La filosofia di Heidegger

HeideggerHeidegger “nasce” allievo di Husserl, fenomenologo. In Essere e tempo (1927), tuttavia, la sua opera fondamentale, Heidegger, pur rendendo omaggio al maestro, se ne allontana in diversi modi.

Per Heidegger l’epoché fenomenologica non permette di cogliere effettivamente l’essere dell’ente (cioè della “cosa”). Anche lo sguardo fenomenologico di Husserl (così come quello di tutta la filosofia occidentale da Platone in poi) è “parziale”. Infatti la filosofia, prima, e la scienza, poi, guardano alle cose come ad “oggetti”, “semplici presenze”, immobili davanti al soggetto. Ma le cose, prima che oggetti di conoscenza, sono “utilizzabili”, utensili, qualcosa che ha senso per ciascuno di noi in base all’uso che ne facciamo (anche in senso metaforico). Noi stessi, il “soggetto”, non siamo affatto qualcosa di separato dagli oggetti, non siamo riducibili a “coscienza” e basta. Piuttosto noi “ci siamo“, siamo un ente che c’è, un esserci, con una storia, il cui modo di essere fondamentale consiste nell’essere nel mondo. Questo nostro essere nel mondo non è solo un modo di essere “conoscitivo”, ma è anche affettivo, sensibile, operativo, manipolativo. Il nostro rapporto con le cose non è primariamente conoscitivo, “oggettivizzante”. Prima di tutto è una relazione di uso e di senso. Se il filosofo fa epoché da questa condizione iniziale si allontana dalla realtà, che vorrebbe invece afferrare, compiendo lo stesso “errore” dello scienziato.

“Innanzitutto e per lo più” siamo gettati in un mondo che non abbiamo scelto, preda del “senso comune”, di quello che Heidegger chiama il “si” (del “si fa”, “si dice”, ecc.), ossia della condizione inautentica. Il filosofo, che pure miri a emanciparsi da questa condizione per conseguire una condizione autentica, non può però partire dall’epoché, ma deve partire dalla condizione che condivide con gli altri “con-esserci”, condizione piena di pregiudizi e di condizionamenti, ma anche l’unica concreta, reale. Tale condizione, prima che da presupposti di tipo conoscitivo, è caratterizzata da una precomprensione in senso generale del mondo che circonda ciascuno di noi (una “visione ambientale preveggente”), diversa a seconda della “cultura” di ciascuno e delle condizioni di vita (dal contesto).

Secondo Heidegger l’esperienza degli altri e delle cose porta chi non si lascia vincere dal “si” e dalla condizione di inautenticità a una progressiva, ma inesauribile comprensione degli altri, delle cose e di se stessi, dentro un movimento circolare di tipo interpretativo (circolo ermeneutico) che non conduce, tuttavia, mai all’intuizione husserliana dell’essenza.

Questo movimento “ermeneutico” è guidato dalla cura che ci prendiamo delle cose, degli altri e di noi stessi, ma è caratterizzato anche da un sentimento di angoscia per il non-senso del tutto, angoscia davanti al nulla che è la possibilità più propria dell’esserci, quella della propria morte. L’esserci autentico è quello di chi si fa carico del proprio essere in-vista-della-morte, chi sa anticipare la propria morte e, così, vivere pienamente ogni tempo.

L’esserci si rivela, infatti, temporale, non in modo accidentale, ma essenziale. Il tempo non è, per quell’ente che è l’esserci, semplicemente qualcosa che scorre davanti a lui come su uno schermo. No, il tempo caratterizza l’esserci stesso. L’esserci è tempo. Ma che genere di tempo?

