Limiti del meccanicismo: tempo, memoria e vita in Henri Bergson

Bergson

La celebre teoria del tempo di Bergson (che ha ispirato, direttamente o indirettamente, molta letteratura, da Marcel Proust a James Joyce) può sembrare meno originale di quello che sembra.

In effetti anche per Aristotele “risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima” [Fisica, IV, 14, 233a21-26]. Il tema sarebbe stato ripreso con variazioni da Agostino, Kant, Husserl, Heidegger…

Tuttavia, Bergson sviluppa la sua concezione della soggettività del tempo, come le altre che lo contraddistinguono (ad esempio la sua teoria dello “slancio vitale” in funzione antidarwinistica), a partire dalla sua chiara e documentata coscienza dello sviluppo della scienza del suo tempo; scienza  che, per molti aspetti, è anche la “nostra”, se si eccettuano gli sviluppi della meccanica quantistica e della biologia molecolare (le teorie con cui Bergson si misura sono, oltre alla fisica classica,  soprattutto la teoria della relatività  e la teoria dell’evoluzione di Darwin).

Ma come pensa il tempo Bergson?

Si potrebbe dire che secondo Bergson, non solo in Einstein, ma anche nella fisica classica (Einstein non fa altro che portare alle estreme conseguenze il sogno cartesiano di una geometrizzazione della fisica), il tempo risulta “spazializzato”, privo della sua specifica natura di tempo.

In effetti la fisica descrive p.e. il moto dei corpi come se il tempo non fosse che un quarto asse di un sistema cartesiano (i cui altri tre assi corrispondono alle tre dimensioni dello spazio euclideo). Un’immaginaria creatura che percepisse l’universo in quattro dimensioni potrebbe, ad esempio, percepire come simultaneo ciò che (ad esempio la vita di una stella) noi percepiamo in trasformazione nel tempo (esattamente come i personaggi del romanzo Flatlandia di Abbott percepiscono come un cerchio che cambia diametro nel tempo una sfera che attraversi il loro mondo bidimensionale).

Ma il tempo si differenzia dallo spazio in quanto è ad esso irriducibile.  Quali processi si svolgono in un tempo irriducibile allo spazio? Quelli irreversibili, segnatamente: i processi termodinamici e quelli biologici.

Si tratti di quei processi (la crescita di una pianta, i rimbalzi sempre più piccoli di una pallina di gomma) che, se filmati, risulterebbero irriconoscibili qualora proiettassimo il film a rovescio (laddove altri processi, come la rivoluzione di un pianeta intorno alla propria stella o le cosiddette “trasformazioni adabiatiche” sono tali che, se li riprendiamo e proiettiamo il film che ne risulta a rovescio, non saremmo in grado di dire se il processo  a cui assistiamo è quello vero o una sua rappresentazione a freccia del tempo invertita).

La vita, in particolare, è strettamente legata al tempo e, più ancora della vita, la coscienza.

Facciamoci questa domanda.  Qual è l’età dell’universo? Circa 15 miliardi di anni! In assoluto? No, solo “per noi”. Infatti, se “noi” non ci fossimo, l’universo avrebbe simultaneamente tutte le età che ha avuto e che avrà. Non ci sarebbe un osservatore in grado di fissare un “presente” rispetto al quale misurare l’età di qualcosa (in questo caso dell’universo).

In assenza di un vivente che si metta in relazione con un oggetto inanimato in un certo determinato tempo, che per lui è il presente, (magari pervenendo a coscienza della presenza di questo stesso oggetto), l’oggetto, in se stesso, esisterebbe fuori del tempo.

Il tempo, dunque, in quanto strettamente legato alla vita, deve essere rappresentato non come una linea, ma, piuttosto, come un gomitolo o come una valanga: ciascun presente, che ci possiamo rappresentare come la superficie esterna del gomitolo o della valanga, fa passare i “presenti passati”  all’intero della struttura di cui è superficie, cioè nella “memoria”, senza la quale non ci sarebbe né coscienza, né tempo.

Sul tema della memoria si potrebbe attualizzare il discorso di Bergson svolgendo le seguenti considerazioni.

La memoria è considerata da Bergson il “luogo” immaginario in cui sono “collocate” le cose passate che possiamo evocare nel presente attraverso il ricordo.

Il ricordo, come atto del richiamare (d)alla memoria, è sempre, necessariamente presente. Esso costituisce la messa in atto di alcunché di latente o potenziale.

Il ricordo, come attivazione delle memoria, determinato da qualche circostanza evocativa (cfr. il famoso episodio della madeleine nella Recerche di Proust), richiede che si abbia un corpo e, in esso, un cervello, ossia un meccanismo, complesso come il mondo, che permetta allo spirito di interfacciarsi, qui e ora, con il mondo stesso.

Ciò di cui mi ricordo, proprio come ciò che immagino, è presente, certo,  in modo assai più labile e confuso di quello che attualmente percepisco. Questo dipende dal fatto che il passato ritorna nel presente come attraverso un filtro, che lo rende appunto labile e confuso, distinto da ciò di cui ho attualmente percezione. Nello stesso modo “filtrato” si possono combinare liberamente le immagini dei ricordi per sviluppare fantasie. Questo filtro permette, tra l’altro, di ricorrere a tali immagini come a simboli o metafore di qualcosa di non percepibile.

La memoria, invece, come luogo in cui sono collocati tutti i possibili ricordi, non è e non può essere in quanto tale “corporea” (né apparire tale, come il cervello). Ciò per diverse ragioni (già valide ai tempi di Bergson ma che non hanno perso di smalto neppure oggi).

Tutti i tentativi di individuare la sede della memoria nel cervello sono falliti. Certe strutture, come l’ippocampo, sono certamente importanti per il ricordo – come dimostrano le difficoltà che incontrano i malati di Alzheimer, il cui ippocampo appare danneggiato -, ma non costituiscono un “serbatoio” privilegiato di immagini mentali.

Se le immagini mentali fossero immagazzinate nel cervello, come potrebbero sopravvivere all’incessante distruzione e ricostruzione molecolare che vi si svolge a seguito del metabolismo?

L’ipotesi secondo la quale la memoria risiederebbe fisicamente da qualche parte sembra, inoltre, esclusa dal seguente paradosso. Se devo ricordarmi di qualcosa, devo ricordarmi prima di quello di cui mi devo ricordare, per potermelo ricordare, e così via all’infinito. Questo paradosso può essere dissolto solo se la cosa che si cerca di ricordare è in qualche modo già presente a chi la deve ricordare, ossia è altrettanto “spirituale” del soggetto che la vuole ricordare e che ne è in qualche modo attratto. Se il “sistema di recupero” dei ricordi fosse meccanico (in particolare, se si trattasse di un meccanismo computazionale, emulabile da un computer) la procedura sarebbe interminabile: il sistema di recupero di una traccia di memoria dovrebbe poterla “riconoscere” in senso meccanico (attraverso il match di frammenti di informazione), dunque tale sistema di recupero dovrebbe a sua volta essere dotato di un sistema di memoria e di un proprio sistema di recupero  e così via all’infinito [L’argomento, evocato da Sheldrake, p. 163, è esposto dettagliatamente in H. A. Bursen, Dismantling the Memory Machine, Reidel, Dodrecht 1978].

La memoria coincide, in ultima analisi, in questa interpretazione, con la stessa anima del soggetto, a cui i ricordi attingono per vie condizionate dall’esperienza del corpo.

di Giorgio Giacometti