci metto pure Leibniz che si fece promotore di tale nozione).

Tale filosofia perenne che cosa insegna? All’ingrosso quello che Lavecchia insegna ai suoi fortunati studenti universitari! Che tutto è in relazione con tutto (come direbbe anche Eugenio Agosta), in modo costitutivo e non accidentale (anche se sembra che così non sia), il che è certamente reso possibile da un “Principio” (come che lo vogliamo chiamare, ammesso che non sia preferibile osservare un religioso silenzio nell’alludervi) che “desidera”, “ama”, “vuole” tutto questo perché ama e vuole il bello.

Ancora una piccola nota sul Parmenide di Platone.

So che molti, come Enrico Berti e altri, distinguono la prima ipotesi sull’Uno, come destinata ad essere abbandonata, dalle successive, più “aderenti” a un (presunto) pensiero di Platone. Tuttavia, a parte la questione di fondo, se vi sia o meno un “pensiero platonico” (o che cosa quest’espressione significhi, se siamo d’accordo che non vi sono “dottrine” in Platone, ma solo “immagini” che ciascuno ha la responsabilità di intendere e meditare), osservo che:

  1. la prima ipotesi non viene abbandonata senza ragione (come sostiene invece Lavecchia in Oltre l’Uno e i Molti), ma per l’ottima ragione che, partiti per cercare le implicazioni dell’ipotesi che l’uno sia (o, secondo un’altra versione, che l’uno sia uno), si finisce per scoprire che, in questa ipotesi stessa, l’uno non sarebbe alcunché (di finito o infinito, nel tempo o fuori del tempo ecc.): insomma, si finisce in un’antinomia;
  2. le altre ipotesi non hanno maggior fortuna: può darsi che singolarmente ne abbiano, ma, se le confrontiamo le une con le altre, che cosa ne consegue? Quello che leggiamo alla fine del dialogo:
Diciamo dunque [...], come è risultato, che sia che l'uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri, rispetto a se stessi e reciprocamente fra loro, sono tutto, secondo ogni modo di essere e non lo sono, appaiono esser tutto, secondo ogni modo di essere e non appaiono così (166c).

Un ginepraio di aporie, insomma, che fanno impallidire le aporie della prima ipotesi! In ultima analisi, nella mia prospettiva, il “succo” del Parmenide è che tutto è in relazione con tutto, ma questo non si può pensare che oltre il principio di non contraddizione; principio che, come preciseranno i (neo)platonici successivi (ma anche Lavecchia sembra sostenere, almeno quando ne esclude il Bene, che sarebbe antinomicamente essere e oltre all’essere),  “funziona” (come l’intera Fisica e Metafisica di Aristotele, ecletticamente recuperate) solo per il mondo sensibile e non anche per quello intelligibile (per il quale si deve, infatti, ricorrere a immagini e miti).

Un’altra divergenza tra me e Lavecchia potrebbe riguardare l’insistenza di Lavecchia sulla “libertà” assoluta del Bene (e/o del Demiurgo che egli identifica con il Bene).

Se per “libertà” Lavecchia intende “spontaneità”, ossia il fatto che il Bene generi senza costrizione alcuna che gli provenga da altro, neppure da una Legge in qualche modo a lui sovraordinata (cfr. quanto Lavecchia scrive in G, p. 32), non posso che consentire.

Tuttavia, egli sembra alludere (altrove, p.e. in O, p. 60, quando asserisce che il Bene “potrebbe non comunicarsi, potrebbe non farsi Principi[o]”) a un vero “libero arbitrio”, per cui il Bene avrebbe potuto anche non generare.

Questo mi lascia molto perplesso. Agostino parlerebbe di libertas minor (di fare anche il male o, almeno, di non fare il bene), riservandola tuttavia solo all’uomo, ma non agli angeli o a Dio, “liberi” solo di fare il bene (libertas maior). E quale libertà potrebbe meglio attagliarsi al Bene se non la libertas maior? Come potrebbe il Bene o il Demiurgo in quanto è buono astenersi dal generare (lo stesso Lavecchia si lascia sfuggire che il rapporto tra trascendenza e immanenza è di “implicazione”, anche se poi, in nota, a p. 54 di Oltre l’uno e i molti, corregge il tiro….)?

