Ma la filosofia non è solo necessaria e utile. Essa, in apparente contraddizione con la sua utilità, si rivela anche un’attività libera, svolta per amore della sola conoscenza, e non per conseguire obiettivi limitati. Sotto questo profilo possiamo indicarla anche come bella, come si dicono belle le cose che si fanno per se stesse e non per altro (“per bellezza”).
In questo senso nel Teeeto Platone mette in luce, attraverso una celebre descrizione di Socrate, come la filosofia sia sempre orientata alla ricerca gratuita dell’essenza delle cose e non invece alla soddisfazione di questa o quell’esigenza determinata (come è invece l’arte dell’avvocato o quella del medico).
Socrate: - [I filosofi] hanno sempre tempo libero [scholé] e compongono in pace e in ozio [scholé] i loro discorsi [..-] E non si dànno pena di fare discorsi lunghi o brevi, purché soltanto possano conseguire la verità. Gli altri [gli avvocati, i rètori ecc.], invece, parlano sempre in continua agitazione, incalzati dall’acqua della clessidra, né è loro permesso di comporre discorsi su ciò che desiderano ecc. [...] [I filosofi], fin da giovani, ignorano la via che porta alla piazza, e dove sia il tribunale, o il consiglio ecc. [...] E, tutte queste cose, [il filosofo] neppure sa di non saperle [...]. Teodoro: - Che cosa intendi dire, Socrate, con questo? Socrate: - Ciò che si dice di Talete, Teodoro, che, mentre interpretava i moti regolari delle stelle e guardava al cielo, cadde in un pozzo; e una servetta tracia, arguta e graziosa, lo prese in giro dicendogli che, mentre si sforzava di conoscere le cose del cielo, gli sfuggivano quelle che aveva davanti a sé e ai propri piedi. Lo stesso scherzo si adatta a tutti coloro che si dedicano alla filosofia. Infatti al filosofo sfugge di chi gli è vicino, o del dirimpettaio, non solo che cosa faccia, ma quasi se sia un uomo o un’altra bestia; ma che cosa sia mai l’uomo e che cosa, in base alla sua natura, gli si addica fare o patire, a differenza di tutte le altre cose, questo egli indaga e fa continui sforzi in questo senso. [...] Ebbene, un tale uomo è deriso dai più, sia perché, come pare, manifesta troppa presunzione, sia perché ignora le cose che ha tra i piedi e si trova continuamente in difficoltà. [...] Ma se egli, carissimo, solleva qualcuno in alto e questi accetta di seguirlo al di là della questione “Che ingiustizia ho commesso nei tuoi confronti e tu nei miei?”, per indagare la giustizia in se stessa e l’ingiustizia, e che cosa sia ciascuna delle due e in che cosa differiscano da tutte le altre cose o tra loro [...], ebbene se intorno a tutte queste questioni dovesse rendere ragione colui che è pusillanime, cavilloso, adatto ai tribunali, egli pagherebbe [al filosofo] il pegno. [...] Questo, Teodoro, in verità è il costume dell’uno e dell’altro: l’uno, che chiami filosofo, allevato nella vera libertà e nell’ozio [scholé], sembra un inetto e un buono a nulla se gli sono affidati compiti servili [...]; l’altro, invece, che è in grado di adempiere con precisione e velocità questi servizi, non sa “gettarsi sulla spalla destra il mantello”, come si dice degli uomini liberi, né, afferrando correttamente l’armonia delle parole, celebrare, inneggiando, la vera vita degli dei e degli uomini felici. [Platone, Teeteto, 171c-176a]
- Dunque, secondo Platone, almeno da quello che risulta da questo estratto del Teeteto, il filosofare sarebbe qualcosa da praticare per amore dello stesso filosofare, non per risolvere problemi posti dalla vita quotidiana? Non sarà che il filosofo si rifugia in questa sua attività fine a se stessa soltanto perché è incapace di competere con i “veri” professionisti, quelli che ti risolvono davvero i problemi (come appunto gli avvocati, i medici ecc.)?
