Un disegno intelligente? Piuttosto: un cosmo autocosciente



Barbara

  1. Se l’evoluzione delle specie è abbondantemente attestata dai reperti fossili, ma il meccanismo della selezione naturale non è in grado di (o, almeno, non basta a) spiegarla,
  2. se, inoltre, è legittimo un ricorso moderato e pudibondo a “cause finali“, nella spiegazione dei fenomeni naturali, con particolare riguardo a quelli biologici,
  3. se, infine, una spiegazione che fa appello a cause finali, come quella che invoca “campi morfogenetici“, può essere convincentemente adottata nella spiegazione della morfogenesi e, in ultima analisi, anche della rigenerazione e riproduzione dei singoli viventi,

una domanda sorge spontanea: “È ragionevole invocare cause finali, una sorta di ‘campo morfogenetico cosmico’ per spiegare non solo lo sviluppo (development) del singolo organismo, ma l’evoluzione (evolution) di tutte le specie viventi sulla Terra (ed eventualmente anche altrove) o, perfino, dell’intero universo?”.

E l’origine dell’uomo quale vivente capace di “coscienza” può essere spiegata sulla base di tale ipotesi?

  • La difficoltà implicita nell’invocare una “campo morfogenetico cosmico” mi sembra che riguardi la funzione di tale campo. Mentre nel caso del singolo vivente è possibile intuire la funzione di determinate sue parti (come i denti o i polmoni) in quanto tali da consentire al vivente medesimo (p.e. mediante la nutrizione o la respirazione) di conservarsi (cioè di conservare la propria forma, il proprio essere) ed eventualmente di riprodursi (conservando anche così la propria forma e la propria essenza in quanto specie), nel caso della “biosfera” o del “biota” terrestre quali funzioni dovremmo andare a cercare, tali da giustificare la sua evoluzione?

Credo che si possa suggerire che il fine dell’evoluzione (non solo del “biota” terrestre, ma dell’intero universo) è lo sviluppo della coscienza (di cui appare dotato – per quanto ci risulta – pienamente soltanto l’uomo, meglio: di cui appariamo dotati soltanto noi, che possiamo dircelo, senza tuttavia che la coscienza debba essere necessariamente legata alla specie umana in quanto specie biologica).

  • E perché mai la Natura avrebbe (avuto) di mira la coscienza? La coscienza potrebbe assolvere una funzione qualsiasi, utile per la sopravvivenza di chi ne è dotato, ma non necessariamente tale da giustificare l’intera evoluzione delle specie o, perfino, dell’universo (evoluzione che, in effetti, verosimilmente continua, anche se in modo inavvertito, del tutto indipendentemente dal manifestarsi nell’uomo della coscienza).

Come abbiamo osservato, la coscienza, a cui peraltro è difficile assegnare una funzione dal punto di vista evoluzionistico, è condizione di possibilità dell’esistenza stessa delle specie viventi e dell’intero universo.

La cosa interessante è che possiamo pervenire a questa conclusione, ossia che la coscienza è implicata necessariamente nell’esistenza stessa dell’universo, per un’altra via, senza cioè immediatamente invocare postulati idealistici (cioè ponendo semplicemente la coscienza di essere come condizione di possibilità dell’essere), né appellarci all’esperienza del tempo vissuto, ma, per così dire, “mediatamente”, riflettendo sui processi mediante i quali le cose vengono alla luce.

  • In che modo?

In generale, nel campo dei viventi, così come nel campo dei quanti, possiamo congetturare che nei processi a cui si assiste siano sempre coinvolte forme di retrocausazione. Il futuro determinerebbe il presente (o, se preferisci, il presente il passato), pur essendone a sua volta determinato. Globalmente si registrerebbe una  “causalità circolare“, proprio quella che contraddistinguerebbe tanto il vivente, quanto l’intero universo (in quanto cosmo), nella prospettiva aperta dalla Critica del Giudizio di Kant (e ripresa dalla cultura romantica  e idealistica tedesca dell’Ottocento).

  • Puoi fare qualche esempio?