O, forse, come argomento nel mio libro su Schelling (Ordine e mistero. Ipotesi su Schelling, Padova, Unipress 2000, pp. 135 e ss.), si tratta di una libertà originaria, antinomica, al di qua della distinzione tra libertà e necessità, così come tra spontaneità e libero arbitrio? Ciò sembrerebbe suggerito dai passi di Generare la luce del Bene sulla libertà (cfr. G, pp. 53-54), che sembrano talora quasi “citare” involontariamente le mie riflessioni su di essa con riguardo a Schelling (una libertà che si afferma nel negarsi, che si arricchisce nel donarsi, vera e propria cristologica – o cristofanica per citare Panikkar – kènosis del Lògos).

Un’altra questione riguarda l’ampio ricorso che Lavecchia fa alla nozione di “coscienza” e a quelle correlate di “io” e di “autocoscienza”. Come Lavecchia stesso riconosce (cfr. G, p. 19 e ss.), si tratta di termini assenti, almeno con il significato che noi modernamente gli conferiamo, nella letteratura filosofica greca. Qualcosa del genere – osservo – si ritrova nel pensiero indiano (p.e. la nozione di ahamkara).

Invocando (legittimamente) la sua libera interpretazione, Lavecchia si concede comunque di servirsene per intendere più a fondo i testi di Platone. In linea generale la lettura di Lavecchia mi convince, soprattutto laddove egli puntualizza che la contrapposizione tra soggetto e oggetto, sapere ed essere (cfr. p.e. G, pp. 40-41), come tutti i dualismi, è assente in Platone, per lo meno al livello del “mondo delle idee”.

Tuttavia, mi chiedo se l’assenza della moderna nozione di “coscienza” non ci dica qualcosa di ancora più profondo di quello che traluce dagli scritti di Lavecchia.

È strano che il pensiero antico abbia approfondito nozioni solo apparentemente affini come quelle di noûs, epistéme, psyché, àisthesis, antìlepsis, ecc. ma non si trovi un corrispondente esatto di “coscienza”.

La mia ipotesi è che, a partire da una radicale identità di “essere” e “conoscenza” (che può essere fatta risalire a Parmenide), nel senso che ciò che sommamente “è” (òn) è anche sommamente conoscibile (gnostòn), come giustamente Lavecchia sottolinea, quella che chiamiamo “coscienza” sia talmente sovrapponibile (senza residui) al modo in cui le cose appaiono e/o sono da non avere bisogna di essere “nominata”.

Intendo dire che per un Greco sarebbe assurdo immaginare che qualcosa “rimanga” di ciò che “è” qualora nessun vivente o nessun dio ne fosse più “cosciente”. La coscienza è il solo modo di darsi dell’essere; in prospettiva, certamente, in questo o quel modo, sempre accompagnato da questo o quell’accidente ecc. Non c’è un “soggetto” della coscienza, c’è solo la coscienza, ossia il darsi dell’essere. Niente coscienza, niente essere. Nell’animale o nell’uomo che sogna l’essere si mostra in modo imperfetto, oscuro, attraverso i sensi. Ma in greco non c’è differenza sostanziale tra “apparire” e “pensare”, nel senso di “opinare” (si dice sempre “dokèin”): è indifferente dire “questo sembra bello” e dire “penso che questo sia bello”.

In questa prospettiva dove collochiamo l’“io”? Non è l’equivalente dell’anima, perché, quando dormo, l’anima può continuare a digerire i cibo (l’anima vegetativa) senza che “io” lo sappia e neppure, propriamente, io “esista”. Così, se sono dominato, come Medea, dall’anima irascibile, quella “razionale” passa nell’inconscio. “C’è” ora solo l’anima irascibile. L’esserci di qualcosa, di nuovo, coincide con la coscienza di qualcosa. Quello che manca è la “persona” (altro termine “poco classico”), la pretesa identità personale, forse più anagrafica che sostanziale. Paradossalmente mi sembra che il “teatro dell’io” di Hume sia più consonante con la visione greca, tendente all’universale, che il soggetto cartesiano, preteso assoluto, chiuso in se stesso.

