Che significa essere cattolici?

Che significa essere cattolici?

N. B. Le considerazioni che seguono sono elaborate non da un teologo di professione, ma da un filosofo, e sono svolte in una prospettiva filosofica. Non verranno perciò prese in considerazione tutte le fonti scritturali e magisteriali pertinenti al tema,  ma ci si limiterà a poche considerazioni epistemologiche generali. Tuttavia, deve essere ben possibile a un semplice credente, relativamente digiuno di studi teologici, esplicitare e giustificare a se stesso il senso del suo essere cattolico, per confermarsi di essere tale (o per scoprire di non esserlo affatto).  Altrimenti sarebbero con certezza cattolici soltanto i teologi in grado di dimostrare a se stessi e agli altri analiticamente i fondamenti dottrinali della propria fede. Si dirà che il credente “ingenuo”, a differenza del “filosofo” (portato a gettare il seme del dubbio dove altri vivono le certezze consolanti della fede), non ha bisogno di esplicitare e giustificare alcunché, poiché, se vuole essere certo di essere “cattolico”, può limitarsi a recitare, durante la messa, il Credo niceno-costantinopolitano e ad assentire all’omelia del sacerdote.  Ma recitare il Credo non significa comprenderlo. D’altra parte, se fosse vero, come sostengono  i cosiddetti cattolici tradizionalisti (le cui tesi, peraltro, proverò a confutare in questo contributo), che la Chiesa è precipitata in una grande confusione dottrinale, non si potrebbe essere mai certi che il sacerdote che pronuncia l’omelia sia in linea con l’autentica dottrina cattolica.  Dunque, a quanto pare, siamo tutti chiamati a uno sforzo di discernimento senza precedenti.

1. La prospettiva “tradizionalista”

I cattolici tradizionalisti hanno senz’altro il merito di costringere chi si crede cattolico a un profondo esame di coscienza auto-critico.

I tradizionalisti partono per lo più dal presupposto che il cattolico debba osservare letteralmente tutto ciò che è richiesto per essere e dirsi tale, e in particolare che debba credere a quanto è proposto dalle Scritture e dal Magistero della Chiesa, senza concessioni a pretese “evoluzioni” della dottrina.

In particolare la loro tesi è che l’evoluzione possa riguardare solo l’esplicitazione di una dottrina in se medesima immutabile, un’esplicitazione che non può mai, tuttavia, incorrere in contraddizioni.

Il prof. Paolo Pasqualucci, ad esempio, in Crisi della Chiesa: la vera nozione delle “buone opere”, contro l’eresia luterana di Papa Francesco saggio che risponde a una mia breve nota sulle condizioni di possibilità (per Pasqualucci – si direbbe –  inesistenti) dell’ecumenismo, afferma (al § 10 del suo contributo) che

le verità di fede sulla fede e sui costumi solennemente definite in un Concilio dogmatico come il Tridentino, non possono esser modificate.

Ora, molti sedicenti, anzi “se-credenti”, cattolici, se avessero ragione i tradizionalisti, dovrebbero seriamente dubitare della sincerità e della verità della loro appartenenza alla Chiesa, ogni qual volta si imbattessero in casi nei quali le loro più intime convinzioni morali e intellettuali (in cui si esprime la loro individuale coscienzaapparissero in contrasto con gli insegnamenti della Chiesa, quali sono esposti e compendiati, ad esempio, nell’attuale Catechismo della Chiesa cattolica.

D’altra parte, alcuni imputano ai tradizionalisti un eccesso di “legalismo” sempre a rischio di sfociare nel farisaismo

(con la differenza – preciserei – che il legalismo è facilmente verificabile, mentre il farisaismo, implicando una forma di ipocrisia, ossia la mancata adesione del “cuore” alle leggi che si professano e si osservano esteriormente, può essere verificato solo dal Signore, che “conosce il cuore degli uomini”, cfr. Lc, 9, 47).

