Il tempo presuppone la coscienza

cristalli

  • Mi sembra di capire che secondo te il tempo presupponga la coscienza e non viceversa.

Per prima cosa bisogna intendersi sul concetto di  “tempo”.

Come ho argomentato, se per “tempo” intendiamo l’articolazione delle tre distensioni dell’anima, presente, passato e futuro, per dirla con Agostino, esso è tale soltanto per la coscienza, perché “presente” può essere soltanto qualcosa di cui si è coscienti qui e ora.

  • Tuttavia, potremmo intendere come “tempo” anche la misura della tendenza naturale delle cose verso il disordine, tendenza a cui corrisponde l’incremento progressivo dell’entropia. Secondo sir Arthur Eddington e altri, infatti, proprio questa tendenza irreversibile, propria dell’intero universo (in quanto esso tenderebbe verso la propria “morte termica”), contraddistinguerebbe la freccia del tempo. Ora, se intendiamo il tempo, “oggettivamente”, in questo modo, sembra che esso non abbia alcunché a che fare con la coscienza che se ne possa avere.

Ne sei sicuro? In verità non è affatto chiaro né scontato che questa tendenza sia così universale.

Lo stesso Boltzmann, che introdusse quest’idea, conferendo all’incremento dell’entropia un mero significato statistico, propendeva per la seguente ipotesi: poiché quest’incremento presuppone un “inizio” altamente improbabile, contraddistinto da bassa entropia, cioè da un grado elevato di ordine, si deve supporre che questa condizione eccezionale possa essersi verificata, a causa di una fluttuazione casuale, solo localmente; l’universo nel suo complesso, cioè, non sarebbe mediamente contraddistinto da un incremento progressivo di entropia, dunque neppure da una “freccia del tempo”.

Se seguiamo, poi, i suggerimenti di Rovelli e di altri, possiamo osservare anche che la misurazione dell’incremento dell’entropia implica l’azione di un vivente (l’uomo). Si potrebbe discutere se in assoluto vi sia qualche differenza tra ciò che a noi appare ordinato (con entropia bassa o nulla) e ciò che a noi appare disordinato (con entropia elevata). Sotto questo profilo possiamo leggere  l’interpretazione microfisica dell’incremento di entropia negli scambi termici studiata da Boltzmann come se Boltzmann avesse mostrato che

l'entropia esiste perché [noi!] descriviamo il mondo in maniera sfocata. [...] L'entropia è precisamente la quantità che conta quante sono le diverse configurazioni che la nostra visione sfocata non distingue.
[Rovelli, L'ordine del tempo, p. 34]

Rovelli fa il paragone con certe combinazioni nel gioco delle carte. A noi sembra che

se le prime 26 carte di un mazzo sono tutte rosse e le successive 26 tutte nere, diciamo che la configurazione delle carte è "particolare" [...]. A pensarci bene, qualunque configurazione è peculiare, qualunque configurazione è unica, se guardo tutti i dettagli [...]. La nozione secondo cui certe configurazioni siano più peculiari di altre [...]  ha senso solo se mi limito a guardare pochi aspetti delle carte [...]. La nozione di "peculiarità" nasce solo nel momento in cui vedo l'universo in maniera sfocata, approssimativa.
[Rovelli, L'ordine del tempo, p. 35]

Il che porta Rovelli a concludere:

La bassa entropia iniziale dell'universo, e quindi la freccia del tempo, potrebbe essere dovuta a noi, più che all'universo.
[Rovelli, L'ordine del tempo, p. 128]

Ecco, dunque, che anche questa seconda caratterizzazione della nozione di “tempo” sembra presupporre la coscienza.

  • D’accordo, Tuttavia, ciò che intendiamo come tempo potrebbe venire rappresentato come una quarta o, comunque, un’ennesima dimensione dello spaziotempo, come nella teoria della relatività di Einstein, ad esempio.

Certo, si tratta di ciò che Bergson chiamava, non a caso, tempo “spazializzato”, ridotto a spazio, un spazio astratto, matematico, in cui tutto è già perfettamente descritto, rappresentando l’immagine statica di una funzione matematica complessa a piacere.

Si tratta di ciò che Erwin Schroedinger considera nient’altro che un’idealizzazione del tempo.

I contributi più importanti dati dalla scienza per superare i preoccupanti problemi "Chi siamo noi in realtà? Da dove sono venuto e dove vado?" [...], l'aiuto più prezioso che la scienza abbia offerto in ciò è [...] la graduale idealizzazione del tempo. Tre nomi si impongono subito alla nostra mente, con tutto che anche molti altri, anche non scienziati, abbiano pensato a qualcosa di simile, come sant'Agostino e Boezio: i tre nomi sono Platone, Kant e Einstein.
[Erwin Schroedinger, L'immagine del mondo, p. 341-42]

Di fatto si tratta di una negazione del tempo in quanto entità distinta dallo spazio.

Nella prospettiva della relatività di Einstein….

per quelli di noi che credono nella fisica, la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un'ostinata, persistente illusione.
[Albert Einstein, p. 707]

 Sono cresciuti, del resto, gli indizi che militano a favore della soggettività del tempo, anche rispetto all’epoca di Kant.

Il tempo scorre a velocità diverse (così come lo spazio può dilatarsi o contrarsi) a seconda del moto relativo dell’osservatore rispetto all’oggetto di cui misuro le dimensioni spaziali e temporali.

Quella che Schroedinger chiama “idealizzazione del tempo”, di fatto la sua negazione, gioca, in particolare, un ruolo nella fisica dei quanti, dove il tempo sembra alcunché di più apparente che reale.