Nel campo dei quanti, come è noto, l’osservazione di determinate particelle non solo determina quali ne siano le proprietà qui e ora, ma, cancellando proprietà, “incompossibili” con queste, “esistite” in precedenza virtualmente in stato di sovrapposizione quantistica, in un certo senso, “retrodetermina” le proprietà che le particelle dovevano avere prima di essere osservate.

Pensa all’esperimento della scelta ritardata concepito da John A. Wheeler: un fotone che “sa” di dover passare una “doppia fenditura” (nel tempo t2) si propaga (nel tempo t1) in modo diverso di come si propagherebbe se non dovesse affatto passare tale doppia fenditura.

Nel campo dei viventi l’esempio classico è quello dell’albero: l’albero (il tutto) è causa della vita delle foglie (le parti), le quali, a loro volta, favorendo la fotosintesi clorofilliana, sono causa della vita dell’albero. La fotosintesi è, dunque, insieme il meccanismo che ha per effetto (cieco) la vita dell’albero, ma anche qualcosa che possiamo individuare sulla base dell’ipotesi (del “giudizio riflettente”, in termini kantiani) che tale meccanismo assolva una funzione, dunque abbia un fine. Sotto il primo profilo la spiegazione invoca cause efficienti (eventi che precedono il processo da spiegare, p.e. l’irradiazione solare, le reazioni chimiche che si svolgono nelle foglie); sotto il secondo profilo la spiegazione invoca cause finali (eventi che seguono il processo, come la sopravvivenza dell’albero, che, a sua volta, rende possibile perpetuare la fotosintesi).

  • E la coscienza in che modo sarebbe coinvolta in processi di retrocausazione o di circolarità causale?

La coscienza farebbe esistere in un certo determinato modo l’intera Natura dalla quale, a sua volta, essa si sarebbe evoluta (proprio come un albero fa esistere le foglie da cui trae alimento o l’incontro di un fotone con una doppia fenditura determina la forma dell’onda elettromagnetica che gli è associata prima che l’incontro avvenga).

  • E in che modo la coscienza farebbe esistere la Natura?

Consideriamo il problema posto dal cosiddetto del principio antropico. L’universo appare “finemente sintonizzato” [fine tuned] all’emergere dell’uomo (e, dunque, della coscienza): un’infinitesimale variazione negli “ingredienti” del Big Bang avrebbe reso impossibile l’emergere dell’uomo e della stessa vita come la conosciamo.

Come è noto, si può cercare di spiegare questo mistero suggerendo che “esistano” infiniti (o un numero sufficientemente grande di) universi e che noi esistiamo solo in quello nel quale possiamo (del tutto casualmente) esistere ed essere coscienti.

Tuttavia, tale spiegazione, come ho ampiamente argomentato in altra pagina, viola clamorosamente il rasoio di Ockham, perché costringe a congetturare l’esistenza “in atto” di infiniti o, comunque, numerosissimi universi, dei quali non possiamo sapere in effetti alcunché e della cui effettiva esistenza non possiamo avere alcuna prova empirica.

L’altra soluzione è quella, appunto, che consiste nel postulare un “disegno intelligente” che, fin dal Big Bang, abbia avuto di mira l’emergere dell’uomo (e della coscienza).

Tuttavia, per lo più si immagina questo “disegno intelligente” come se fosse stato concepito da un Dio “totalmente Altro” dall’uomo e dal mondo, ma, curiosamente, interessato alla “creazione” dell’uomo “a sua immagine”. E se, piuttosto, questo “Dio” fossimo, in un certo senso, noi stessi?

In un celebre racconto, L’ultima domanda, lsaac Asimov immagina che un computer superpotente, costruito dalla mano dell’uomo, alla fine dei tempi (mentre l’universo precipita verso la sua morte termica, predetta dal secondo principio della termodinamica) riesca a rigenerare l’universo. L’esclamazione “E luce fu” con cui termina il racconto suggerisce che questo computer non sia altro che Dio, un Dio creato dall’uomo che, alla fine dei tempi, getta le basi perché, circolarmente, Egli stesso e l’uomo che l’ha costruito possano esistere.

La versione della soluzione “forte” del problema posto dal principio antropico che qui fa gioco è, infatti, la seguente: se ammettiamo la possibilità di una causalità circolare e, quindi, di forme di retrocausazione possiamo ammettere che l’intelligenza (il Lògos divino-umano) che ha determinato (che è stata causa di) questa e non un’altra “specie” di universo sia la stessa intelligenza umana che è stata parimenti effetto dell’evoluzione dell’universo stesso.

