Filosofia analitica (o del linguaggio)

Wittgenstein
Ludwig Wittgenstein

Qualche anno fa si è acceso in Italia un vivace dibattito tra gli addetti ai lavori sul contrasto tra due fondamentali tendenze: quella della filosofia cosiddetta “continentale” e quella della filosofia “analitica”, la prima diffusa in Europa continentale e la seconda nei Paesi anglosassoni (Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada ecc.).

La filosofia “continentale” comprende in realtà un “arcipelago” di tendenze diverse, accumunate, però, dall’attenzione per la storia del pensiero occidentale, dalla origini presocratiche fino ai giorni nostri, considerata come bagaglio culturale da cui non si può prescindere se si vuole fare filosofia oggi, interrogandosi su problemi contemporanei. La corrente prevalente è senz’altro quella costituita dalla cosiddetta ermeneutica.

La filosofia “analitica”, invece, diffusa nei Paesi anglosassoni (veicolata in inglese e sviluppata in numerose riviste molte delle quali disponibili anche on line), nasce dagli sviluppi autocritici dell’empirismo logico e si concentra nell’attività di analisi del linguaggio comune mediante il quale parliamo della “realtà”, ignorando per lo più o fingendo di ignorare la nostra “tradizione” filosofica. L’idea è che noi pensiamo la realtà e operiamo su di essa attraverso il linguaggio di ogni giorno (non è quello che faceva anche Socrate nei Dialoghi di Platone?) e che questo linguaggio ordinario (e non la tradizione filosofica in senso culturale) sia la fonte originaria a cui attingere per riproporre le fondamentali questioni della filosofia (etiche, ontologiche, estetiche ecc.).

L’elemento comune delle due tendenze è l’attenzione alla dimensione del linguaggio (si parla. soprattutto a proposito del sorgere della filosofia analitica, di un linguistic turn, una svolta linguistica della filosofia del Novecento), come fonte delle categorie fondamentali attraverso le quali noi pensiamo le realtà; la differenza è che, mentre per gli “analitici” il linguaggio da interrogare è quello ordinario nel suo uso corrente, per gli “ermeneutici” questo va investigato per quello che ci può dire della cultura da cui originariamente proveniamo e che ci fa pensare quello che pensiamo nel modo in cui lo pensiamo (di qui l’attenzione, p.e., all’etimologia dei termini che adoperiamo o alla cosiddetta “storia degli effetti” o “fortuna” di un’opera di filosofia o di letteratura nel corso dei secoli ecc.).

L’autore a cui si può far risalire la “svolta linguistica” non è anglosassone, ma austriaco. Si tratta di Ludwig Wittgenstein (che, secondo alcuni, è, con Heidegger, tra i massimi filosofi del Novecento).

Mentre il cosiddetto “primo Wittgenstein” può essere considerato l’ispiratore del Circolo di Vienna (dell’empirismo logico), il cosiddetto “secondo Wittgenstein” può essere considerato l’iniziatore della filosofia analitica del linguaggio.

Wittgenstein, come poi gli altri autori che traggono ispirazione da lui, si interroga sul significato dei discorsi a partire dal modo in cui il linguaggio viene usato, tentando di risolvere tutti i problemi filosofici e scientifici in problemi di linguaggio.

In particolare la fase detta del “secondo Wittgenstein” è caratterizzata da un cambio di prospettiva: invece di pensare, come Schlick, che “il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica” , Wittgenstein pensa ora che “il significato di una proposizione dipende  dall’ uso che se ne fa”. Si abbandona, cioè, la teoria referenziale del linguaggio, per la quale ogni parola significa un oggetto e, in generale, la funzione fondamentale del linguaggio sarebbe quella di descrivere la realtà.

Ma che significa che il senso di una proposizione dipende dall’uso che se ne fa? Mentre secondo il primo Wittgenstein le frasi, o proposizioni, sono la rappresentazione della realtà, per il secondo Wittgenstein le proposizioni hanno un senso che dipende dal contesto.

Nasce, così, quella che si sarebbe chiamata pragmatica, che è una parte della linguistica.

