“Tutte le strade portano a Roma”

peuntingeriana

Per lo più si pensa che

  1. o si crede “dogmaticamente” in qualcosa di assoluto, indiscutibilmente vero (come si ritene, a torto, che pensassero filosofi classici come Platone e Aristotele)
  2. oppure, ammettendo che la propria è soltanto un’opinione tra le altre, si finisce per accondiscendere a una prospettiva relativistica, a un “pensiero debole”; in cui la “verità” può assumere tutt’al più un valore “storico” (nel senso che sarebbe “vero” ciò che storicamente emergerebbe, per un certo tempo, come tale) o, comunque “locale” (nel senso che sarebbe “vero” ciò che appare tale in una determinata prospettiva o per un certo gruppo di persone ecc.).

Ma, se ci si riflette, entrambe le prospettive sono radicalmente aporetiche e insoddisfacenti.

  1. Chi (come certi “credenti” in Dio o, più modernamente, nella “verità scientifica”) considerasse le proprie opinioni come indiscutibilmente vere scambierebbe, in termini platonici, surrettiziamente, ipotesi (indimostrate) con principi (incontrovertibili).
  2. Chi, più “modestamente”, ammettesse che le proprie opinioni sono “vere” come qualunque altra opinione potesse venire del pari argomentata (o apparisse tale storicamente o per un certo gruppo di persone che ne avessero, magari, “interesse”), cadrebbe nei classici paradossi del relativismo (ad esempio: non potrebbe “difendersi” da chi sostenesse l’opinione secondo la quale lo stesso relativismo è falso).

Si tratta, a tutti gli effetti, di un’illusione di alternativa.

La filo-sofia, come ricerca della verità, infatti,

  1. da un lato non può non presupporre che ciò di cui è ricerca (la “verità” o il “principio” di spiegazione di ogni cosa ecc.) “esista” ed esista incontrovertibilmente, assolutamente;
  2. dall’altro lato, proprio in quanto ricerca (e non possiede) questa “verità”, distingue le ipotesi, che essa stessa, di volta in volta, mette in campo e si sforza di giustificare (argomentare, magari in quanto “salvano i fenomeni”, sviluppano “teorie” coerenti ecc.),  da pretesi principi incontrovertibili.
  • Ma la complessa teoria che esponi su questo sito è, dunque, solo un’ipotesi come un’altra? E come pensi di sfuggire all’accusa di relativismo?

Non si tratta di un’ipotesi come un’altra, ma di quella che mi appare, per il momento, più convincente, più capace di rendere ragione di quello di cui facciamo esperienza e, insieme, sufficientemente coerente da essere concepibile.

Essa mette in campo immagini (quali sono, in ultima analisi, anche le parole) che mi sembrano migliori di altre per comprendere, ad esempio, il principio di ogni cosa e i modi nei quali ne scaturisce il mondo.

Tuttavia, trattandosi di immagini, esse possono venire equivocate o intese diversamente da persone diverse. Ad altri possono sembrare più convincenti altre prospettive, senza che si possa dimostrare in alcun modo né che siano migliori o peggiori, né che esse siano in contraddizione con la mia.

Possiamo fare il paragone con un’opera d’arte, ad esempio un film. Un regista può riuscire ad esprimere meglio di un altro, secondo alcuni critici cinematografici, – poniamo – il dramma dei migranti, ma questo non comporta che anche altri film non risultino “toccanti”. In ultima analisi la “verità” su questo argomento è espressa, al cinema, per immagini, sul valore delle quali si può esercitare soltanto un giudizio “estetico”, ossia, nella terminologia di Kant, “riflettente”, non “determinante”.

  • E questo non sarebbe relativismo?

No. L’ipotesi è che ciò a cui si tende, sia pure “per immagini”, sia qualcosa di “vero”, qualcosa che magari qualcuno può anche cogliere intuitivamente (al di qua del “muro” delle immagini), ma che egli non potrebbe esprimere ad altri, di nuovo, se non per immagini.

Non si tratta, dunque, di relativismo, ma, piuttosto, di prospettivismo.

 

di Giorgio Giacometti