  • Come si può pensare una cosa simile?

Consideriamo il problema dell’inflazione cosmica. Come sai, nei suoi primissimi istanti di esistenza, durante la fase cosiddetta “inflattiva”, secondo le più recenti teorie, l’universo si è espanso a velocità superiore a quella della luce, generando una sorta di multiverso costituito da un numero enorme di universi in sovrapposizione quantistica.

Alcuni studiosi, come Paola Zizzi, suppongono che, proprio alla fine dell’era dell’inflazione, si sia registrata una “riduzione obiettiva” del pacchetto d’onde associato a questo multiverso, riduzione che avrebbe dato origine al “nostro” universo (così ben “sintonizzato” con la possibilità dell’origine della vita e dell’intelligenza). Le sovrapposizioni quantistiche (ossia il numero degli universi in sovrapposizione quantistica) nel multiverso prima della riduzione, secondo Zizzi, ammontavano a 109 registri quantistici, ordine di grandezza paragonabile a quello relativo al numero di tubuline che si trovano, analogamente, in sovrapposizione quantistica nel nostro cervello, numero necessario e sufficiente a permettere, attraverso la riduzione del pacchetto d’onde associato alle tubuline, un “momento di coscienza”, secondo il modello di Penrose-Hameroff.

  • E questo che cosa comporta?

Questo suggerisce che alla riduzione del pacchetto d’onde del multiverso originario, ossia al sorgere del “nostro” universo, così ben sintonizzato con noi, non sia estraneo un “momento di coscienza”.

  • Sarà, ma “chi” potrebbe essere stato cosciente dell’universo alla fine dell’era dell’inflazione, così da “retrocausarne” l’esistenza? Dio?

Questa è una possibilità che possiamo senz’altro associare all’idea più “tradizionale” di un “disegno intelligente” concepito da un Dio “totalmente altro”.

Tuttavia, se seguiamo la concezione di un “universo partecipativo“, avanzata dal fisico John A. Wheeler, possiamo tranquillamente post-datare il “collasso della funzione d’onda” del multiverso originario al sorgere della coscienza (umana o anche, se ve n’è una, non umana).

Del resto, chi nega che la coscienza abbia qualche ruolo nell’origine dell’universo, talora, però, distingue una fase in cui l’universo, come “zuppa di gluoni” e altre particelle fitte fitte, sarebbe ancora opaco da una fase in cui sarebbe divenuto “trasparente” e “luminoso”. Ottimo! Ma “luminoso” per chi o, anche soltanto: in che senso? È noto che la luce assume la forma di onda o di insieme di particelle a seconda del modo in cui la si osserva. Ma se non la si osserva? Non assume alcuna forma! Dunque non ha alcun senso parlare di universo trasparente e luminoso in assenza di osservatori!

Come scrive p.e. Amit Goswami:

Così avviene con l'universo: lo manifestiamo retroattivamente. Non c'è un universo manifesto. Solo baby universi di possibilità, finché [noi] non lo facciamo collassare [p. 122].
  • Ma quando sarebbe avvenuto questo collasso? E chi precisamente ne sarebbe responsabile? L’uomo di Neanderthal, l’Homo Sapiens?

In prima istanza è sufficiente che l’universo si “ridetermini” per ciascuno di noi, in prospettiva, in ogni istante o anzi, come p.e. Amit Goswami suggerisce a più riprese nel suo libro, per ciascun vivente, nella misura in cui può essergli attribuita qualche forma, anche embrionale, di coscienza.

  •  Ma questa ipotesi non ripropone una versione “universalizzata” del paradosso dell’amico di Wigner? Se per te che l’osservi una certa particella acquista una determinata proprietà (o il celebre gatto di Schroedinger appare morto invece che vivo o, appunto, l’intero universo appare in un certo modo piuttosto che in un altro), per me, tuo amico, qualora non fossi in contatto con te, “tutto” potrebbe essere ancora in “sovrapposizione contraddittoria di stati” o, se io ne “prendessi coscienza” dal mio punto di osservazione, separato dal tuo, “tutto” potrebbe apparire (“essere determinato” dall’osservazione stessa) in modo significativamente diverso da come appare a te. Non sarebbe, dunque,bgarantita la coerenza dell’universo, della quale pure facciamo esperienza. Questo presupporrebbe che per me e per te, ad esempio, potrebbero non “esistere” le stesse stelle! Mi sembra inaccettabile.

