Il prospettivismo non è relativismo

corridoio

  • In ultima analisi la tua… prospettiva sul mondo mi sembra affetta dal male incurabile di ogni prospettiva non realistica, ossia il relativismo. Infatti, se le cose, come tu sostieni, si dànno sempre solo in prospettiva, allora non vi è nessuna “realtà” oggettiva e tutto è relativo ai diversi punti di vista.

Vi è un dibattito, anche in rete, sul rapporto tra prospettivismo e relativismo. La mia posizione al riguardo è netta: il prospettivismo non è relativismo, se per relativismo si intende la teoria secondo la quale ognuno ha ragione dal proprio punto di vista.

Apparentemente, come tu dici, anch’io sostegno che tutto è “relativo a ciascun punto di vista”, ma questo genere di relatività, non diversamente dalla relatività nel senso di Einstein, non sfocia nel relativismo come sopra definito. Infatti, le diverse tesi sul mondo non sono tutte equivalenti, anche se tutte, anche le più aberranti, sono soggettivamente giustificate e giustificabili (se vengono sostenute, ve ne è sempre una ragione).

  • Come possono le diverse tesi non essere equivalenti se hanno tutte una loro ragion d’essere?

Precisato che, come argomentato altrove, non si dànno tesi sul mondo che non si risolvano in immagini del mondo (dunque non è mai possibile verificarle o falsificarle assolutamente), vi possono essere immagini o rappresentazioni migliori, più “vicine” al vero e altre peggiori, più “lontane” dal vero; fermo restando che anche questa (della minore o maggiore vicinanza al vero) è, a sua volta, un’immagine.

Il postulato fondamentale è che vi è qualcosa come una “verità”, soltanto: essa non è attingibile, se non misticamente, attraverso un’unificazione in Lei (hènosis, indiamento). Sotto questo profilo la “verità” non ha alcunché di soggettivo, ma è “oggettiva” anche se non può mai divenire, paradossalmente, “oggetto” del sapere, ma ne è piuttosto “fine” o “meta” o “principio regolativo”.

Riverbero della “verità” è quella che ci appare come realtà e che ci vincola a norme inviolabili (quelle che ci impediscono di realizzare tutti i nostri desideri).

In ultima analisi proprio la prospettiva, in senso tecnico, costituisce la migliore immagine della mia… prospettiva filosofica.

cubo

Se vuoi rappresentare un cubo in prospettiva devi per forza esaltarne alcune parti e nasconderne altre. Non puoi mostrare “tutto il cubo”, nella sua “verità”. Ciascuno può scegliere quali parti esaltare e quali nascondere. Dunque, apparentemente, ci sono tanti diversi cubi quante sono la rappresentazioni del cubo. Ma, in verità, esiste soltanto un unico cubo, che impone a ciascuna rappresentazione le regole inflessibili della sua produzione, se vuole essere una rappresentazione fedele a ciò di cui è rappresentazione.

N. B. Quest’immagine è appunto solo un’immagine. Infatti, lo spazio tridimensionale nel quale il cubo appare immerso è, a sua volta, nella mia concezione, uno spazio “soggettivo” (come in Kant), cioè attiene alle regole in base alle quali costruiamo l’immagine del cubo e di qualsiasi altra cosa. Un extraterrestre potrebbe percepire lo stesso cubo in uno spazio completamente diverso, a 11 dimensioni o in dimensioni frazionarie, in un modo completamente diverso (p.e. come un “frattale”). Che cosa resta del cubo al di là dell’immagine? Una “cosa in sé” sconosciuta, al di là dello spazio e del tempo, che non è simile né all’immagine prospettica che ne abbiamo, né alla sua “proiezione” in un sistema di assi cartesiani ortogonali (a sua volta un costrutto mentale). Ora, questa “cosa in sé” irriducibile non ha alcunché di soggettivo, nel senso “relativistico” per cui sarebbe altra cosa a seconda della prospettiva da cui la si guarda. Essa, certo, appare di volta in volta  diversa, ma è piuttosto quel “punto fisso” che rende possibili tutte le diverse visioni prospettiche.

  • Però tu sostieni che ciascuno di noi sia “tutto”! Dunque come puoi affermare che questa cosa in sé non abbia alcunché di “soggettivo”?

Attento. La mia “tesi ” o, meglio, “ipotesi” è che tutto sia uno e, poi, che questo uno-tutto sia (o meglio: “appaia come”) ciascuno di noi. In altre parole è il Tutto, in gran parte sconosciuto, “inconscio”, sotto questo profilo “oggettivo”, “cosale”, che si identifica in ciascuno di noi o, meglio, in questa determinata coscienza che qui e ora ha aperto gli occhi sul mondo (non tanto in un io “anagrafico”), insomma in questa determinata prospettiva su Se stesso. Non sono io che “divento” tutto, ma è il tutto a identificarsi, di volta in volta, con me, con te ecc.

Dire che tutto è (soltanto) soggettivo suggerisce erroneamente che tutto sia arbitrario e che sia sufficiente desiderare che le cose siano in un certo modo perché esse diventino tali. Invece tutto è (anche) oggettivo, nel senso che non potrebbe essere diverso da com’è, in quanto ciò che accade accade secondo regole irrefragabili.

La sfera soggettiva (o interna che comprende immagini, ricordi, emozioni e sulla base della quale si costruisce il “fantasma dell’io”), infatti, scaturisce come la sfera oggettiva (il mondo come insieme ordinato dei fenomeni che appaiono esterni) dal taglio originario dell’essere.

Vogliamo dire, con Hegel, che il Tutto (la Sostanza) è Soggetto perché “ha bisogno” di acquisire coscienza di sé, di soggettivizzarsi? Va bene, ma a condizione di precisare che questo Soggetto non siamo esattamente tu o io, ma è Dio stesso che “si incarna” poi negli innumerevoli “io” empirici.

Vale qui la critica di Schelling a Fichte e, ante litteram, a Hegel. Se l’Io assoluto è inconscio, non sa o non ricorda di avere prodotto l’universo visibile, perché ostinarsi a chiamarlo “Io”? Meglio chiamarlo semplicemente Assoluto (quello che qui chiamo Tutto, Universo, Ordine implicato), come indifferenza di soggettivo e oggettivo, riservando il termine “io” o “soggetto” a quella Sua peculiare espressione che scaturisce dalla coscienza che Esso qui e ora acquista di Se stesso e che Esso, per così dire, prolunga nella sfera della memoria, del pensiero ecc. fino a costruire una presunta identità anagrafica (oltre che genomica) distinta da quelle delle altre “persone”.

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di Giorgio Giacometti