La linguistica può essere considerata divisa in 3 rami:

  1. sintattica: riguarda il significante, la forma logica
  2. semantica: riguarda il significato, inteso come contenuto, quindi la verità o falsità dell’enunciato
  3. pragmatica: riguarda l’uso, il contesto, gli scopi per cui si parla

Il contesto d’uso consente di distinguere in un enunciato le sue presupposizioni (corrispondenti alla “precomprensione” degli ermeneutici) dal suo valore d’uso (scopo).

Un esempio potrebbe essere: “Acqua!”. Questa espressione può avere come presupposizione il fatto che ci troviamo nel deserto e avere come scopo (valore d’uso) quello di fare in modo che qualcuno ci disseti. In altro contesto la presupposizione potrebbe avere a che fare con un incendio e lo scopo sarebbe quello di farsi passare secchi d’acqua per cercare di estinguerlo.

La pragmatica del linguaggio, inaugurata dalla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein, ci permette di distinguere, dunque, due aspetti di ciascun enunciato: la presupposizione, ossia quello che l’enunciato presuppone come contesto dell’enunciazione, senza di cui l’enunciato stesso, anche se formalmente corretto, risulterebbe pragmaticamente insensato; il valore d’uso dell’enunciato (o significato pragmatico), ossia ciò per cui l’enunciato stesso, in quanto strumento, viene prodotto (uno scopo concreto, operativo, tangibile).

I due aspetti, in molti casi, sono strettamente associati e si possono esprimere come il contesto d’uso dell’enunciato. Ad esempio: se dico “Sono triste” potrebbe essere presupposto un contesto d’uso del tipo: “Sono tra amici o persone che mi possono aiutare, consolare ecc. [presupposizione dell’enunciato] e dico questa frase per riceverne aiuto, consolazione ecc., come si dicessi ‘fatemi divertire’ [valore d’uso]” ma anche: “Non riesco ad assolvere a un compito che mi è stato affidato da qualcuno a cui mi rivolgo per giustificarmi della mia mancanza e per ottenere di poter smettere senza conseguenze”

Se consideriamo il modello della comunicazione di Jacobson, possiamo riconoscere nella funzione conativa della comunicazione la sua funzione originaria.

Ricordiamo che Jacobson distingue la seguenti funzioni:

  1. referenziale (quando il messaggio, spesso centrato su un verbo espresso al modo indicativo, intende descrivere un fatto, il cosiddetto referente), p.e. “Piove”
  2. espressiva (quando il messaggio, spesso centrato su un verbo espresso al modo congiuntivo, intende esprimere un desiderio, uno stato d’animo dell’emittente), p.e.: “Potessi ricevere un abbraccio!”
  3. poetica (quando il messaggio, spesso ricco di metafore e altre figure retoriche, è centrato su se stesso), p.e.: “Mi illumino d’immenso”
  4. fàtica (quando il messaggio, spesso ridotto a semplici interiezioni o a parole casuali, ha solo la funzione di verificare la qualità del canale), p.e. “Pronto?”, “Uno, due, prova”
  5. conativa (quando il messaggio, spesso centrato su un verbo espresso al modo imperativo, intende far agire il ricevente in un certo modo voluto dall’emittente); p.e. “Corri!”, “Vieni!”

Ma, nella concezione emergente dal secondo Wittgenstein e dalla filosofia analitica, la funzione conativa (da conor, “induco, costringo”) è quella originaria e fondamentale.

Non a caso in molte lingue il verbo esibisce all’imperativo il puro tema verbale (p.e. “fa!”, “dì!”. “mangia!”. da “fare”, “dire”, “mangiare”), ossia la forma originaria rispetto a cui le altre forme sono derivate (p.e. “faccio“, “detto“, “mangiando” ecc.).

La funzione conativa resta fondamentale anche quando il discorso, espresso magari al modo indicativo, sembra assolvere altra funzione.

Ad esempio, non direi “Piove” solo per constatare un fatto ovvio, ma se lo dico lo dico per chiedere implicitamente qualcosa a coloro a cui mi rivolgo (un passaggio in auto, di rinunciare a effettuare la prevista escursione in montagna ecc.).

