La teoria del “superuomo”

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Per comprendere il senso che Nietzsche attribuisce alla figura del “super-uomo” (Uebermensch) bisogna precisare alcune cose…

Secondo Nietzsche gli eventi, in generale, possono venire intesi come necessari effetti di cause necessarie che, nel caso degli animali, uomo compreso, si riconducono essenzialmente appunto all’istinto o, come Nietzsche anche si esprime, alla volontà di potenza. L’ipotesi è che ciascuno agisca per incrementare la propria potenza, anche a rischio della vita, che, differendo dalla potenza, ne è tuttavia la condizione.

Questa “volontà di potenza” è l’erede diretta della “Volontà (di vita)” di Schopenhauer, ma, per così dire, “cambiata di segno”. Mentre Schopenhauer, considerato da Nietzsche un nichilista ancora passivo, nostalgico degli antichi valori, esprime disperazione perché la vita manca di senso e cerca per così dire “exit strategies” che possano portare all’estinzione in noi di quella Volontà di cui saremmo lo zimbello, Nietzsche, esprimendo un nichilismo attivo e giocoso, trova che la mancanza di senso non sia tanto un problema, quanto una risorsa: abbandonandosi dionisiacamente alla volontà di potenza il super-uomo (controfigura del fanciullo innocente e al di là del bene e del male) può “dire sì” alla vita, assaporandola fino in fondo, purché sia pronto a sopportare con tutte le sue gioie anche tutti i dolori che essa comporta.

Nietzsche, erede, dunque, della concezione di Schopenhauer della “volontà” universale (che si nasconderebbe sotto la superficie dei fenomeni), influenzato anche dalle nuove dottrine evoluzionistiche a sfondo materialistico, allude a una volontà di vita o, come tende sempre più a esprimersi, a una “volontà di potenza“, intesa come tendenza all’autoaffermazione come individui e come specie, una tendenza, dunque, fondamentalmente egoistica. Si noti che quest’interpretazione dell’istinto rende ragione anche del suo mascheramento, ossia delle ragioni per cui l’istinto si nasconde a se stesso: tendendo in primo luogo alla propria autoconservazione, l’individuo finge con gli altri e con se stesso (cadendo in caratteristiche forme di autoinganno) di essere quello che non è e di volere quello che non vuole per apparire quello che non è e venire socialmente accettato (dunque continuare a vivere). Come un attore riesce più convincente agli spettatori se è “nella parte” e, in qualche modo, si convince del senso di quello che recita (fa sua l’intenzione del personaggio, come si dice), così anche l’attore o agente morale, cioè la persona (“persona” in latino significa “maschera”), crede proprio a quei valori a cui è socialmente conveniente che egli creda; al prezzo di mentire a se stesso.

Originariamente saremmo mossi da due istinti fondamentali, individuati dal giovane Nietzsche nell’opera l’Origine della tragedia (dallo spirito della musica), del 1872: l’istinto dionisiaco (dal nome del dio dell’ebbrezza, Dioniso, fautore del caos) e l’istinto apollineo (dal nome del dio dell’arte, Apollo, fautore dell’ordine, dell’armonia e della bellezza, nonché della nostra “individuazione”; dio il cui oracolo ispira a Socrate l’attività di educazione dei suoi concittadini), mirabilmente fusi in perfetta sintesi, secondo Nietzsche, nella tragedia e, più in generale, nell’arte greca classica (la cui celebre tendenza alla misura sarebbe solo la “copertura” del magma ribollente di un’istintualità trattenuta). L’istinto dionisiaco sarebbe, in realtà contraddistinto da una molteplicità di tendenze divergenti e contraddittorie (anche autodistruttive: Dioniso fu sbranato, secondo il mito, evocato dai misteri che da lui presero il nome dalle baccanti, le sue seguaci furiose) solo superficialmente “coordinate” dall’istinto apollineo (dalla “razionalità”) che ci induce a rappresentarci “coerenza” là dove vige solo il “caos” (cfr. l’analoga concezione di Schopenhauer del mondo come “rappresentazione”, ossia come interpretazione razionalizzante delle tendenze cieche e contraddittorie della “volontà”).