Nel celebre esperimento della doppia fenditura, ad esempio, nel quale una serie di fotoni vengono “sparati” contro una doppia fenditura, in modo tale che ciascun “fotone interagisce […] con se stesso essendo in due posti contemporaneamente”, creando, così, frange di interferenza, “è come se il fotone ‘sapesse’ [prima] i punti e i tempi esatti in cui esso si deve [dopo] sdoppiare per poter dare luogo alle frange di interferenza” [Massimo Teodorani, Entanglement, pp. 12-13] . Sembra, cioè, di assistere a una “retrocausazione” (ciò che deve ancora avvenire determina causalmente il passato). Tutto ciò è giustificato da David Bohm con l’ipotesi, che estende le teorie di De Broglie, che un’onda pilota guidi ciascun fotone grazie a un “potenziale quantico” che agisce in modo “non locale”, coprendo simultaneamente tutto lo spazio [cfr. ibidem]. Insomma, è come se “dietro” lo spaziotempo apparente si desse un “ordine implicato” ubiquo e senza tempo in cui tutto fosse già (pre)determinato ab aeterno.

Anche a prescindere da questa interpretazione, non da tutti condivisa, rimane che nelle equazioni fondamentali della fisica dei quanti si registra “l’assenza della quantità ‘tempo’” [cfr. Rovelli, L’ordine del tempo, p. 86]. Le variabili in gioco sono tali perché ciascuna esprime valori (quantità di moto, energia, posizione ecc.) legati gli uni agli altri funzionalmente, matematicamente (se una cresce, l’altra p.e. diminuisce con un certo ritmo ecc.), ma in tali “fluttuazioni” è del tutto assente una specifica variabile “tempo”. Inoltre si tratta sempre di processi in linea di principio reversibili, privi di una direzione privilegiata di evoluzione.

  • Eppure vi sono fior di esperimenti, a cominciare da quelli pioneristici di Libet, che associano fatti di coscienza (come la presa di decisioni) al tempo, dando per scontato che il tempo scorra in modo indipendente rispetto alla coscienza!

Ciò dipende dal fatto che in molti studi empirici sulla coscienza non si riflette adeguatamente sulla cornice epistemologica all’interno della quale soltanto essi assumono significato.

  • Che cosa intendi?

L’equivoco (consistente nel credere che l’emergere della coscienza presupponga lo scorrere del tempo e non viceversa) nasce dal fatto che, se tu, sperimentatore, studi p.e. i correlati neuronali del mio passare dal sonno alla veglia, ti sembrerà che succeda qualcosa in questo o quell’istante perché tu stesso sei dotato di coscienza.

Per essere fenomenologicamente rigorosi, tuttavia, la sola vera coscienza di cui hai esperienza non è la mia, organismo a cui attribuisci, per una pur giustificata analogia, il poter essere cosciente, ma la tua. E questa coscienza, la sola e vera unica coscienza in senso proprio (in quanto esperienza soggettiva), non puoi sperimentarla nei momenti in cui essa cessa, ammesso che questi “momenti” esistano (puoi avere defaillances di memoria, riguardo ad es. alla tua identità, ma non puoi per definizione essere cosciente di una mancanza di coscienza).

La coscienza, infatti, è il modo in cui il tutto si fa presente a se stessocomincia ad esistere ora. La presenza a se stesso dell’universo che denominiamo coscienza implica originariamente il tempo, inteso propriamente e originariamente nel suo primo significato, cioè come articolazione delle tre “estasi” o “distensioni” fondamentali: presente, passato e futuro.

Come scrive Kant, se il tempo è, da un lato, “in se stesso”, niente di più che un’ “idealità trascendentale” (come tale assimilabile allo spazio, a una quarta dimensione dello stesso), per noi esso costituisce una “realtà empirica” (come tale esperito in modo ben distinto dallo spazio).

Il tempo correlato alla coscienza (non vi è  coscienza senza tempo, né tempo senza coscienza) non è chrònos, il tempo idealizzato della fisica, ma è piuttosto kairòs, il “luogo geometrico” delle de-cisione tra mondi possibili, non reciprocamente compossibili. È l’atto di nascita, rinnovato in ogni istante, dell’ordine esplicato, come ordine che si regge sulla coerenza delle sue parti sincrone, senza, tuttavia, essere in alcun modo determinato, ma solo condizionato da ciò che, di volta in volta, precede l’istante del suo apparire.

N. B. Questo carattere del tempo come kairòs determina un fondamentale paradosso per quanto riguarda la comprensione della vita e della sua evoluzione.

L’evoluzione dei viventi presuppone il tempo, come kairòs, cioè come qualcosa di realmente distinto dallo spazio, come qualcosa all’interno del quale non tutto è già dato. Ma il tempo, a sua volta, come kairòs, come qualcosa di realmente distinto dallo spazio, è qualcosa solo nella percezione dei viventi medesimi (come dice Aristotele – e ripetono, con alcune variazioni, Agostino e Kant – “risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima” [Fisica, IV, 14, 233a21-26]).  Dunque l’evoluzione dei viventi sembra presupporre (contraddittoriamente o circolarmente?) quel (tipo di) tempo che, a sua volta, presuppone i viventi che “vi” dovrebbero sperimentare la propria evoluzione.

Se è vero che, come scrive Paul Davies,

nessun tentativo di spiegare il mondo, sia scientificamente, sia teologicamente, può essere considerato riuscito finché non riesce a spiegare la paradossale combinazione di temporale e di atemporale, di essere e divenire,
[Paul Davies, La mente di Dio, p. 34]

forse una strada per risolvere questo paradosso va ricercata proprio nel mistero del “vivente cosciente“, come “modo” del tutto, identico all’intero di cui è modo, immaginariamente separatone e desideroso di ricongiurgevisi, “agli occhi” del quale soltanto scorre il tempo.

 

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