Il vero filosofo è tale non per inettitudine, ma per scelta. Al riguardo quello stesso Talete, che nel racconto di Socrate fa la pessima figura di finire nel pozzo guardando le stelle (episodio che ha dato origine al tòpos o luogo comune del filosofo o scienziato distratto, con la testa tra le nuvole, inetto nelle cose concrete), avrebbe dato prova, in un’altra circostanza, di grande abilità, come racconta Aristotele:
... Queste sono tutte cose utili a chi apprezza l’attività d’affari, anche per esempio la trovata di Talete di Mileto. È questa in effetti una pensata affaristica: è vero che gliela attribuiscono per la sua sapienza, ma è cosa che vale in generale. Siccome gli rinfacciavano per via della sua povertà l’inutilità della filosofia, affermano che avendo egli capito che vi sarebbe stata una grande produzione di olive in base allo studio degli astri, quand’era ancora inverno provvistosi di poche sostanze riuscì a dar caparre per i frantoi di Mileto e di Chio, tutti quanti, prendendoli a nolo per poco visto che nessuno offriva di più. Quando poi venne il momento che erano in molti a ricercare i frantoi tutti insieme e all’improvviso, dandoli in affitto al modo che voleva lui, radunate molte sostanze giunse a mostrare che per i filosofi è facile arricchire se lo vogliono, ma non è questo ciò di cui si preoccupano. [Aristotele, Politica, A 11 1259a6]
Insomma, il filosofo, in questa versione, trascura le cose “mondane”, non perché non saprebbe occuparsene anche meglio degli altri, ma semplicemente perché avrebbe altri interessi.
È come un innamorato (della conoscenza): salta i pasti, si dimentica di dormire, trascura perfino la salute, perché ha una sola passione, per la quale rinuncerebbe a qualsiasi altra cosa. Ai più appare bizzarro (àtopos, in greco, cioè letteralmente “fuori luogo”), ma solo perché “ha la testa altrove”.
Anche Aristotele, nella Metafisica, sviluppando la già ricordata intuizione che la filosofia nasce dalla meraviglia, mette l’accento sulla necessaria libertà del filosofare.
Chi è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (ecco perché anche chi ha propensione per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose); e, quindi, se è vero che gli uomini hanno cominciato a filosofare per affrancarsi dall’ignoranza è evidente che cercavano di conoscere al solo scopo di sapere e non per qualche bisogno pratico. Quanto è accaduto lo attesta: infatti, allorché era già disponibile tutto ciò che occorreva per vivere e, perfino, per raggiungere comodità e benessere, gli uomini cominciarono a ricercare questo genere di conoscenza. È dunque, evidente che la ricerchiamo senza avere scopi estranei, ma, come diciamo libero un uomo che vive per se stesso e non è asservito ad altri, così consideriamo libera questa scienza, tra tutte: solo essa, infatti, è per se stessa. [Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b15-18]
In Aristotele, tuttavia, la libertà (non servilità) della filosofia sembra assumere un significato diverso che nel brano platonico. Essa, come appena veduto, richiede che il filosofo abbia a disposizione
tutto ciò che occorre per vivere e, perfino, per raggiungere comodità e benessere,
mentre Socrate nel Teeteto sembra sostenere un’idea di libertà più radicale, un amore del sapere incondizionato, eroico, quello che, del resto, egli stesso testimonia durante il processo concluso con la sua condanna a morte.
- Si tratta, dunque, di due prospettive inconciliabili?
Tutto sta nel chiedersi (filosoficamente) di che cosa si abbia bisogno per essere liberi (di filosofare).
Forse, per iniziare a praticare la filosofia esplicitamente (o consapevolmente) occorre davvero credere che sia necessario avere conseguito “comodità e benessere” (come suggerisce Aristotele), ossia una certa indipendenza da bisogni sentiti (o creduti) impellenti, indipendenza come quella che solo una certa sicurezza economica può elargire.