Si può considerare l’istinto apollineo come orientato a frapporre tra l’istinto dionisiaco e il vivente lo “schermo” della rappresentazione: invece di vivere il dionisiaco, con esiti autodistruttivi, ce lo si rappresenta, attraverso l’arte, come se, al modo di Ulisse, ci si legasse al palo dell’imbarcazione per godere della seduzione mortale delle sirene  senza farsene irretire.  Sotto questo profilo l’apollineo ha ben poco a che fare con il mascheramento morale, tipico dei cristiani, della verità del dionisiaco (frainteso come “demoniaco”): chi “pratica” l’apollineo si concede a una “pausa” dal dionisiaco, contemplandolo, ma senza presumere di sottrarvisi indefinitamente e, soprattutto, ammirandolo (senza, dunque, condannarlo moralmente); viceversa, lo sguardo “morale”, che Nietzsche giudica effetto di una perversione dell’istinto, di una vera e propria malattia dello spirito, comporta la repressione dell’istinto, di cui si misconosce la naturalità, la spontaneità, e uno scambio tra il mondo reale (quello dell’istinto, appunto) e il mondo immaginario (di pace e di amore) che si vorrebbe abitare: il primo, il solo autentico, viene considerato effimero e transeunte, mentre il secondo, illusorio, viene considerato la meta a cui dobbiamo tendere.

In generale, secondo Nietzsche, la vita umana, tanto dell’individuo quanto della specie, non ha alcun significato a priori, ma è mossa solo da un’evoluzione cieca e senza scopo. Solo a posteriori noi conferiamo senso, ordine e unità (individualità) a ciò che non lo ha (tendenza apollinea) perché non riusciremmo altrimenti a sopportare il caos in noi e fuori di noi e a conservarci.

Secondo Nietzsche la vera e propria coscienza morale sorge, tuttavia, dopo la fine dell’età tragica (in cui dionisiaco e apollineo sussistevano in equilibrio e lo stesso apollineo assolveva una funzione di consapevole illusione, ossia di consolazione meramente estetica, non etica, cfr. la funzione consolatoria dell’arte in Schopenhauer). Tale coscienza morale sorge prima con Socrate e Platone, poi col cristianesimo, nel momento in cui si equivoca sulla nostra natura dionisiaca (quella che lo psicologo del profondo Jung chiamerà l'”ombra”), la si fraintende come “diabolica”, la si condanna o, addirittura, la si nega:

  1. nel platonismo si fisserà la caratteristica gerarchia dei valori in base alla quale ciò che ci detta la ragione è sovraordinato a ciò a cui tende l’istinto, in modo tale che la razionalità debba governare la passioni tanto negli individui quanto negli Stati (Platone, tuttavia, riconosce la potenza e la naturalità dell’istinto, cioè di quella che chiama “anima concupiscibile”; soltanto: la subordina all’anima razionale, che dovrebbe imbrigliarla, secondo la metafora della biga guidata dai due cavalli furiosi del Fedro);
  2. col cristianesimo la dottrina del libero arbitrio farà sorgere il caratteristico senso di colpa che segue all’azione puramente istintuale, reinterpretata come peccaminosa e malvagia, contro natura.

Secondo Nietzsche si tratta di una vera e propria perversione della natura e inversione dei valori: ciò che noi intendiamo come malvagio, diabolico e corrotto è in effetti, originariamente naturale, spontaneo, innocente, mentre la morale che pretende di essere naturale non è che frutto di una “malattia” (indebolimento di un istinto originariamente sano), come dimostra il fatto che la morale è costretta a mentire sulla propria origine (pur celebrando la verità come valore).

Per quanto riguarda la mistificazione legata all’idea del libero arbitrio possiamo fare l’esempio di ciò che accade frequentemente nelle coppie. Lui (poniamo, ma potrebbe anche essere lei) chiede a lei (ma potrebbe anche essere lui) di “cambiare” perché così come è, lei fa e dice cose che a lui non piacciono. Lei, tipicamente, dichiara che “cambierà” (come se fosse libera di farlo, solo decidendolo o volendolo superficialmente), che non cadrà più negli stessi errori, che farà “la brava”. Puntualmente, invece, lei finisce per fare le stesse cose di prima, non cambia affatto. Come mai? Nella ricostruzione di Nietzsche evidentemente lei ha un determinata natura, che non può cambiare solo perché sarebbe “ragionevole” che cambiasse. Perché allora, lei “promette” che cambierà? Perché, mentendo anche se stessa, sarebbe disposta a dire qualsiasi cosa pur di conservare il rapporto, di cui evidentemente ha (istintivamente) bisogno (per causa legate alla “chimica” o agli “ormoni” molto più, probabilmente, che per le ragioni “spirituali” che invoca). Per un certo tempo potrà anche recitare nella parte più conveniente, mentendo agli altri e a se stessa

Di nuovo occorre rimarcare che l’origine (la genealogia) della morale non è a sua volta, morale: ossia le ragioni per cui noi siamo morali non sono a loro volta morali, ma mirano a soddisfare il nostro istinto di autoconservazione. Tale paradosso può reggersi solo a partire da un radicale autoinganno (durato più di due millenni, almeno in Occidente), ossia dalla dimenticanza delle originarie motivazione a-morali della morale (la quale, per reggersi e non auto-negarsi, deve venire rappresentata come determinata dalla ragione o da Dio, non certo dall’istinto).

