Arthur Schopenhauer


schopenhauer

La filosofia di Schopenhauer prende le mosse da quella di Platone e da quella di Kant, riconsiderati alla luce di suggestioni hindu e buddistiche.

Il mondo appare a Schopenhauer (come egli illustra nella sua opera fondamentale Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicata una prima volta nel 1819, quindi nel 1844 e un anno prima della morte dell’autore, nel 1859) come rappresentazione, ma nel senso di inganno, “velo di Maya”. Noi conosciamo solo i fenomeni, come dimostra Kant, non la cosa in sé che si nasconde dietro la loro superficie.

Schopenhauer “legge” i fenomeni alla luce delle conquiste della scienza (vive nell’Ottocento e, comprensibilmente, ha una concezione deterministica e meccanicistica, risalente a Cartesio, della Natura, così come appare, dominata dalla causalità o principio di ragion sufficiente), ma ritiene che dietro il “muro” della rappresentazione si nasconda la vera realtà, la kantiana cosa in sé o noumeno (non un regno di liberi spiriti capaci di autodeterminazione morale, come postula Kant o crede chi ha fede, meno che mai un soggetto onnipotente che produca inconsciamente i fenomeni, come nella prospettiva degli idealisti, che Schopenhauer considera nient’altro che sofisti, il peggiore dei quali sarebbe quel gran “calibano” di Hegel…).

Il principio di ragion sufficiente, in particolare, a cui Schopenhauer riduce le 12 categorie attraverso le quali, secondo Kant, l’intelletto umano leggerebbe i fenomeni disposti nello spazio e nel tempo (anch’essi soggettivi), si articolerebbe (come Schopenhauer ha chiarito fin dalla giovanile dissertazione del 1813) secondo 4 radici: come causa

  1. in senso logico (la premessa di un ragionamento),
  2. in senso matematico (p.e. gli addendi di una somma),
  3. in senso fisico (come causa meccanica),
  4. in senso morale (come ragione giustificativa di un comportamento).

È importante ricordare che questo principio di causalità opera solo per quanto riguarda il mondo come rappresentazione.

Questo significa, concretamente, che, con riguardo p.e. al nostro comportamento (4a radice), le ragioni che invochiamo per spiegare le nostre azioni riguardano solo la nostra rappresentazione, a posteriori, di tali ragioni, dunque è illusoria, “di comodo”, diretta a “mettere a coerenza” la nostra interpretazione del mondo (a cui serve la “scienza”) e di noi stessi.

Le vere motivazioni restano “inconsce” e affondano le loro radici (ma qui ci si sposta già sul “mondo come volontà”) nel nostro istinto (di vita, cioè nella volontà di conservarci e riprodurci per poter continuare a desiderare).

Sotto questo profilo Schopenhauer può ben essere considerato il “maestro dei maestri” del sospetto, il primo autore a distinguere tra il modo in cui “ci raccontiamo” le cose e le cose stesse.

Questa realtà “inconscia” è, dunque, fatta di desiderio incoercibile, cieco e insoddisfacibile, “desiderio di desiderio” che Schopenhauer chiama Wille, termine per lo più tradotto come “volontà”, e che costituisce, secondo lui, la vera essenza della “cosa in sé” kantiana, al di là del fenomeno.

Come facciamo a sapere di essere dominati da tale “cosa”, se si tratta di alcunché di inesperibile? In effetti, secondo Schopenhauer, ne facciamo esperienza attraverso il nostro corpo. Avvertiamo, infatti, che il nostro corpo non è solo fenomeno, come gli oggetti fuori di noi, ma percepisce se stesso nelle forme del dolore e del piacere.

Pensiamo alla differente percezione del corpo di un paziente che hanno il paziente stesso e un medico che – supponiamo – vi pratica un’incisione: per il medico si tratta di un fenomeno come un altro, mentre per il paziente il suo corpo, pur apparendogli anche come fenomeno, si rivela, attraverso il dolore, una sorta di apertura sulla cosa in sé, su ciò che veramente siamo.

Ora, dietro a piacere e dolore, secondo Schopenhauer, è all’opera questa Volontà incoercibile, universale, essenzialmente priva di oggetto e mai paga, la quale tende sempre al piacere (fallendo), mossa da una condizione di perenne dolore o insoddisfazione (il dukkha di cui parlano di buddhisti).

