Il parricidio platonico di Parmenide: molteplicità dell’essere

molteplice

Platone “ha bisogno” di un mondo di “idee” eterne, ma plurali (p.e. “bello”, “giusto”, “giovane” ecc.), a cui devono corrispondere altrettante scienze. Egli non può dunque seguire su questo punto il “maestro” Parmenide, che pensava “ciò che è” come uno e indiviso, né il discepolo di Parmenide, Zenone di Elea, in quanto questi confutava il “molteplice”.

Per salvare il molteplice occorre riuscire a pensare il “non essere”. A questo fine Platone compie  fondamentalmente due mosse:

  1. anche chi, come Parmenide, nega che si possa pensare il “non essere”, anche solo per negarlo, deve “pensarlo” e “pronunciarlo”, dunque si contraddice;
  2. il “non essere” può essere inteso come “essere altro o diverso da” (in questo modo si può evitare di pensare il “non essere” come “non essere” assoluto), ad esempio: “ciò che non è bello” può essere inteso come “ciò che è diverso dal bello”, senza passare per il “non essere” assoluto.

Vediamo meglio come procede Platone.

Nel dialogo Sofista Platone commette il cosiddetto “parricidio” (uccisione, metaforica, del “padre”) o “parmenicidio”.

Dopo avere confutato i sofisti ed Eraclito basandosi sulla tesi di Parmenide (un “padre”) secondo cui ciò di cui si ha scienza può essere solo “ciò che è e non può non essere” (per Platone: l’idea), dunque qualcosa di assoluto, non relativo, e immutabile (p.e. il quadrato), Platone “uccide” il padre o maestro Parmenide per quanto riguarda il “numero” dell’essere: non si può trattare di un solo “essere”, ma di una pluralità.

Il dialogo (che si svolge eccezionalmente tra uno Straniero di Elea, controfigura di Parmenide, e Teeteto, in assenza di Socrate) scaturisce dal problema del “falso”.

Se, come dice Parmenide, posso pensare solo “ciò che è”, come faccio a pensare il falso, ad esempio (nostro) che un cane “non è” una farfalla (o, il che è lo stesso, che è falso che un cane sia una farfalla)? Che significa che qualcosa “non è” un’altra cosa?

A questo fine gli interlocutori del dialogo esaminano le conseguenze del tentativo di pensare “ciò che non è”.

Sorprendentemente, il divieto di Parmenide di pensare ciò che non è (la seconda via del suo poema, che dovrebbe essere impercorribile) presenta qualche crepa, qualche contraddizione… che permetterà alla fine a Platone (attraverso il personaggio dello Straniero) di trovare un modo per intendere (pensare) il “non essere qualcosa”…

  • essere o non essereMa perché, secondo Parmenide e lo Straniero di Elea, non è possibile parlare del non essere?

Perché, quando dico o anche solo penso qualcosa, si tratta sempre necessariamente di qualcosa che è (almeno oggetto di discorso o di pensiero).

  • Quali le conseguenze aporetiche (cioè contraddittorie) del divieto di Parmenide di parlare del “non essere”?

Lo stesso Parmenide (così come lo Straniero) non potrebbe parlarne, neppure per vietare di parlarne.

  • Come è possibile, nella prospettiva platonica, esposta nel dialogo Sofista, aggirare questo divieto e parlare del “non essere”?

Bisogna intendere il “non essere” qualcosa come l’”essere altro” o “diverso” da qualcosa. Il paradosso è che “non essere qualcosa” è sempre un modo di “essere qualcosa” (mentre “non essere bianco” non è un modo di “essere bianco”).

Per distinguere ciascun’idea (o essenza) da ciascun’altra (p.e. il “giovane” dal “vecchio”, in assoluto, al di là dei singoli “corpi” che “sembrano” passare dalla gioventù alla vecchiaia) bisogna ammettere una forma relativa di “non essere”: il “non essere” come “essere altro”. Platone, in ultima analisi, argomenta che dire che una cosa nuova non è vecchia significa dire che una cosa nuova è diversa da una cosa vecchia. Siamo sempre entro il recinto dell'(unico) essere e, quindi, della scienza.

Ciò permette a Platone di “costruire” il mondo delle idee molteplici a partire da 5 generi sommi, tra loro distinti, (essere, identico, diverso, quiete e moto) da cui deriverebbero tutte le altre idee e le “cose” sensibili che “partecipano” a tali idee.

In sintesi: Parmenide e Zenone, appoggiandosi al principio di non contraddizione, negano sia il movimento sia la molteplicità.

Platone salva la molteplicità, ma non scioglie il problema del movimento (si tratta di una sorta di illusione che riguarda i fenomeni, le cose che appaiono; non le idee, le cose che sono).

Platone, dunque, non mette radicalmente in discussione la dottrina eleatica dell’essere, che costituisce il fondamento fino ai giorni nostri del sapere scientifico. “Ciò che è” non può mutare e, fondamentalmente, è uno. Ancor oggi, per noi, una legge di natura, p.e. la legge di Newton, ha dignità scientifica perché è sempre uguale a se stessa ed è una.

D’altra parte la scienza non è scienza di una cosa sola. La scienza, come la concepiamo anche oggi, ha una pluralità di oggetti (i teoremi della geometria, le specie della biologia, le leggi della fisica ecc.), se pure ciascuno deve rimanere sempre uguale a se stesso. Platone ci aiuta a concepire come l’oggetto della scienza possa essere molteplice, pur essendo uno, articolando l’unico essere di Parmenide in una pluralità di idee o essenze o forme (ciascuna diversa dall’altra, ma tutte “essenti”), che ci consentono di distinguere una cosa dall’altra (un fiore da una montagna, ciò che è bello da ciò che è giusto, un triangolo da un cubo ecc.). Le cose che percepiamo, infatti, (i fenomeni) e che cambiano continuamente “partecipano” delle idee (sempre uguali a se stesse) in quanto queste ci consentono di riconoscerle e di denominarle (appunto un fiore, un triangolo, una cosa “bella” ecc.).

Ad esempio un medico può curare una persona che arriva in un reparto di pronto soccorso, se ha scienza di come, in generale, “funziona” un corpo umano (non il corpo di Tizio o Caio); ossia se ha scienza dell’idea di uomo (della “specie” uomo).

Tuttavia non ci basta avere scienza delle essenze delle cose per avere pienamente scienza dei fenomeni che partecipano di tali idee. Infatti, le cose che percepiamo “si muovono”. Anche se il movimento, come sostiene Zenone, fosse un’illusione, come si potrebbe dire di avere scienza p.e. astronomica se non si fosse in grado di prevedere con esattezza il moto dei pianeti? In generale, se in natura le “cose” tipicamente nascono, crescono, muoiono; si alterano nel tempo; si spostano nello spazio ecc., si può avere scienza di tali cose non solo se le si riconducono alle loro essenze o idee, ma anche se si comprendono i loro mutamenti e movimenti.

Un modo di interpretare il movimento, riconducendo anch’esso nel recinto dell’essere, ossia senza passare attraverso l’inconcepibile “non essere”, è quello introdotto da Aristotele con la distinzione tra “potenza” e “atto” (essere in potenza ed essere in atto).

di Giorgio Giacometti