In teoria sarebbe perfettamente possibile: mentre vedi certe stelle, vedi anche un “me” che condivide questa tua visione. Nel “determinare” l’esistenza di quelle stelle, determini anche come “mi ti manifesto”. Ciò, sempre in teoria, non implica che “io” sia “davvero” in accordo con te circa l’esistenza di quelle stelle…

  • Ma così avremmo una continua moltiplicazione di universi, nei quali ciascuno di noi sarebbe diverso agli occhi di ciascuno degli altri!

Infatti… Per quanto ciò, come accennato, sia del tutto compatibile con l’interpretazione “a molti mondi” della meccanica quantistica, la trovo un’interpretazione, non assurda (se le cose stessero così, non potremmo mai confutarla), ma effettivamente inverosimile. Essa violerebbe clamorosamente il “rasoio di Ockham”, che vieta di moltiplicare le cose senza necessità.

  • Forse quanto più interagiamo, tanto più tendiamo ad armonizzare la nostra visione dell’universo. Continuiamo a percepirlo in prospettive irriducibilmente diverse  e non possiamo escludere che queste divergenze di prospettiva comprendano anche infinitesimali differenze nelle proprietà degli oggetti che percepiamo. Tuttavia, queste differenze potrebbero tendere asintoticamente ad annullarsi in brevissimo tempo per effetto della “decoerenza quantistica” che riguarda, in generale, gli oggetti macroscopici e, quindi, a maggior ragione l’intero universo.

Questa soluzione è del tutto insoddisfacente. La teoria della decoerenza quantistica non ha mai dimostrato quello che di fatto è un assunto, lasciando inevaso il problema della “soglia” sopra la quale alla fisica quantistica subentrerebbe la fisica classica (a differenza di altre teorie, più consistenti, come quella già evocata “a molti mondi” o quella di Wigner, che, sia pure in modo puramente speculativo, sono in grado di risolvere il problema della soglia, di fatto dissolvendolo).

In particolare, non è chiaro come si potrebbero evitare divergenza macroscopiche (p.e. quella tra un mondo, internamente coerente, in cui mia moglie avesse scelto di lasciarmi e un mondo, altrettanto coerente, in cui, viceversa, mia moglie non mi avesse lasciato)?

Si dovrebbe indimostrabilmente supporre che, nel breve, medio o, magari perfino, lungo termine, per la potente, anche se inappariscente, attrazione determinata da irresistibili “cause finali” (o “attrattori”), come quelle che spesso evoco, i mondi divergenti finirebbero per coincidere di nuovo (si può ad es. supporre che nel mondo in cui mia moglie non mi avesse lasciato, essa “accumulerebbe”, proprio a causa del mancato coraggio per una scelta non compiuta,  tale e tanta aggressività nei miei confronti che, “prima o poi”, finirebbe per separarsi da me e per dare luogo a situazioni sempre più simili a quelle determinatesi nel “mondo” in cui essa mi avesse, viceversa, lasciato). Ma tale ipotesi, appunto indimostrata, contraddirebbe un postulato che sempre più mi pare irrinunciabile…

  • Quale?

Lo chiamerei il postulato dell’univocità del passato. Dato lo stato del mondo (in effetti di ciò che si trova all’interno di un orizzonte degli eventi, cioè di questa determinata “mia” prospettiva) in un certo “presente”, esso non può che derivare logicamente (o, il che è lo stesso, proiettare all’indietro come “passato virtuale”) da un solo e unico coerente insieme di stati del mondo passati.

Questo spiega perché ogni stato del mondo è così complesso. Mentre se ho un quadrato posso immaginare che esso sia stato costruito in molti modi diversi, se ho gli Stati Uniti d’America non posso comprenderne ogni dettaglio se non attribuendo lo esattamente questa e nessun’altra  storia.

  • E perché dovremmo assumere questo postulato?

