Le neuroscienze non spiegano perché siamo coscienti

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Da qualche tempo si tenta di rendere conto del fenomeno “coscienza” dal un punto di vista delle scienze cognitive e/o delle neuroscienze. Se tali tentativi riuscissero, ciò costituirebbe una grave obiezione nei confronti della mia ipotesi, relativa all’irriducibilità della coscienza a ogni forma di meccanicismo (si tratti di fisicalismo “grossolano” o si tratti di più raffinati approcci “computazionali”, quali quelli appunto cognitivistici).

Tali tentativi non possono, tuttavia, riuscire per una ragione di fondo.

Ciò che la scienza sperimentale può fare (cosa, peraltro, di assoluto interesse) è individuare i correlati neuronali dell’esperienza soggettiva o cosciente o, comunque, costruire modelli p.e. computazionali corrispondenti a tale esperienza.

Una volta individuati tali correlati e/o costruiti tali modelli si può anche tentare di spiegare il loro modo di operare in termini funzionalistici, essenzialmente formulando ipotesi sui vantaggi recati all’organismo da tale modo di operare ai fini della conservazione e della riproduzione dell’organismo medesimo.

Tuttavia, in tal modo la scienza può tentare di risolvere soltanto quello che con David Chalmers è invalso chiamare lo easy problem della coscienza. Ciò che nessuna spiegazione di questo genere può costitutivamente fare è risolvere lo hard problem, cioè spiegare la ragione per la quale “esiste” una coscienza.

Infatti, ci si potrebbe chiedere, come abbiamo mostrato, perché quel determinato software (ricostruito come modello computazionale) non possa “girare” su quel determinato hardware (quei determinati correlati neuronali) senza che l’organismo in cui questo avviene ne sia minimamente cosciente, proprio come di tale attività non sono coscienti gli altri organismi che lo circondano.

Vi è poi un problema di fondo, concernente la “tenuta” epistemologica di questi approcci alla coscienza. Secondo alcuni autori, come Kleiner e Hoel, qualsivoglia teoria sulla coscienza che si pretenda scientifica e sperimentale

  1. o si rivela falsificata a priori (come avviene nel caso in cui la teoria in questione predica eventi controllati sperimentalmente attraverso reports la cui attendibilità si basi su modelli indipendenti dalla teoria stessa – di tale circostanza Kleiner e Hoel forniscono una dimostrazione matematica che qui non posso riportare – );
  2. o risulta infalsificabile, cioè una vuota tautologia (come avviene se i modelli che ispirano controlli sperimentali presuppongono la teoria stessa, cioè ne dipendono strettamente).

Quest’ultimo è il caso di diversi importanti approcci cognitivistici, che presuppongono che la coscienza “funzioni” proprio come essi vorrebbero dimostrare che funziona, come la teoria ITT (Integrated Information Theory) di Tononi e la teoria GNW (Global Neuronale Workspace) di Baars.

Le diverse teorie elaborate in campo neuroscientifico e cognitivo rivestono comunque un estremo interesse. Se esse non possono strutturalmente rendere ragione del fatto che siamo coscienti, ci possono aiutare a capire a quali condizioni la coscienza si possa manifestare in un organismo vivente.

Alcune di queste teorie incontrano poi diversi specifici problemi. A titolo di esempio ho discusso alcuni di questi approcci in diversi articoli che ho pubblicato su questo sito.

Nell’articolo Time Slices: What Is the Duration of a Percept? di Michael H. Herzog, Thomas Kammer, Frank Scharnowski, che ho qui discusso, si prova ad argomentare un presunto funzionamento “discreto” della coscienza.

Un altro articolo interessante, qui discusso, difende l’ipotesi che gli “eventi causali” arrivino alla coscienza (awareness) più velocemente di quelli “non causali”: si tratta di Causal events enter awareness faster than non causal events di Pieter Moors, Johan Wagemans e Lee De-Wit.

Nell’articolo The Origins of Consciousness or the War of the Five Dimensions Walter Veit sviluppa un’interessante teoria della coscienza, che ho discusso in questo articolo. Adottato il paradigma evoluzionistico, Veit ritiene che si possano “sbucciare” tutta una serie di “aggiunte” caratteristiche della coscienza umana e rinvenire negli animali, nei quali la coscienza si sarebbe originariamente affacciata, una coscienza ridotta alla percezione delle proprie emozioni, segnatamente di piacere e dolore, dall’evidente funzione biologica (utile alla conservazione e riproduzione dell’organismo che ne è dotato). In questo pre-print Veit non giustifica molte delle sue affermazioni, pure di un certo interesse, ma mi ha personalmente garantito che in un suo testo successivo molti passaggi oscuri saranno illuminati.

Un testo molto interessante che ho esaminato è il libro di Anil Seth, Being you. A New Science of Consciousness, Faber & Faber, Londra 2021. Questo propone una ficcante teoria della coscienza che sembra piuttosto convincente, anche se,  come c’era da supporre, rifiuta esplicitamente di confrontarsi con lo hard problem della coscienza, come lo chiama David Chalmers. L’interpretazione di fondo che Seth fornisce della coscienza è di per sé convincente: si tratterebbe di un sistema che, sulla base di un approccio predittivo “bayesiano”, “allucina” una realtà “funzionale” e non necessariamente simile alla “realtà vera”. Tuttavia, se ci si riflette, portata alle sue estreme conseguenze, cioè applicata alla stessa teoria di Seth, questa interpretazione avrebbe esiti molto diversi da quelli che Seth si attende. Poiché anche “oggetti” come il cervello o il corpo vivente sarebbero “allucinati” dalla coscienza, la stessa ipotesi secondo la quale la coscienza sarebbe un effetto del cervello dovrebbe venire abbandonata, secondo le prospettive aperte da Donald Hoffman e dalla mia stessa ricerca.

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di Giorgio Giacometti