Lo stesso Papa regnante, Francesco, nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultateattribuisce a taluni membri della Chiesa (cfr. §§ 57-59), ossessionati dalla legge e dalla cura per la liturgia e per la dottrina (verosimilmente i “tradizionalisti”), un “nuovo pelagianesimo”.

Ora, se avessero ragione i tradizionalisti, molti, perplessi circa questa o quella dottrina della Chiesa, dovrebbero rinunciare semplicemente a dirsi cattolici. Se, invece, i tradizionalisti avessero torto, a certe condizioni si potrebbe legittimamente dirsi cattolici senza accogliere le loro tesi.

Urge, dunque, domandarsi fino a che punto l’osservanza di tutto quello che la Chiesa letteralmente insegna e, soprattutto, ha insegnato negli ultimi due millenni sia richiesta per potersi dire “cattolici”.

2. Il ruolo dello Spirito Santo

Partiamo da una circostanza spesso sottaciuta dai tradizionalisti. Non vi è alcuna necessità di essere cattolici. Per quanto, infatti,  gli articoli della fede cattolica siano ragionevoli (come argomentava San Tommaso e come illustra lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, cfr. art. 156: “l’ossequio della nostra fede [è] conforme alla ragione”), essi non sono dimostrabili (salvo i cosiddetti praeambula fidei – come p.e. la credenza nell’esistenza di Dio – a cui , se ha ragione San Tommaso, tutti dovremmo ragionevolmente assentire – cfr. anche l’art. 36 del Catechismo appena evocato -, senza, tuttavia, con questo, essere più cristiani, che musulmani o deisti).

Questa circostanza ha conseguenze importanti, a loro volta spesso sottaciute dai cattolici tradizionalisti. Ad esempio non si capisce perché uno Stato dovrebbe ispirare la sua legislazione alla dottrina cattolica in materia di matrimonio, aborto, contraccezione ecc., se la dottrina cattolica non è intrinsecamente più dimostrabile di altre (in particolare non è più, ma anzi meno dimostrabile delle acquisizioni della scienza moderna). Gli argomenti, infatti, che i cattolici, tradizionalisti o meno, adducono per difendere le loro posizioni in questi campi sono tratti giustamente non dalla rivelazione, bensì dalla cosiddetta “ragione naturale”, ossia sono argomenti di carattere filosofico (fondamentalmente tratti dalla concezione antica, aristotelica, in particolare, della natura, umana e cosmica).

Ma l’adesione alla prospettiva specificamente cattolica, in altre parole alla fede cattolica, in quanto eccede la ragione, deve essere motivata da una fonte diversa dalla ragione (cfr. sempre l’art. 156 del Catechismo: “il motivo di credere non consiste nel fatto che le verità rivelate appaiano come vere e  intelligibili alla luce della nostra ragione naturale”). Se questo è vero, questa fede deve essere proposta (non certo imposta) con estrema delicatezza e umiltà, dal momento che non si può dimostrare che sia giusta; a maggior ragione quando la si contrappone  a quella delle altre denominazioni cristiane (che condividono con la prospettiva cattolica l’indimostrabilità dei loro assunti).

La questione qui è quella dell’onus probandi, dell’onere della prova. Spetta al cattolico convincere e convertire alla propria fede, rendendola persuasiva, non al miscredente giustificarsi.

Ciò che decide, in ultima istanza, dell’adesione o meno alla prospettiva cattolica non può che essere la mia coscienza; non perché la coscienza sia infallibile, ma per la semplice ragione che non possiamo “uscire da noi stessi” e chi deve aderire o non aderire a una dottrina resta necessariamente il soggetto di questa scelta.

Si potrebbe pensare, a questo punto, che, aderito che si abbia, una volta per tutte, alla prospettiva cattolica, si debbano fare letteralmente proprie tutte le indicazioni del Magistero,  come suggerito dai tradizionalisti. Ma quella medesima coscienza che mi ha condotto all’adesione alla Chiesa e alla fede cattolica (cioè a riconoscere, attraverso il Magistero e le Scritture, la parola di Dio) potrebbe sempre farmi dubitare di ciò a cui ho creduto di aderire.