Il tempo inautentico è un presente ripetitivo. Il passato è come il futuro, tutto è uguale. L’esserci passa da una cosa all’altra, ma, potremmo dire, non impara niente. Quando, invece, l’esserci fa un’esperienza profonda delle cose, va oltre la sua iniziale precomprensione (in cui echeggia il senso comune, il “si” impersonale) e raggiunge una comprensione più propria, allora le cose non sono più come apparivano inizialmente e neppure l’esserci è più quello di prima. Allora egli non può più tornare indietro. Il passato per lui è davvero passato. Allo stesso modo il futuro è davvero futuro quando si è disponibili a lasciarsene sorprendere. Finché il futuro è totalmente prevedibile, controllabile, assicurato, esso resta la “fotocopia” del presente, non è futuro in senso proprio. Il futuro è il tempo del possibile, dell’inatteso. Chi si eleva alla condizione di un’esistenza autentica vive pienamente il tempo, in quanto dimensione non riducibile allo spazio, propria dell’esserci in quanto tale.

Si potrebbe forse semplificare il discorso di Heidegger come segue: conduce una vita inautentica chi, così come dà significato alle cose a partire dall’uso che egli ne fa, si fa dare dagli altri un significato (come “professore”, “fotomodella”, “calciatore” ecc.) a partire dall’ “uso” che gli altri fanno di lui. Chi, viceversa, riesce a dare un significato irripetibile a se stesso, a partire dalla consapevolezza del suo “essere-per-la-morte”, non facendosi “usare” dagli altri, conduce una vita autentica.

Ma Heidegger non si dedica a quest’analisi dell’esserci, come poi faranno i suoi seguaci esistenzialisti, soprattutto francesi, per uno speciale interesse rivolto all’umano. Heidegger si interroga su chi siamo, perché noi siamo coloro che si pongono il problema del senso dell’essere, in generale, cioè del senso del fondo delle cose.

Se il senso dei singoli enti, delle cose, sembra almeno in parte dipendere dal modo in cui essi ci si offrono nella cura, in che cosa consiste il loro stesso essere? Non può trattarsi dell’essenza in senso platonico o husserliano, perché l’interesse per l’essenza delle cose è puramente conoscitivo e sorge quando qualche “intoppo” rende difficile l’uso delle cose stesse. La conoscenza obiettivante, astratta, è un derivato dell’originario rapporto con l’essere. Essa nasconde lo scopo segreto dell’uomo, quello di dominare l’essere delle c­ose, non di comprenderlo veramente. Alla questione del senso dell’essere, al di là di come noi lo comprendiamo in quanto esserci, Heidegger dedica tutto il resto della sua vita, dopo Essere e tempo, ma senza mai arrivare a una conclusione definita.

Si tratta, infatti, della questione che guida la riflessione del cosiddetto “secondo Heidegger”, dopo la cosiddetta Kehre (o “svolta”, nel senso di cambio di prospettiva, avvenuta negli anni ’30).

L’essere delle cose è qualcosa per il quale non ci bastano le parole della lingua. La lingua della filosofia è “metafisica” e tende a rappresentare l’essere come un oggetto, come una semplice presenza. La lingua ci fa immaginare che l’essere delle cose sia qualcosa a nostra disposizione, manipolabile come le cose stesse.

Questa precomprensione (equivoca, perché ha prodotto dai tempi di Platone quello che Heidegger chiama oblio dell’essere) da ultimo è sfociata, dopo la stagione della filosofia greca e quella della  scienza moderna, nel paradiso della Tecnica di oggi. Oggi la Tecnica detta le regole con le quali l’umanità comprende i fenomeni: ce ne interessiamo in quanto li possiamo manipolare. Ma il punto interessante è che si tratta di un’illusione. È piuttosto la Tecnica, secondo Heidegger, che manipola noi, che ci assegna scopi propri come se fossero i nostri, che ci aliena da noi stessi. Eppure anche la Tecnica, proprio in quanto non è affatto alla nostra mercé come noi crediamo, ma piuttosto è lei che ci domina, deve essere un modo in cui, non noi, ma l’essere stesso si manifesta, nel momento stesso in cui esso si nasconde.