Tuttavia, la stessa filosofia, così cominciata, una volta praticata a fondo, potrebbe rivelarsi così desiderabile da farci considerare sufficiente, pur di continuare a praticarla, quanto basta per sopravvivere (l’autosufficienza o autàrkeia, predicata p.e. dai cinici, come Diogene di Sinope); e da renderci disposti perfino a morire, pur di poter continuare a praticarla, come è accaduto esemplarmente a Socrate e accadrà a tanti altri (Seneca, Zenone, Catone Uticense, Seneca, Giordano Bruno ecc.), quando morire fosse il solo modo per non essere costretti a smettere di filosofare e, così, perdere la virtù (la scienza del bene) o, qualora non si fosse certi di possedere la virtù, la possibilità di ricercare quel bene che ci manca (cioè, ancora, di filo-sofare).
Dunque i due approcci si potrebbero conciliare come segue: inizia a filosofare consapevolmente solo chi crede di dover prima soddisfare altre esigenze (necessità, bisogni) ed effettivamente le ha soddisfatte; continua a filosofare solo chi, filosofando, comprende che niente è più utile e più necessario della filosofia come ricerca del bene.
- Sì, ma Aristotele sembra considerare la filosofia ricerca della conoscenza di ogni cosa, non solo del nostro bene; di quel genere di conoscenza, cioè, (che possiamo chiamare non tanto “saggezza” quanto “sapienza”) che, conseguito, dissolverebbe la nostra ignoranza su problemi “universali”, come quelli p.e. cosmologici o astronomici, problemi la cui apparizione alla nostra mente è fonte per noi di meraviglia. Perché la filosofia intesa anche in questo senso di ricerca della sapienza (del sapere universale) dovrebbe venire praticata e, per di più, senz’altro scopo che il piacere di praticarla? Anche in questo senso la filosofia sarebbe utile o necessaria?
Per rispondere a questa domanda occorre esaminare quale sia il rapporto tra la sapienza cosmica e la saggezza pratica, entrambe oggetto della filo-sofia (ed entrambe espresse in greco col termine “sophìa“, anche se la seconda, la saggezza pratica, da Aristotele in poi viene sempre più spesso espressa in greco col termine “phrònesis“).
Consideriamo come, in generale, il problema etico (che cosa è bene o saggio fare) possa essere risolto, verosimilmente, solo se sappiamo chi siamo e, più in generale, che cos’è il mondo, tutto ciò che è qualcosa. Il problema etico rimanda, dunque, al problema antropologico (concernente l’uomo, in greco ànthropos) e al problema ontologico (concernente tutto “ciò che è”, in greco on, plurale onta).
Se, ad esempio, esistesse Dio e noi ne fossimo figli, se Dio avesse creato il mondo e ci avesse fatto a Sua immagine e somiglianza, se Gesù fosse il Figlio di Dio ed Egli stesso Dio, Egli ci indicherebbe la via per la nostra salvezza e sarebbe sensato comportarsi e agire come suggeriscono i comandamenti dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Se, tuttavia, così non fosse, fossimo soltanto animali evoluti casualmente in questo modo, corpi viventi e destinati a dissolversi nella morte, senza senso, come sembra suggerire la scienza moderna (così come le antiche dottrine epicuree), probabilmente sarebbe sensato agire diversamente: perseguire il piacere ed evitare il dolore e, a questo fine, ricercare l’amore degli altri e rifuggire il loro odio ecc.
Se fosse corretta l’interpretazione della natura offerta dai buddhisti le cose sarebbero ancora differenti e così via…
Si capisce come la ricerca filo-sofica (intesa come ricerca della sapienza, della conoscenza intorno ad ogni cosa, in particolare all’essere e all’uomo) sia per noi fondamentale, perché a seconda di come rispondiamo, anche implicitamente, alle domande filosofiche decidiamo come vivere e morire (cioè possiamo rispondere anche alla domanda etica, quella relativa al bene). E, come sappiamo, a tale ultima domanda non possiamo non rispondere, anche se volessimo evitarlo, perché, se non rispondiamo verbalmente, rispondiamo col nostro comportamento.
Insomma, per rispondere correttamente alla domanda intorno al bene dobbiamo verosimilmente rispondere alla domanda intorno all’essere. La perfetta saggezza richiede la sapienza. La filosofia come ricerca della sapienza, se questo è vero, non è meno utile e necessaria della filosofia come ricerca della saggezza.