Anche Lavecchia,  ben inteso,  va in questa direzione, ma – mi sembra – con più prudenza, cercando di mediare tra antico e moderno, ritrovando nell’antico frammenti di modernità, pur riconoscendo che l’operazione non è filologica, ma “spirituale”… E se, viceversa, l’invito degli antichi (e dei musulmani come Avicenna, al-Ghazali e al-Suhrawardi, evocati pure da Lavecchia. cfr. G, p. 23 e ss.) fosse proprio quello di trascendere l’identità anagrafica a favore di un’ènosis (l’atman a cui Lavecchia allude in G, p. 21) in cui si conservano bensì le differenze, ma più tra “idee” che tra “persone”? O tra “istanti di coscienza” indipendentemente dal fatto che essi siano “giuridicamente” “miei” o “tuoi”? Io sono davvero più diverso dal lettore di queste righe che da quello che “io stesso” ero dieci anni fa (o meglio: “Giorgio Giacometti era dieci anni fa”)? Sono solo dubbi (in parte raccolti e rilanciati nel mio articolo sulla coscienza come “prospettiva” dell’universo su se stesso)…

Tutto questo pone una questione di fondo. Come rivolgersi a chi non legge Platone, a chi non si sente persuaso dalla sua (mia, di Lavecchia ecc.) metaforica? Anzi, come rivolgerci a quella parte di noi stessi, sicuramente a quella parte di me, che, nutrita di pensiero post-moderno, ma soprattutto di Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Marx ecc., sospetta che il “cosmo” delineato da Platone (o, se vogliamo dalla Filosofia intera, letta alla luce di Platone) sia un bel “sogno”, frutto della nostra angoscia davanti al nulla e alla morte? A quella parte di noi e degli altri che pensa che il trionfante paradigma meccanicistico (che, nella mia prospettiva, si spaccia per scientifico senza esserlo) sia il solo scientificamente “validato” o, comunque, sostenibile e che la speculazione antica, come diverse vie spirituali, siano un’illusione, producano un “mondo dietro la mondo”, un’illusione non più sostenibile dopo i successi del meccanicismo (già prefigurato dagli atomisti antichi), da ultimo nella versione del darwinismo (come se si potesse dire: “Datemi una manciata di particelle subatomiche, due o tre forze fondamentali, un tempo abbastanza lungo, eventualmente infiniti universi, fate frullare e, per selezione casuale delle sole forme che riescono a sopravvivere e a replicarsi, vi farò nascere l’universo come lo conosciamo”)?

Urge, a mio modo di vedere, uscire dalla “filologia” e anche dall’ “ermeneutica” platonica più libera (come quella nella quale, ognuno a suo modo e con le proprie competenze, Lavecchia e io ci siamo cimentati), per venire allo scoperto e “smontare” pezzo per pezzo il paradigma “avversario” (come anche Lavecchia ha iniziato brillantemente a fare misurandosi con l’approccio riduzionistico del “filosofo della mente” Metzinger, cfr. G, p. 121 e ss.). Per mostrare che cosa (anche alla parte di noi stessi che non osa dubitare della scienza moderna)? Che non è vero che la scienza della natura si basi soltanto su “calcoli meccanici”, né che le sole cause materiali ed efficienti e un po’ di matematica possano rendere ragione dei fenomeni naturali. Bisogna mostrare che, per “essere”, anche il più piccolo atomo o altro “costrutto” supposto dalla mente dello scienziato deve avere una “forma” e un “fine”, deve entrare in un  “ordine”, così come ogni essere vivente non sarebbe quello che è senza una forma e un fine, vale a dire una relazione costitutiva con tutti gli altri viventi e con il proprio ambiente, relazione per la quale la mera selezione naturale casuale dei suoi caratteri costituisce una spiegazione tutt’al più parziale e comunque non sufficiente. Si tratterebbe, forse, di evocare le nozioni leibniziane di convenientia e compossibilità…

Insomma, la manovra socratica dovrebbe consistere, in campo epistemologico, non tanto nell’opporre un paradigma interpretativo a un altro, quanto, mostrando le aporie di quello meccanicistico, “opinato” come adeguato, nel far vedere come esso stesso presupponga, senza saperlo, ciò che vorrebbe liquidare: l’ordine cosmico generato (d)alla luce del Bene.

Chi mi segue su questo sito, sa che sto gettando le basi di un tentativo di questo tenore (secondo un ben preciso programma), ad esempio nell’articolo Come distruggere il meccanicismo in 10 mosse, nel quale prendo le mosse proprio dall’insopprimibilità “per me” della [mia] “coscienza”, come fa anche Lavecchia nelle ultime pagine del suo Generare la luce del Bene (cfr. p.e. G, p. 124).