D’altra parte nessuno, neppure il più grande filosofo, può spogliarsi dall’oggi al domani, della precomprensione che l’umanità ha dell’essere. Sappiamo che non si può fare, infatti, epoché. Questo vale sia per il singolo uomo immerso nel suo mondo, sia per l’intera umanità nella sua Storia. Quindi siamo “condannati” all’oblio dell’essere oppure a scorgere tratti, momenti dell’essere (delle cose e di noi stessi), attraverso forme linguistiche diverse da quelle della filosofia e della scienza, come, ad esempio, quelle della poesia (che tenta di introdurre un linguaggio diverso da quello della metafisica, cioè della filosofia, della scienza e del senso comune che da queste è derivato) e dell’arte.

Nell’arte più che altrove l’essere si manifesta e si nasconde. Noi, infatti, tendiamo a “interpretare” l’opera d’arte (così come una poesia) dandole un significato coerente col nostro “mondo” (l’insieme dei significati che diamo alle cose a seconda della nostra visione del mondo, se siamo p.e. atei o credenti, autentici o inautentici ecc.), a sua volta legato al mondo della nostra epoca, condiviso dalle persone che appartengono alla nostra cultura (e che sono contraddistinte dalla stessa precomprensione). Tuttavia, tale interpretazione “mondana” non esaurisce l’essenza dell’opera, che dipende da quella che Heidegger chiama “la Terra”, ciò che resiste a ogni interpretazione, ma in cui pure l’essere si manifesta. Ciò vale per qualsiasi “cosa” interpretiamo (in quanto non si riduce a un oggetto e neppure a un semplice utensile), ma emerge nel modo più potente nell’opera d’arte, nella quale si manifesta proprio l’essenza più profonda della “cosalità della cosa” (così si esprime Heidegger).

In generale, il linguaggio è la “casa dell’essere”, ma non nel senso che mediante il linguaggio noi lo possiamo definire, bensì nel senso che esso ci aiuta a scorgerlo, come in controluce. D’altra parte per Heidegger vale per il linguaggio, in generale, quello che oggi vale per la Tecnica: non siamo noi che parliamo una lingua, ma è la lingua che ci parla (tanto è vero che nessuno di noi ha scelto la sua lingua madre, ma la lingua madre è piuttosto la fonte della nostra precomprensione originaria del mondo, quella che ci fa pensare come pensiamo, che ci dà certe categorie per concepire il mondo, come quelle di “soggetto” e “oggetto”, ad esempio).

Quello che Heidegger, infine, suggerisce è che l’essere, come l’esserci, sia caratterizzato essenzialmente dal tempo, diversamente da come se lo rappresenta la metafisica, che tende a ridurlo a una presenza immobile. Ecco perché l’essere può manifestarsi nella Storia, pur sempre nascondendosi nella sua ultima natura, e cioè si manifesta nei diversi modi in cui noi abbiamo creduto di coglierlo, cioè come oggetto della filosofia, prima, poi della scienza, infine della Tecnica. Tutti questi modi per tentare di afferrare l’essere sono fallaci, eppure tutti ci si rivelano come aspetti diversi dell’essere, di un essere evidentemente inesauribile.

In ultima analisi, contro la tendenza dei saperi non filosofici (biologici e psicoanalitici) a “sloggiare” l’uomo dalla una “residua” centralità nel mondo, Husserl  e Heidegger, con la nozione di “correlazione” tra io e mondo (Husserl) e con l’idea che l’uomo sia il solo ente che si possa porre il problema dell’essere (Heidegger), recuperano un ruolo fondamentale per il “soggetto”. Tuttavia, specialmente l’ultimo Heidegger, erede “spirituale” di Nietzsche e di una concezione “al di là del bene e del male” (non inganni la distinzione tra vita autentica e inautentica che sono solo diversi modi di esserci, nessuno dei due più “valido” dell’altro in assoluto) con la sua idea di oblio dell’essere e asservimento alla Tecnica, non sfugge a un radicale nichilismo.

 

di Giorgio Giacometti