N.B. Nietzsche, per sbugiardare la morale (e la ragione), fa spesso leva su uno dei “valori” che la morale stessa (come la ragione), dal tempo dei primi filosofi greci, più propaganda: il valore della verità (e della, connessa, conoscenza). Proprio quella verità, a cui la morale ci obbliga (per esempio nei rapporti con gli altri, attraverso il comandamento: “non mentire”), finisce per smascherare la falsità dei fondamenti della morale medesima.

Quale l’origine della perversione “cristiana” dei valori (quella che Nietzsche chiama decadenza, culminata nella sua epoca, successivamente chiamata infatti “decadentismo”), che si prolunga negli ideali laici, illuministici, democratici e socialistici dell’eguaglianza e della pari dignità tra tutti gli esseri umani? (Notare che Nietzsche, come Marx, considera la religione fondamentalmente un’ideologia, ma la spiega appellandosi ai bisogni nascosti della classe dominata piuttosto che di quella dominante). Davanti alla “verità” delle diseguaglianze naturali tra gli uomini (confermata dal darwinismo sociale), secondo Nietzsche la “menzogna” dell’eguaglianza sarebbe stata introdotta dal “gregge”, cioè dagli “schiavi”, per irretire e vincolare i “padroni” o “signori” a leggi che ne temperassero la naturale irruenza (cfr. etica cavalleresca medioevale).

Dio stesso è stato “creato” dall’uomo (come avevano sostenuto Marx e prima di lui soprattutto Ludwig Feuerbach) per consolarsi del dolore del mondo (imputato alla nostra malvagità, per conferirgli, così, un senso), come fondamento di tutti i valori tra i quali quello delle ricerca della verità. Paradossalmente questa stessa ricerca della verità ci fa scoprire che Dio non esiste (in questo senso “è morto”, muore a se stesso, come idea) e ce lo fa sostituire con altri idoli (progresso, libertà, eguaglianza) che, tuttavia, si rivelano altrettanto infondati (oltre che assai più deboli come giustificazioni dell’ordine e del senso del mondo, poiché originariamente fondati proprio sulla “parola” di Dio).

In generale Nietzsche concorda, paradossalmente, con Gesù circa la diffusa “ipocrisia” di coloro che simulano di agire con “giustizia” (come i farisei del Vangelo), mentre cercano solo di esaudire la propria “volontà di potenza” (cioè il desiderio di affermare se stessi, di apparire migliori degli altri ecc.). Tuttavia, il suggerimento è opposto: se dal punto di vista cristiano non si dovrebbe fingere di seguire la giustizia, ma farlo sinceramente, di cuore, secondo Nietzsche ciò sarebbe del tutto impossibile (del resto anche anche dal punto di vista cristiano ciò è reso impossibile, in mancanza della grazia di Dio, dal “peccato originale”, la corruzione della natura umana). Si tratta, dunque, di adottare la prospettiva opposta: dal momento che siano naturalmente, istintivamente, “innocentemente” egoisti, dobbiamo solo prenderne coscienza, smascherando l’ipocrisia della moralità, in generale: quanto più facciamo nostre, interiorizzandole, le leggi morali, tanto più ci “ammaliamo”, ci allontaniamo da noi stessi, tradiamo la nostra natura dionisiaca.

Nietzsche, come Machiavelli e diversi antichi sofisti, ammira, dunque, coloro che agiscono schiettamente, per i propri interessi, senza infingimenti, come i principi (tiranni) delle signorie italiane del Rinascimento o gli esponenti di Atene nell’epoca della guerra del Peloponneso contro gli abitanti di Melo (Tucidide): ai Melii, che chiedevano di poter restare neutrali nel conflitto con Sparta per fedeltà agli dèi e ai patti giurati, gli Ateniesi replicano prefigurando la loro distruzione per ragioni di utilità (lo esigeva la necessità di conservare il proprio prestigio politico), pur riconoscendo che si sarebbe trattato di un’azione ingiusta.

Osserviamo, a questo punto, che, sebbene Nietzsche consideri se stesso un nichilista (perché nega il valore dei valori), egli ritiene che i “veri” nichilisti siano proprio coloro che fingono di credere nei valori con tanta maggior enfasi quanto più dubitano oscuramente di essi (come i platonici e i cristiani). Registriamo, cioè, diverse forme di nichilismo, come mancanza di fiducia in tutti i valori, consapevolezza più o meno oscura del loro essere uguali al nulla:

  1. nichilismo è quello originario di chi, come il platonico o il cristiano, dimentica la verità del dolore, perché fonda l’edificio di tutti i valori sul niente delle proprie illusioni (che gli ritorna nella forma dell’angoscia e della paura);
  2. nichilismo è anche quello di chi distruggendo il fondamento divino della morale non può fare a meno di trovargli un sostituto, il cui valore è altrettanto nullo di quel Dio che egli ha “ucciso”;
  3. nichilismo (passivo) è quello di chi non potendo più credere a nulla, dopo la “morte di Dio”, si dispera (cfr. Schopenhauer, Leopardi) perché ancora dipendente da quei valori in cui non crede più o che egli stesso ha distrutto;
  4. nichilismo (attivo) è infine il portato della stessa dottrina di Nietzsche.

