La soluzione del “dualismo cartesiano”

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L’assunzione del meccanicismo (abolizione della cause finali, spiegazione dell’universo sulla base delle sole cause efficienti e materiali, interpretazione geometrica della fisica) da parte di Cartesio, non come mera ipotesi, ma come principio cardine della sua filosofia (e, quindi, di quel sapere che oggi chiamiamo “scientifico”) implica una serie di conseguenze problematiche soprattutto per l’interpretazione del senso della vita umana.

Se tutto, in natura, obbedisce a leggi meccaniche, dove finisce la nostra libertà di scelta o libero arbitrio? Saremmo irresponsabili di ciò che facciamo, perché le nostre azioni sarebbero il prodotto meccanico di reazioni fisico-chimico-biologiche che non potrebbero essere diverse da quelle che sono (determinismo).

A questo genere di obiezioni Cartesio risponde essenzialmente introducendo, accanto alla materia o res extensa, lo spirito o res cogitans. Appare evidente, cioè, che nel mondo dobbiamo distinguere due sole sostanze: la res cogitans (il soggetto pensante) e la res extensa (la materia pensata, che obbedisce alle leggi di natura scoperte da Galileo e da Cartesio stesso, in particolare al principio di conservazione della quantità di moto). A proposito di res cogitans e res extensa parliamo di dualismo cartesiano.

N. B. La tesi cartesiana che, per il fatto che penso, sono una “cosa pensante” (res cogitans) è stata oggetto di critica fin dalla sua prima apparizione, in particolare da parte di Thomas Hobbes.

Cartesio può bensì dedurre che “c’è del pensiero”, ma non che esista una “cosa pensante” (altrimenti – osserva Hobbes – dal fatto che io passeggio si dovrebbe dedurre che esista una “cosa passeggiante”).

Cartesio replica che dal momento che non posso non pensare, pensare non è come passeggiare o dormire, ma corrisponde alla mia essenza (quando non penso non sono, mentre il mio corpo può continuare ad esistere sia che passeggi sia che no).

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A questo punto Cartesio può attribuire alla volontà della res cogitans o spirito (entità che sarebbe propria – attenzione -solo dell’uomo, non degli altri animali o, più in generale, dei viventi, concepiti come semplici “macchine” o “automi” naturali) un “margine” di libertà d’azione.

Ma come è possibile questo “libero arbitrio”, se il nostro corpo è parte della natura e questa è rappresentabile come un insieme di punti materiali che si muovono in un sistema di assi cartesiani sulla base di leggi (equazioni) inviolabili?

Cartesio congettura che l’anima possa guidare il corpo attraverso una ghiandola particolare, collocata nel cervello, la ghiandola pineale (vedi immagine in alto). L’anima potrebbe liberamente modificare la direzione del moto del corpo senza modificare la quantità di moto complessiva del sistema di cui il determinato corpo umano è parte (dunque senza violare la legge fisica fondamentale, per Cartesio, della costanza della quantità di moto).

 Questa soluzione è stata criticata sotto diversi profili.

  1. In primo luogo non si capisce come qualcosa di intangibile e immateriale (come l’io, l’anima, la res cogitans) possa agire su qualcosa di materiale (il corpo). Se ciò fosse possibile nella ghiandola pineale, perché non dovrebbe essere possibile altrove? Ma se ciò fosse possibile altrove, io potrei muovere gli oggetti a distanza (telecinesi) solo con la forza del mio pensiero, il che non accade.
  2. In secondo luogo Leibniz avrà buon gioco a dimostrare che in un sistema chiuso ciò che rimane costante non è la quantità di moto complessiva (q = mv), intesa come grandezza scalare (ossia come il semplice prodotto della massa dei punti materiali in gioco per le loro velocità in ciascun istante),  ma la “forza viva” (o energia, E = Ep + ½mv2). Ma questa grandezza è sensibile alle variazioni di traiettoria dei corpi, perché ogni variazione dalla linea retta implica l’applicazione di una forza, componente dell’energia in gioco, che è una grandezza vettoriale (cioè contraddistinta non solo da un modulo, ma anche da una direzione e da un verso). Perciò se ciò che accade in un determinato sistema, comprese le variazioni di traiettoria, è esaurientemente interpretabile applicando le sole leggi fisiche, non resta più alcuno spazio per il libero arbitrio umano.

N.B. Del dualismo cartesiano siamo tutt’ora eredi, quando, soprattutto in ambito medico, distinguiamo nettamente la “psiche” o “anima”, oggetto di psico-terapia o, magari, soggetto di pratiche religiose o spirituali, dal “soma” o “corpo”, oggetto di interventi medici o chirurgici. A volte, per esempio per curare “malattie dell’anima” come la depressione, ci si giova indifferentemente o di cure basate sul dialogo o di psicofarmaci basati su molecole, senza approfondire le complesse relazioni psico-somatiche in gioco (è la cura del corpo che favorisce il benessere dell’anima o viceversa?) e, soprattutto, senza mettere in discussione il “dualismo” cartesiano soggiacente. Alcune correnti di “medicina alternativa”, come l’omeopatia, ad esempio, si sforzano di intendere l’essere umano come un tutto (“hòlon“, donde il nome di approccio “olistico”), senza distinguere anima e corpo (in questo approccio, p.e, per curare un banale raffreddore l’omeopata può investigare il modo di sentire e di pensare di una persona). Purtroppo, tali approcci non sembrano scientificamente attendibili, forse perché la scienza moderna, anche quando mette in atto le procedure di verifica delle teorie in gioco, parte da presupposti “cartesiani” (dualistici e, soprattutto, per quanto riguarda la cura del corpo umano, meccanicistici) e non ha, quindi, gli strumenti per “validare” teorie di tipo “olistico” (che sembrano riesumare le “cause finali” e la nozione classica di “anima” come forma del corpo).

Un problema connesso riguarda la funzione della coscienza (rispetto al quale puoi leggere questo approfondimento, ispirato alle moderne vedute del filosofo australiano David Chalmers).

Ammesso che l’interpretazione meccanicistica del corpo sia corretta e che, magari, neppure “esista” una sostanza o entità separata denominata “anima”, quale funzione assolverebbe la “coscienza” che abbiamo di esistere?

  1. Se non si tratta di un’anima separata, ma di un “effetto” del corpo (o del cervello), sorge il problema della sua funzione. Infatti, se la coscienza non assolvesse alcuna funzione, non si spiegherebbe la sua presenza, almeno non la si potrebbe spiegare sotto il profilo biologico-evoluzionistico (ogni “struttura” od “organo” del corpo dovrebbe assolvere una funzione utile alla sopravvivenza dell’individuo o della sua specie).
  2. Se, invece, la coscienza assolvesse una funzione (per esempio quella di esaminare con attenzione le situazioni per prendere decisioni più meditate e utili alla sopravvivenza, di quanto potrebbe fare il semplice cervello attraverso operazioni inconsce, come quelle che presiedono p.e. alla digestione o alla respirazione), allora la “coscienza”, in quanto è distinta dal cervello, dunque “immateriale”, sarebbe “causa” di qualcosa che avviene nel corpo (e che, se essa non operasse, non si verificherebbe). Ma tale ipotesi ripropone il problema che lo stesso Cartesio non riuscì a risolvere in modo convincente: come qualcosa di immateriale possa interagire con qualcosa di materiale.

Un ulteriore esempio di come la moderna filosofia della mente si ponga il problema della coscienza (senza risolverlo) è offerto p.e. da questo saggio teorico di Marco Giunti.

di Giorgio Giacometti