Appunto per evitare un’infinita moltiplicazione di mondi, in questo caso trascorsi, dando insieme senso alla complessità del nostro, nel quale, in ogni presente, si registra un “sapiente” bilancio di ordine e disordine o, se vuoi, di informatività ed “entropia” (si può anzi arguire che la somma algebrica dei valori delle due grandezze sia sempre la stessa, cioè che vi sia sempre lo stesso equilibrio tra ciò di cui si è consci e lo sfondo confuso da cui ciò che appare qui e ora si staglia). Ma tali questioni esigono senz’altro approfondimenti…

In generale, come tu hai sottolineato, appare inverosimile che i mondi siano  divergenti nelle diverse prospettive, presenti e passate, macroscopiche e microscopiche. Se così fosse, i viventi (a maggior ragione i viventi coscienti, come me e mia moglie) non interagirebbero tra loro veramente, ma ciascuno avrebbe sempre solo a che fare con il fantasma dell’altro, all’interno del proprio mondo virtuale (“senza porte né finestre” come la celebre monade di Leibniz).

  • E come se ne esce?

Dobbiamo postulare che mondi diversi agli “occhi” di osservatori diversi (cioè per diverse incarnazioni della medesima coscienza cosmica) coincidano (una vera e propria riformulazione “quantistica” della teoria leibniziana dell’harmonia praestabilita). Tale postulato deve essere adottato almeno come postulato pratico, cioè per difendere la credenza nell’esistenza degli altri, così come ci appaiono, e la reciproca libertà.

N. B. Altrove argomento come questa riformulazione della teoria dell’harmonia praestabilita, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, sia compatibile anche con l’ipotesi che ciascun vivente, coinvolto nell’interazione con altri viventi, conservi interamente il proprio margine di libertà: anche se, per così dire, l’Uno-tutto deve necessariamente vivere più volte (almeno in apparenza) la medesima situazione nel medesimo modo (una volta come soggetto cosciente di quanto fa, le altre volte come oggetto del cui agire altri sono, di volta in volta, coscienti) si può argomentare come, effettivamente, esso sia “ogni volta” libero di fare quello che fa (nel senso preciso che avrebbe sempre potuto agire diversamente).

Questa ipotesi appare suffragata se si adotta una prospettiva informazionale:  se, da un lato, il “mondo esterno” emergerebbe per ciascun “osservatore” sulla base di determinate probabilità algoritmiche, dall’altro lato, per differenti osservatori “interagenti”, emergerebbe  un “mondo comune”.

Come spiega Markus P. Müller nell’articolo  Could the physical world be emergent instead of fundamental , se si adottano le opportune assunzioni,

different observers will, after seeing each other for long enough, have compatible “chances of events” and in this sense become part of a common world [ivi, p. 10]

In ultima analisi possiamo postulare con Amit Goswami che si dia un’unica “coscienza cosmica non locale”, ramificata in innumerevoli occorrenze, che renderebbe conto del modo in cui diversi osservatori, magari sparsi tra lontane galassie e viventi in tempi assai differenti, secondo il modello di Wheeler, “partecip[erebbero per rendere l’universo coerente e ordinato” [p. 118].

In termini quantistici vi sarebbe, dunque, un unico collasso della funzione d’onda, anche se per ciascun osservatore risulta che sia la sua propria misurazione di un sistema quantistico a determinare il collasso, con la conseguente riduzione a uno solo di più stati fisici sovrapposti.

Questa, peraltro, sarebbe la spiegazione del misterioso fatto dell’entanglement: Alice e Bob, osservando a distanza particelle originariamente unite, misurerebbero proprietà correlate, estraendole con quel loro atto da una nuvola di proprietà possibili, non per un “intreccio” superluminale tra le particelle stesse, ma, come suggerisce la teoria del cosiddetto “superdeterminismo”, per un legame “storico” tra gli stessi Alice e Bob o, più semplicemente, perché i due atti di osservazione sono occorrenze dell’unica e medesima coscienza cosmica.

  • E sia. Ma che cosa comporta concretamente l’ipotesi che l’universo sia determinato dall’emergere dall’universo stesso della coscienza, per “retrocausazione”?

