… “della stessa sostanza del Padre”…

Sviluppiamo il tema della deificazione dell’uomo.

Nel “simbolo” niceno-costantinopolitano, sintesi di secoli di ispirate speculazioni teologiche, come è ben noto, il Figlio di Dio è detto

generato, non creato, della stessa sostanza del Padre

Ora, nel Vangelo di Giovanni (1,12-13), una delle principali fonti di questo articolo di fede, leggiamo che “a quanti l’hanno accolto” il Figlio di Dio (il Lògos)

ha dato potere di diventare [a loro volta] figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati

Dunque, generato da Dio non è solo l’Unigenito, ma anche tutti coloro che “si riconoscono”, per così dire, in Lui (“a quelli che credono nel suo nome”). In che senso questo potrebbe essere detto?

Altrove, sempre nel Vangelo di Giovanni (3,3), come è noto, Gesù, rivolgendosi a Nicodemo, dice:

«In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio».

Il dialogo prosegue in questo modo (3,4-8):

Gli disse Nicodèmo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».

Nasce spontanea un’ipotesi. Ma, se crediamo in Gesù Cristo, in quello che Egli ci dice, nella testimonianza della Chiesa (che ha accolto il Vangelo di Giovanni come canonico e proclamato il “credo” niceno-costantinopolitano), vi è almeno un senso della distinzione tra “creazione” e “generazione” (divine), per cui non solo Gesù di Nazareth, ma tutti noi (a condizione che “crediamo” o, forse, soltanto, che lo “riconosciamo”…) saremmo generati (da Dio, dallo Spirito), e non creati (come le cose “materiali”).

Saremmo, cioè, della “stessa sostanza” (o, meglio, “essenza”: “homousìoi“) di Dio. Saremmo Dio stesso.

Come è possibile?

Un suggerimento ci viene da Plotino. Saremmo Dio dimentichi di esserlo e “caduti” nel mondo “reale”, magari perché “ingannati” dallo “specchio” della “materia” (il mitico “specchio di Dioniso”) che ci “frantuma” nell’innumerevole molteplicità delle “apparenti” “creature” che sembriamo.

Le anime degli uomini [...] avendo visto le loro stesse immagini, per così dire, nello specchio di Dioniso, balzarono laggiù dalle regioni superiori; ma nemmeno esse sono tagliate fuori dal loro principio e dall'intelligenza. Esse non discesero insieme con l'intelligenza e tuttavia, mentre arrivarono a terra, la loro testa rimane fissa al di sopra del cielo [Enneadi, I, 1, 12, 1-5].

Questa duplice natura dell’uomo (una reale, spirituale, e un’apparente, materiale) sembra suggerita anche da un celebre passo di Paolo (1 Corinzi, 15, 47-50):

Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l'uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l'uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all'uomo terreno, così saremo simili all'uomo celeste. Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l'incorruttibilità.

Si legga anche quest’enigmatico passo del Genesi (6.1-4):

Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio [!] videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. Allora il Signore disse: «Il mio spirito non resterà sempre nell'uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni».
C'erano sulla terra i giganti a quei tempi - e anche dopo -, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell'antichità, uomini famosi.

E se le “figlie degli uomini” fossero, in immagine, i nostri corpi (“carne”), destinati a moltiplicarsi come in un gioco di specchi, mentre i “figli di Dio” fossero le nostre anime, scintille dell’unico Padre, destinate a vivificarli? Noi, frutto fecondo di quest’unione, parteciperemmo, come Cristo (e altri “eroi”, semi-dei), tanto della natura divina quanto di quella umana.

Segno di tale nostra duplice condizione (di esseri “divini”, che credono, tuttavia, di essere “creature” materiali, “figli”  e “figlie di uomini”) è, in ultima analisi, la dualità anima-corpo.

L’essere coscienti, in particolare, (l’intendere) suggerisce che non siamo creature, ma alcunché di divino, perché la coscienza non è che l’altra faccia dell’essere (immutabile) secondo la parola di Parmenide di Elea:

tò gar autò noêin estì te kài éinai 
[la stessa cosa è intendere ed essere]
[fr. 3, Diels-Kranz]

D’altra parte appariamo a noi stessi come corpi, non diversamente da come ci appaiono le “cose” dell’universo materiale, il “Creato”.

Il “creare” divino, dunque, non sarebbe altro che il dare forma ai fenomeni, quel poiêin (produrre, ma nel senso di rendere poiòn [quale], conferire qualità all’altrimenti informe “non essere” che chiamiamo “materia” – “nulla” quantistico che prende forma solo perché “vibra”, suggeriscono gli scienziati) che rende Dio il “poeta”, il drammaturgo (e taumaturgo) che mette in scena il “teatro” in cui recitiamo la nostra parte di “umani” (da humus, terra, come se fosse da lì che proveniamo).

Si tratta della “frantumazione” di Dio (dell’essere) nelle sue innumerevoli immagini, scene, il tiqqun di cui parla la qabbalah.