In tale ultima forma di nichilismo (o anche oltre ad esso) si annuncia l’oltre-uomo (o super-uomo, come anche si può tradurre il termine tedesco Übermensch). Non avendo più bisogno di coerenza, maschera della paura, chi annuncia l’oltre-uomo, come Nietzsche-Zarathustra, adotta una scrittura frammentaria, aforistica, allusiva, asistematica. Come il greco dell’età tragica, l’oltre-uomo guarda in faccia la verità, nella sua contraddittorietà (dionisiaca) ma anche nella sua necessità, e “dice sì alla vita”. Figura dell’oltre-uomo è il fanciullo che “crea nuove tavole di valori”, ma nel senso preciso in cui la tragedia “creava” l’illusione apollinea: un mondo artistico sempre soggetto a trasformazione e dissoluzione. Metafora di questo mondo di valori prodotto dalla fantasia del fanciullo potrebbe essere il gioco: tutto ciò che veniva preso sul serio può ritornare, ma come un gioco a cui non si dà maggiore importanza di quella di una consapevole illusione. L’oltre-uomo è essenzialmente colui che accoglie il divenire nella sua innocenza e riconosce la necessità dei propri istinti e desideri, pur nella loro contraddittorietà. L’intero mondo interiore dell’uomo, generato dall’evoluzione morale, diviene nelle mani dell’oltre-uomo il duttile strumento intellettuale per l’affermazione della sua potenza.

Nietzsche parla di innocenza del divenire nel senso di riconoscimento del dominio assoluto del fato e della necessità dei fenomeni, la cui interpretazione morale, quindi, è del tutto illusoria, come ogni possibile imputazione di responsabilità. L’oltre-uomo è quindi tecnicamente irresponsabile, inaffidabile e inattendibile.

L’oltre-uomo, in questa prospettiva, rappresenta il ritorno del dionisiaco, di chi non si lascia sgomentare dalla natura tragica, cioè contraddittoria, della vita, ma la prende “con filosofia”, con la filosofia di un fanciullo, che gode altrettanto nel creare e nel distruggere.

L’oltre-uomo, dunque, è trasparente sui propri istinti, sa chi è veramente, conosce l’origine dei propri desideri, crea e distrugge a suo piacere tavole di valori, segue il proprio gusto (estetico) piuttosto che il proprio giudizio (morale), prende sostanzialmente come un gioco ciò che gli altri prendono sul serio (sa di recitare una parte), è “al di là del bene e del male” (semmai si fa guidare dal bello, come cercheranno di fare gli esteti tra Otto e Novecento, i dandies, gli aderenti alle avanguardie artistiche ecc.).

Nietzsche, ispirandosi a un frammento di Eraclito (“Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi in riva al mare. Di un fanciullo è il dominio”), lo paragona, come detto, a un fanciullo: a differenza del “cammello” che obbedisce (per paura, abitudine?) all’imperativo categorico “tu devi” senz’altro fine che la pura obbedienza, del “leone” che reagisce a questa condizione ribellandosi, ma  condannando moralmente coloro a cui prima credeva di dover obbedire, dunque rimanendo implicitamente ancora preda dei suoi sensi di colpa), il fanciullo (cfr. la figura del “fanciullo” in Pascoli, l’Uomo senza qualità dello scrittore tedesco Musil, i personaggi di Svevo e Pirandello ecc.) agisce “a capriccio”, in modo inaffidabile e irresponsabile (non può garantire a nessuno di mantenere le promesse che fa, perché “tutto scorre”, dentro e fuori di lui, come insegnava Eraclito), simile per certi aspetti all’Achille omerico (diviso “capricciosamente” tra desiderio di gloria  immortale e paura di morire, tra l’ira contro Agamennone che gli ha sottratto la schiava e l’ira contro Ettore che gli ha ucciso il migliore amico Patroclo, tra l’odio per Ettore e la compassione per suo padre Priamo ecc.) o al principe di Machiavelli (figura sostanzialmente a-morale, che cerca di soddisfare i suoi desideri tramite la “virtù”, ossia forza, coraggio e astuzia, ma sa di essere come tutti in balìa della “fortuna”, del caso).

Ed ecco un’antologia di testi di Nietzsche.

Ecco un video sulle alcune questioni aperte in Nietzsche:

di Giorgio Giacometti