Ciò ci porta alla nozione di atto linguistico (speech act), in Austin e altri. Secondo questa prospettiva i discorsi sono atti, azioni: dire qualcosa è sempre anche fare qualcosa.

Ciò si verifica al massimo grado nei cosiddetti enunciati performativi, in cui ciò che si dice coincide senza residui con ciò che si fa (o, altrimenti detto, dire qualcosa è farla).

Esempi di enunciato performativo:  “Prendo te come mia sposa”, “Io ti battezzo”, “Lo giuro” ecc. In casi come questi il linguaggio esibisce la sua natura fondamentalmente pragmatica: dire queste cose è farle. Si tratterebbe del modo originario di parlare di cui quello p.e. referenziale sarebbe piuttosto derivato.

Ma tutto questo che implicazioni filosofiche ha?

Secondo l’approccio analitico non ha tanto senso chiedersi p.e. se Dio esiste, ma che cosa intendono dire/fare coloro che affermano di credervi, coloro che lo invocano, coloro che lo bestemmiano, coloro che esclamano “Oddio” o coloro che, semplicemente, di passaggio, invece di dire “Chissà se domani pioverà” dicono distrattamente “Dio solo sa se domani pioverà”.

In generale il filosofo analitico si chiede il significato dei termini chiave della filosofia di ogni tempo, rispondendo alla domanda socratica “Che cos’è?” (p.e. il bene, il bello, il giusto, il vero, l’amore, l’amicizia, Dio ecc.), non tanto interrogando, sul tema di volta in volta in gioco, la tradizione filosofica e culturale (come fa il filosofo “ermeneuta”), quanto esaminando l’uso concreto che del determinato termine si fa correntemente.

Ad esempio, chi siamo noi? Siamo anime o corpi? Se credo di essere un “io” spirituale e che il mio corpo sia solo qualcosa che possiedo, perché, alla domanda, “Quanto sei alto?”, rispondo “1 metro e 75”? Evidentemente nell’uso che faccio della parola “io” e di ciò che le si ricollega sintatticamente e semanticamente presuppongo di essere anche un corpo. D’altra parte, oltre che alto 1 metro e 75, dico anche di essere, poniamo, cattolico. Sotto questo profilo non ha molto senso pensarmi come corpo. Non è il mio corpo a essere cattolico (mentre invece esso è senz’altro alto 1 metro e 75), ma, piuttosto, qualcosa come un’anima o una mente (o un cuore o uno spirito). Dunque presuppongo di essere anima e corpo o, meglio, un’unità indistintamente fisica e spirituale.

Domande simili si possono fare per quanto riguarda il significato, anche implicito, che diamo a parole come “buono”, “bello”, “giusto” ecc. L’analisi del linguaggio che parliamo dice tutto della nostra visione del mondo. Come diceva Wittgenstein, nel suo secondo periodo, non ci sono “veri” problemi filosofici, ma solo problemi di linguaggio (che la filosofia, in quanto “terapia del linguaggio”, dovrebbe aiutare a risolvere).

Il presupposto di fondo di questo approccio, esplicito in Wittgenstein è che tutto, al fondo, sia chiaro per tutti. Non ci sono cose da scoprire, ma solo modi più o meno efficaci di esprimerle.

Ad esempio, credenti e non credenti sanno perfettamente che Dio non esiste nel modo in cui esiste una sedia, sanno che invocarlo può essere psicologicamente di conforto, che le cose non vanno spesso come ciascuno vorrebbe che vadano, che, se la legge è formalmente uguale per tutti, spesso chi ha più mezzi se la cava meglio in tribunale di chi ne ha meno ecc. Che problema c’è? Non c’è nessun vero problema da risolvere, ma solo da comprendere come esprimere nel modo meno equivoco possibile quello che è ben noto e chiaro a tutti.

Si potrebbe riassumere la tesi di fondo dei filosofi analitici, legata all’idea di pragmatica della comunicazione, con la celebre frase dell’abate di Dinuart, contenuta nell’Arte di tacere:

È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio

(cioè, sottinteso, quasi mai!)

di Giorgio Giacometti