Il “generare” divino, invece, sarebbe l’altra faccia della “caduta” di Dio stesso nelle “vesti” degli innumerevoli viventi (umani e non umani) che popolano l’universo (o forse soprattutto – o anche soltanto – il pianeta Terra), il vero “popolo di Dio”, nel quale Dio può rispecchiarsi (e dal quale può sentirsi tradito, “non rappresentato”, come in molti episodi veterotestamentari) solo perché Dio è questo stesso popolo, in modi più o meno “evidenti” e consapevoli (cfr. i diversi passi veterotestamentari in cui Israele, figura del Cristo che verrà, è chiamato collettivamente “Figlio di Dio” ).

In  questa luce (“Luce da Luce”…) possiamo immaginare il Cristo come colui che in modo più sublime di altri si è ricordato di Chi era (Figlio tutt’uno col Padre) e l’ha testimoniato, invitando i suoi seguaci a partecipare della medesima esperienza.

Nella cd. preghiera sacerdotale ecco, ad esempio, che cosa dice Gesù dell’unità di Se stesso col Padre e dell’unità di tutti i credenti con Lui (e, dunque, per la proprietà transitiva, dell’unità dei credenti col Padre!), proclamazione che sembra sfiorare il “monismo” dell’advaita Vedanta .

Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità (Gv, 17, 20-23)

Gesù sa bene di essere nato dall’acqua (dal ventre di sua madre, Maria), in quanto singolo, distinto individuo, incarnato, frammento dell’intero, come tutti noi, ma scopre di essere, non meno, nato dallo Spirito (tutt’uno con l’intero). Ci invita a riscoprire in noi stessi questa (ri)nascita, questa generazione “dall’alto”. Ci invita alla riunificazione con la nostra origine (da cui non ci siamo allontanati che “virtualmente”, in immagine): lo zimzum di cui parla, di nuovo, la qabbalah.

Come scrive Plotino, rivolgendosi all’anima:

Tu eri già tutto, ma poiché qualche cosa ti si è aggiunta in più del tutto, tu sei diventato minore del tutto per questa aggiunta stessa. Tale aggiunta non aveva nulla di positivo (infatti che cosa si potrebbe aggiungere a ciò che è tutto?), era interamente negativa. Chi diventa qualcuno non è più il tutto, gli aggiunge una negazione. E ciò dura finché non si scarti tale negazione. Dunque, il tutto ti sarà presente [...] Non ha bisogno di venire per essere presente. Se non è presente, è perché tu ti sei allontanato da lui. Allontanarsi, non significa lasciarlo per andare altrove, poiché è lì; ma è voltargli le spalle quando è presente [Enneadi, VI, 5, 12, 15]

Un modo che abbiamo per “meditare” su questa nostra duplice natura (di totalità e di frammento) è… mangiare il Cristo.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo [Gv, 6. 51]

Con scandalo non solo “dei Giudei”, ma anche dei “suoi”, Gesù ci invita a mangiare del suo corpo, nutrendoci (come precisa la cosiddetta “istituzione eucaristica”, che si trova nei vangeli sinottici e in Paolo) di pane e vino. Che rapporto ha la “cena del Signore” con la nostra figliolanza divina?

Il pasto eucaristico sembrerebbe contraddire l’ipotesi, fin qui avanzata, di una nostra diretta discendenza divina e suggerire, piuttosto, che solo “per Cristo, con Cristo e in Cristo” (come recita la preghiera eucaristica, pronunciata durante la messa), nell’unità della sua duplice natura, divina e, soprattutto, umana (il “corpo di Cristo”), possiamo partecipare al divino. Insomma, Cristo sarebbe il mediatore di una “grazia” senza la quale non saremmo alcunché (miserabili, miserande creature). Ma è proprio così?

Il pane e il vino eucaristici, innanzitutto, “frutti della terra”, sono parte del “Creato”. Assumerli ci ricorda che il nostro corpo, che se ne nutre e li assimila, è esso stesso parte del Creato, immagine (frammento) di Dio, non meno di quello di Cristo. Ma se Cristo è Dio nonostante il suo corpo del tutto identico al nostro, allora anche noi possiamo (ricordarci di) esserlo. Partecipare simbolicamente del corpo di un Uomo-Dio è ricordarci che noi stessi, ciascuno di noi, è o può essere un Uomo-Dio (può rinascere dall’alto).

Ma perché ci ricorderemmo del nostro “essere Dio” mangiando proprio “pane e vino“? Perché sono il nostro cibo fondamentale, ciò che dà sostanza al nostro corpo, ossia al peculiare “specchio concavo” in cui Dio (in ultima analisi, la nostra stessa “coscienza”) prende forma in noi.

Secondo la parola di Anassagora di Clazomene, in generale,

tutto è in tutto

Dio è in ogni cosa e ogni cosa è in Dio (come ci ricorda la dottrina della complicatio, explicatio e implicatio di ogni cosa in Dio di Niccolò Cusano). Se così non fosse, fin dall’inizio, come potrebbe, alla fine dei tempi, Dio essere “tutto in tutti” (1 Corinzi, 15, 28)?

Nell’eucaristia, in un’altra prospettiva, il “corpo di Cristo” è la Chiesa, la comunità dei santi, dei viventi e dei “rinati” in Dio. Dunque, mangiandola, noi partecipiamo immediatamente (senza passare per il Creato), sia pure attraverso un simbolo, dell’unità divina smarrita, frantumata (nella coscienza dei singoli).

 

Per approfondire: Raimon Panikkar, La pienezza dell’uomo. Una cristofania, tr. it. Milano, Jaca Book 1999.

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