In termini molto concreti: è perché puntiamo i nostri telescopi nella spazio profondo per “osservare” i “segni” del Big Bang che “determiniamo” a posteriori l’esistenza stessa del Big Bang, piuttosto che di altre possibili (potenziali) “origini” dell’universo. Come nel caso delle particelle subatomiche: osservandole, ne facciamo “collassare la funzione d’onda” e determiniamo le loro proprietà (in un modo compatibile col fatto che le osserviamo); così, “osservando” il Big Bang, determiniamo la sola forma di universo compatibile con la nostra stessa esistenza di osservatori.

Universo_partecipativoSecondo il fisico John Wheeler la paradossale circolarità del rapporto tra l’universo e il soggetto che lo percepisce (termini cooriginari, senza di cui non vi sarebbe alcunché) può essere intesa, in ultima analisi, come segue:

coscienza_universoLa fisica dà origine alla partecipazione dell'osservatore; la partecipazione dell'osservatore dà origine all'informazione; l'informazione dà origine alla fisica.[da Patrick Hughes, George Brecht, Vicious Circles and Infinity: an Anthology of Paradoxes, Doubleday, New York 1975, p. 8, cit. in Davies 93, p. 278]
  • Anche in questa tua ipotesi, tuttavia, “esisterebbero” infiniti universi possibili, quelli, non osservati e, dunque, non determinati retrocausalmente, la cui esistenza sarebbe incompatibile con la nostra… Tale possibilità non è interdetta dal già evocato rasoio di Ockham, per il quale “non bisogna moltiplicare gli enti senza necessità”?

Non direi. La “necessità” di moltiplicare questi universi è incomprimibile. Si tratta, in ultima analisi, a differenza che nell’ipotesi “meccancistica” degli infiniti universi casualmente passati all’atto, di universi soltanto possibili, come sono possibili (virtuali) le proprietà contraddittorie (sovrapposte) delle particelle subatomiche non (ancora) osservate o, addirittura, come sono concepite addirittura “intere” particelle puramente virtuali (possibili) per rendere conto matematicamente di certi risultati.

Si tratta, in un certo senso, di far risuonare la prospettiva  (neo)platonica, secondo il quale “il principio [intrinsecamente antinomico, inconoscibile] di tutte le cose è tale sia delle cose che sono sia delle cose che non sono” (Proclo, Teologia platonica, II, 5, 30, 1), con la prospettiva, apparentemente opposta, di Protagora, secondo la quale la “misura [nel senso quasi di “misurazione” quantistica!} di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono” sarebbe “l’uomo”(cfr, Platone, Teeteto, 152a). In tale “risonanza” di prospettive “le cose che non sono” corrisponderebbero agli universi pensabili, possibili, ma attualmente irreali, mentre l'”uomo” non sarebbe altro che il modo in cui il principio  stesso prende coscienza di se stesso nell’atto di vedere  e, così, far essere  (rendere attualmente reale) questo universo piuttosto che quello.

In altre parole, non c’è violazione del “rasoio di Ockham” ad ammettere che il nostro mondo è semplicemente “contingente“, ossia non è strettamente necessario in quanto sarebbero stati possibili numerosi o, perfino, infiniti altri mondi (altri modi di essere “mondo”). Altra cosa è richiedere che “esistano”, attualmente, allo stesso titolo del nostro, infiniti universi inosservabili per venire a capo dell’eccezionalità (dell’estrema improbabilità) del nostro.

  • Mi sembra una differenza di “lana caprina”. In ultima analisi “altri” universi sarebbero comunque presupposti. Dire che sono “inosservabili”, anche se “attuali”, sembra molto simile a dire che sono soltanto “possibili”. In definitiva essi non sono “concreti” come il nostro!

La differenza tra “inosservabile” e “meramente possibile” può senz’altro sfumare… ma a una sola condizione: che ammettiamo che “essere” (essere “realmente”, “attualmente”) significhi “essere percepito” (“osservato”) da qualcuno, ossia implichi, appunto, la coscienza, c.v.d.

Per una messa in discussione (secondo me non del tutto persuasiva, ma interessante) del punto di vista qui fatto valore cfr. Nick Bostrom, Anthropic bias, che sottopongo a mia volta a critica serrata in questo articolo.

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di Giorgio Giacometti