Ad esempio, se ho aderito alla prospettiva cattolica piuttosto p.e. che a quella protestante od ortodossa, sulla base di questa o quella dottrina cattolica che mi appare più convincente di quelle di altre “denominazioni” cristiane, lo stesso criterio che mi ha portato all’adesione potrebbe finire per portarmi ad allontanarmi dalla prospettiva cattolica, qualora mi imbattessi in tesi sostenute autorevolmente dal Magistero cattolico che giudicassi inverosimili.

Né può essere invocato il seguente argomento: “La tua adesione dovrebbe essere basata non sull’assenso della tua ragione a singole dottrine, ma su un assenso dato una volta per tutte all’ipotesi che la Chiesa cattolica e solo essa sia depositaria della parola di Dio”. Infatti, anche questa tesi (cioè che si debba credere una volta per tutte che la Chiesa cattolica e solo essa sia depositaria della parola di Dio) è una dottrina cattolica alla quale si potrebbe ritirare l’assenso qualora altre dottrine proposte dal Magistero cattolico ci apparissero inverosimili e ci facessero quindi dubitare della dottrina in questione.

Stabilito questo “primato della coscienza” (che sembra in contraddizione con quanto richiede p.e. l’enciclica Veritatis splendor di San Giovanni Paolo II, se non fosse che la mia stessa adesione alla dottrina ivi professata non può che, di nuovo, dipendere dal fatto che, in coscienza, essa mi sembri più o meno convincente di quella esposta in altri documenti, magisteriali e non) e supposto che si aderisca alla dottrina cattolica nel suo insieme, a che cosa esattamente si aderisce?

All’interpretazione che si dà (e non sarebbe possibile altrimenti) delle parole con cui si esprime la dottrina elaborata nei secoli dalla Chiesa e compendiata nel Catechismo. Tale interpretazione deve essere tale da preservare sempre di nuovo la coerenza, l’attendibilità e la verosimiglianza di tale dottrina per la coscienza dell’interprete, che vi aderisce (non dimentichiamolo) liberamente.

Ora questo che cosa comporta? Che spesso si debbano sacrificare la comprensione e l’osservanza letterale delle determinazioni tanto scritturali quanto magisteriali, auspicata dai tradizionalisti.

Consideriamo ad esempio la seguente difficoltà. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, a proposito del senso letterale della Scrittura, afferma che questo significato “insegna i fatti” (art. 118).  Il senso letterale sarebbe, inoltre, il fondamento degli altri sensi (cfr.  art. 116). Ciò sembrerebbe suggerire che il credente debba intendere come storicamente accaduto tutto ciò che è narrato nella Scrittura, attribuendogli soltanto, in sovrappiù, ulteriori sensi spirituali (quello allegorico, quello morale e quello anagogico). Ma, se la Scrittura, in quanto parola di Dio, nel suo significato letterale, dovesse  essere sempre considerata come vera, dovremmo credere che il mondo sia stato creato qualche migliaio di anni fa (come risulterebbe dal computo delle generazioni umane a cui si fa a più riprese riferimento nella Bibbia). Come potrei ammettere una cosa così inverosimile?  Dovrei considerare falsi i pronunciamenti magisteriali compendiati nel Catechismo. Ma questo sarebbe incompatibile con il presupposto dell’inerranza del Magistero.

Il solo modo ragionevole che oggi abbiamo di “salvare” la verità tanto della parola di Dio, così come è riportata nelle Scritture, quanto del Magistero della Chiesa, che a sua volta si esprime in forma scritta (dunque strutturalmente ambigua, come ci ha insegnato una volta per sempre Platone nel Fedro), è che si intendano entrambi non “alla lettera”, ma “secondo lo Spirito”.