Perché la volontà (o desiderio) è universale? Perché, in quanto cosa in sé, come in Kant, è fuori dallo spazio e del tempo. Non ha cause e non ha scopi, dunque agisce ciecamente. Essa vuole solo se stessa, è desiderio di desiderio.

L’esaudimento è per essa solo un obiettivo illusorio che essa propone ai viventi per indurli a continuare a desiderare, senza che essi, tuttavia, possano mai compiutamente conseguirlo.

Schopenhauer ritiene, come Leopardi, che la vita sia un pendolo che oscilla tra il dolore (per il mancato appagamento dei propri desideri) e la noia (che segua un appagamento in cui l’oggetto del desiderio si rivela, sempre di nuovo, nella sua insignificanza).

A differenza di Leopardi, però, Schopenhauer non attribuisce questa condizione umana alla Natura quale noi la osserviamo (meccanicisticamente ordinata), bensì alla Volontà che si nasconde sotto la sua superficie, oscura, cieca e irrazionale, bramosa di vita.

Questa Volontà sarebbe l’origine delle infinte specie viventi, corrispondenti alla idee platoniche, concepite come eterne, in ciascuna delle quali la Volontà si oggettiverebbe allo scopo di trovare di che desiderare sempre di nuovo. Ciascuna specie, infatti, si ramifica in infiniti individui che nascono, si riproducono e muoiono allo scopo di consentire alla Volontà stessa di continuare a desiderare.

In questa chiave l’amore, ad esempio, tra uomo e donna, che noi coloriamo dei colori più belli, sarebbe solo un inganno per permettere alla specie di riprodursi. Ottenuto il suo scopo, la specie-volontà può disinteressarsi degli individui che hanno cooperato alla sua protrazione, abbandonandoli alla dolorosa scoperta della natura illusoria ed effimera del sentimento che li univa.

Simbolo eloquente di tale dinamica è il comportamento della mantide religiosa che, dopo aver attratto il maschio ed essersene fatta fecondare, lo divora (metafora non troppo coperta del modo d’agire, secondo il misogino Schopenhauer, delle donne della sua epoca, contro tutta la mitologia costruita dal coevo romanticismo).

Schopenhauer non crede, quindi, che alcunché di ciò in cui l’umanità è portata a credere sia reale. Si tratta di illusioni. Di qui il suo nichilismo o pessimismo radicale.

L’unica via di uscita che Schopenhauer sa suggerire è quella che consiste nell’applicare a se stessi tre possibili rimedi: l’arte, la compassione, l’ascesi.

  1. Nella fruizione estetica si evade da se stessi e dai propri desideri e si accede a un mondo in cui, almeno per un attimo, tali desideri sono soltanto rappresentati (nella pittura, nel teatro ecc., nel modo più sublime nella musica – Schopenhauer è contemporaneo di Beethoven, conosce certamente la musica di Mozart ecc. – ). È un po’ come se la volontà si guardasse allo specchio e, per un attimo, subisse un incantesimo. Tale dottrina costituisce l’eco della nozione kantiana di bello, come oggetto di un tipico piacere senza interesse, ossia privo di attrattive immediatamente sensuali verso il fruitore. Ma questa “sospensione” può durare solo per un attimo…
  2. Nella compassione, che può assumere la forma buddhistica del desiderio dell’estinzione della sofferenza di tutti gli esseri viventi o la forma cristiana dell’amore del prossimo, si diluisce, per così dire, la propria sofferenza nella sofferenza cosmica, evadendo, in un certo modo, anche così, da se stessi, non in un mondo immaginario, come nel caso dell’arte, ma nel mondo reale della sofferenza degli altri. Tale esercizio, tuttavia, come è chiaro, non dissolve la sofferenza, ma soltanto la attenua, universalizzandola.
  3. Solo l’ascesi (intesa come rinuncia all’esaudimento di ogni desiderio, ad esempio in chi, come il monaco cristiano, fa voto di digiuno, castità e povertà, o in chi, come il sannyasi hindu, rinuncia a ogni forma di gratificazione dei sensi) può condurre all’estinzione completa (nirvana) della Volontà, alla noluntas, attraverso un cammino apparentemente contraddittorio (paradossale) di “volontà di non volere”; ripiegando, cioè, accortamente la Volontà su se stessa e offrendole la propria negazione come oggetto sacrificale.

di Giorgio Giacometti