- Così tu però mi hai solo dimostrato che la ricerca della conoscenza in generale (cioè della sapienza) è utile alla ricerca (etica) del bene (cioè della saggezza). Ma Aristotele sembra suggerire che la filosofia come ricerca della sapienza non debba soddisfare bisogni, ma debba essere praticata come alcunché di gratuito e di fine a se stesso. Se il desiderio del bene lo intendiamo come un bisogno a cui la ricerca della sapienza si asservisce, non c’è una contraddizione?
Si potrebbe ravvisare certamente una contraddizione. Dovremmo, allora, rassegnarci a distinguere il modo di intendere la filosofia di Aristotele da quello dalla tradizione che proviene da Socrate e Platone…
- Perché? Non abbiamo appena letto proprio nel Teeteto di Platone che anche secondo Socrate il filosofo si dedica soltanto alla ricerca della conoscenza (proprio come secondo Aristotele) piuttosto che a risolvere problemi di vita quotidiana (e viene per questo spesso deriso)?
In realtà, nel testo del Teeteto Socrate difende una nozione di filosofia come ricerca della conoscenza (delle essenze delle cose, p.e. della giustizia ecc.) libera da condizionamenti. Tuttavia, egli sembra intendere semplicemente che tale ricerca non debba essere piegata a fini diversi da quelli che essa stessa possa darsi (come sarebbe se essa si piegasse, come la retorica impiegata dagli avvocati in tribunale, a fini ingiusti, p.e. a far assolvere imputati magari colpevoli dei reati che sono loro ascritti). Ma tra i fini che la filosofia in senso socratico-platonico senz’altro si pone, anzi il fine supremo è proprio la ricerca della conoscenza del bene. Dunque, in questa prospettiva, non c’è contraddizione tra ricercare gratuitamente la conoscenza in generale e ricercare che cosa sia il bene, perché il bene non è altro che l’oggetto principale della ricerca (anche se, come vedremo meglio, per Socrate e Platone non si tratta mai del bene del corpo, dunque della soddisfazione di un bisogno in senso stretto, soggettivo, “egoistico”, ma si tratta sempre del bene in generale, comune, alla conoscenza del quale l’individuo aspira in quanto ha un’anima).
Aristotele, invece, non sembra considerare il bene l’oggetto principale della ricerca filosofica come ricerca della sapienza. Tuttavia, non è così scontato che la filosofia come ricerca del bene, quale senz’altro la concepiscono Socrate e Platone, sia incompatibile con la filosofia come gratuita ricerca della conoscenza per amore della conoscenza in generale, così come la intende Aristotele. Nella prospettiva di Aristotele, infatti, il fatto che il filosofare (come ricerca della sapienza) non possa essere “piegato”, asservito a fini diversi dalla conoscenza, non comporta che esso non sia utile alla ricerca del bene. Almeno indirettamente.
In generale, vi sono numerose attività che, fatte per il solo piacere di farle, si rivelano utili.
Giocare a giochi che impegnano la mente sviluppa la nostra intelligenza, anche se chi gioca desidera solo divertirsi. Chi cerca di essere felice, come sostiene ancora Aristotele, non lo fa per altri scopi che per essere felice: eppure una persona felice sarà un miglior padre, professore, marito, amico, collaboratore di una persona infelice (dunque l’essere felice gli sarà “utile” p.e. a piacere agli altri o a fare meglio il proprio lavoro). E gli esempi si potrebbero moltiplicare…
In tutti questi casi opera un’eterogenesi dei fini. Ciò che qualcuno fa per conseguire un determinato scopo, si rivela mezzo (involontario) per il conseguimento di altri fini.
- E nel caso del filosofare, in prospettiva aristotelica, quale potrebbe essere il secondo fine che si potrebbe conseguire, pur senza ricercarlo espressamente?
La stessa felicità o, appunto, il nostro bene (che Aristotele individua proprio nella felicità). Come abbiamo osservato, se so che cos’è il mondo e chi sono io, mi trovo nelle migliori condizioni per comprendere quale sia il bene che posso perseguire (la cosa migliore che posso fare nella vita). La risposta alla domanda ontologica e quella alla domanda antropologica mi permettono di rispondere alla domanda etica, anche se io non mi pongo consapevolmente tale domanda e, dunque, non intendo piegare strumentalmente la ricerca della sapienza (della conoscenza per amore della conoscenza) alla ricerca del (mio) bene.