E, infatti, data l’insufficienza della ragione a dimostrare il fondamento della fede, a quale altra fonte possiamo attingere? Allo Spirito Santo.

Per la precisione:

  1. allo Spirito dobbiamo, originariamente, l’adesione alla prospettiva cattolica  (cfr. il Catechismo art.  152: “è lo Spirito Santo che rivela agli uomini chi è Gesù”) (adesione che non può essere stata motivata, come abbiamo osservato, dalla dimostrabilità della dottrina cattolica);
  2. lo Spirito guida l’interpretazione delle Scritture (cfr. art. 111 del Catechismo della Chiesa cattolica: “La Sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta”, in quanto “parola di Dio […] messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo”, cfr. art. 81).

Sarà dunque lo Spirito, alla luce del quale intendiamo le Scritture (2), quello stesso a cui dobbiamo continuare a rivolgerci per intendere (interpretare) quella dottrina cattolica che lo Spirito stesso, originariamente, ci ha persuaso ad accogliere (1).

Lo Spirito, dunque, è sempre logicamente sovraordinato tanto al Magistero, quanto alle Scritture; non foss’altro perché ce li fa originariamente accogliere e, contestualmente e inestricabilmente, intendere (così come, se il Magistero dovesse insegnare cose inverosimili, ce ne potrebbe far allontanare).

È sempre lo Spirito, insomma, a richiedere che si interpreti tanto le Scritture quanto il Magistero (a cui dobbiamo certamente dare ascolto – “oboedire” – , se ci proclamiamo “cattolici”) in un modo coerente e compatibile con la ragione e con l’esperienza (dal momento che lo Spirito non può certo prescrivere una fede contra rationem, ma, semmai, supra rationem sed non praeter rationem, come avrebbe detto Riccardo di San Vittore, cfr. De gratia contemplatonis, IV, 11).

3. La funzione ineludibile del Magistero

Per comprendere meglio questa prospettiva esaminiamo il processo di avvicinamento di un non credente alla fede cattolica.

In primo luogo potrebbe accadere, come accadde a Sant’Agostino, di venire toccati dalla lettura dei Vangeli, quasi che essi facessero risuonare qualcosa di molto profondo nel nostro cuore, esercitando una sorta di “maieutica” socratica a distanza di millenni. Vi deve essere quindi una sorta di mutuo riconoscimento tra Cristo, come è presentato nei Vangeli, e il lettore: il lettore deve riconoscere che Cristo parla in lui stesso di lui stesso come se Egli lo riconoscesse e si facesse da lui riconoscere come fonte di ogni verità (niente di così folle, se consideriamo, con Giustino martire – cfr. Seconda apologiacap. 13, §§ 3-6 e passim – e, prima ancora, con Giovanni l’Evangelista – cfr. Gv 1,1 -, che Cristo non sarebbe altri che l’eterno Lògos, che avrebbe parlato non solo attraverso i profeti ebraici, ma anche attraverso i filosofi greci ovvero la “sapienza pagana”).

Nasce a questo punto un doppio problema:

  1. Come intendere la parola di Dio dal momento che essa è presentata in forma scritta, dunque, come già osservato, costitutivamente ambigua?
  2. Come risalire alla parola originaria di Cristo che potrebbe avere dato origine a una Tradizione orale parallela a quella che ha dato origine al canone delle Sacre Scritture (cfr. l’art. 76 e ss, del citato Catechismo)?

In effetti il doppio problema si risolve attingendo al Magistero della Chiesa (cfr. art. 85 e ss, del Catechismo) che si suppone ispirato dallo Spirito Santo (cfr. art. 111 del Catechismo): tale ricorso, vincolante per cattolici e ortodossi, appare ineludibile, per la seguente catena di ragioni.

Le Scritture, prese alla lettera, presentano apparenti contraddizioni e incongruenze.