Sotto questo profilo la filosofia, oltre che necessaria, utile e bella, potrebbe essere considerata “feconda“.
- Che cosa intendi?
Possiamo chiamare feconde quelle attività che, piacevoli in se stesse, ci consentono anche di conseguire altri fini (insomma nelle quali si uniscono l’utile e il dilettevole).
Per chi ama lo studio, ad esempio, il piacere di imparare cose nuove si coniuga alle competenze che egli via via acquisisce e che potrebbero favorirgli l’entrata nel mondo del lavoro. Chi si innamora di una persona capace di dargli subito grandi gioie e piaceri potrebbe aver fatto davvero un buon affare se questa stessa persona fosse anche piena risorse, economiche o spirituali, che nel tempo potrebbero dare ulteriori frutti. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Poiché la vita è breve appare abbastanza saggio cercare una strada nella quale praticare attività il più possibile feconde. La filosofia, che ci suggerisce proprio questo, potrebbe essere una di queste attività, forse la più feconda.
Considera poi, da ultimo, un curioso (fecondo!) cortocircuito logico in cui la filosofia greca (e in particolare quella di Aristotele) sembra incorrere: proprio rispondendo a domande filosofiche puramente “sapienziali” (di ordine ontologico e, in particolare, antropologico), Aristotele (come molti altri filosofi greci) ha concluso che l’uomo (quell’animale che anche noi, su ispirazione proprio dei Greci, chiamiamo homo sapiens), come vedremo meglio trattando delle “virtù razionali” o “intellettuali”, “si realizza” pienamente proprio attraverso la conoscenza in generale (non solo etica, cioè non solo la conoscenza riguardante la saggezza e il bene). L’uomo sarebbe nato per conoscere, conoscere sarebbe la sua vocazione o, come si esprimevano gli antichi, la sua suprema virtù.
Se questo fosse vero, la filosofia come ricerca della sapienza (come ricerca scientifica in generale) non sarebbe solo utile in quanto strumentale (benché indirettamente, essendo praticata per amore di se stessa) alla ricerca del bene, ma coinciderebbe essa stessa col massimo bene a cui possiamo aspirare come esseri umani.
In particolare, se ha ragione Aristotele a ritenere che “siamo nati per conoscere”, allora chi realizza quello per cui è nato realizza se stesso: voleva solo conoscere, ma consegue, senza averla ricercata (opera sempre un’eterogenesi dei fini), la felicità.
Insomma, – ecco il cortocircuito logico – quel bene che indirettamente ricerchiamo ricercando ogni altra conoscenza consisterebbe nella ricerca stessa.
N. B. Ciò si può dire anche dell’approccio di Socrate, secondo il quale, non conoscendo il bene, il filosofo non può fare di meglio che ricercarlo, a costo di morire. Cioè: il massimo bene in condizioni di ignoranza consisterebbe nella ricerca del bene. Tuttavia, in Aristotele come probabilmente in Platone, la ricerca del bene o piuttosto: la ricerca della conoscenza in generale (della sapienza) costituisce il massimo bene perché realizza la nostra suprema virtù, la nostra essenza “intellettuale” (o, come si può anche intendere, “spirituale”). In Socrate si tratta di “saggezza umana”, in Platone e Aristotele di “sapienza divina”.
Il cortocircuito logico (nella versione di Platone e Aristotele, non in quella di Socrate) presuppone, tuttavia, un’antropologia (cioè una teoria intorno all’uomo) decisamente ottimistica, di origine pitagorica, tutta da verificare e di cui dovremo più oltre discutere.
(In estrema sintesi, nella versione soprattutto di Platone, l’ipotesi sarebbe che noi siamo essenzialmente la nostra anima, anzi il nostro intelletto e che, dunque, quanto più lo esercitiamo, a “imitazione degli dèi”, tanto più “torniamo a casa”, abbandonando metaforicamente – o anche letteralmente – il nostro corpo, sorta di “prigione” in cui saremmo decaduti e imbrigliati…).
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