Alcuni passi sembrano contraddirne altri: ad esempio secondo Genesi1, 20-26 prima furono creati gli animali e poi l’uomo, mentre secondo Genesi2, 1-19 prima venne creato l’uomo e poi gli animali.

In diversi passi dell’Antico Testamento Dio viene dipinto, antropomorficamente, come animato da “ira”, “gelosia” ecc., dotato di “mani” ecc., cosa che ripugna a una più elevata e “filosofica” comprensione di Dio, come spirituale, impassibile ecc., come rilevò Galileo nelle celebre Lettera a Benedetto Castelli.

Se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future [Galileo Galileo, Lettera a Benedetto Castelli, in Lettere, p. 54]

Come già accennato, la Bibbia presenta un mondo che sarebbe stato creato non prima di qualche migliaio di anni fa, verosimilmente geocentrico, anzi “piatto” ecc., tutte cose che nessuna persona ragionevole oggi si sognerebbe di credere (perché incongruenti con l’esperienza umana, arricchita nei secoli dal contributo delle ricerca scientifica).

Per risolvere queste contraddizioni e venire a capo di tali incongruenze, come ci ha insegnato Origene, hanno ribadito tanti Padri e, da ultimo, ricorda lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. art. 115 e ss.), le Scritture devono venire interpretate spesso in senso spirituale, assumendo che siano state scritte in forma simbolica.

Origene, in particolare, ha chiarito che

la parola di Dio ha fatto in modo che sia nella legge sia nei racconti storici venissero inseriti passi di argomento inverosimile o atto a suscitare scandalo e difficoltà, [inoltre] la Scrittura ha inserito fra i fatti storici particolari non reali [e] a volte infine vengono imposte prescrizioni inattuabili, affinché i più solerti e più portati all’indagine si dedichino all’esame di ciò ch’è scritto e si convincano che in simili casi si deve ricercare un senso degno di Dio.
[I Principi,  E, 9]

Poiché, tuttavia, tali interpretazioni “allegoriche”, se lasciate al “libero esame” dei credenti, tendono a produrre divergenze, bisogna appellarsi da ultimo a un “principio di autorità” incarnato nelle definizioni dogmatiche dei concili e, per i cattolici, nei pronunciamenti ex  cathedra del Papa, oltre che nel cosiddetto “Magistero ordinario” della Chiesa.

Tale appello al Magistero è coerente anche con l’ipotesi di una rivelazione orale che Cristo avrebbe fatto ai suoi Apostoli e che questi avrebbero trasmesso ai loro successori, anche in modo implicito o sacramentale, p.e. attraverso il gesto dell’imposizione delle mani e della consacrazione dei nuovi vescovi; donde la rilevanza della “successione apostolica”, interrotta nelle chiese protestanti, e, più in generale, della cosiddetta Tradizione.

Le considerazioni finora svolte sembrerebbero dare ragione alla prospettiva dei cattolici tradizionalisti: la verità non può che essere sempre la stessa, quella esposta nei concili ecumenici della Chiesa e precisata dal Magistero cattolico; nei secoli la sua evoluzione non può che essere consistita nella sua esplicitazione, tale da non incorrere mai in contraddizioni con quanto emerso in precedenza (p. e. nei pronunciamenti antecedenti del Magistero).

4. La coerenza della dottrina cattolica non può essere meramente formale…

Il problema, sollevato già nel XII sec. da Pietro Abelardo e, ovviamente, enfatizzato dai protestanti, è, però, che nei secoli lo stesso Magistero è apparso contraddirsi.

Cfr. le prime parole del Prologo del trattato Sic et non di Abelardo:

Giacché [...] anche le affermazioni dei santi non solo sembrano diverse le une dalle altre, ma anche opposte le une alle altre, non bisogna essere affrettati nel giudicare.

Ad esempio nel IV sec. il pelagianesimo, condannato da Agostino, ma “sdoganato” dai sinodi di Gerusalemme e Diospolis (415) e da papa Zosimo, fu poi definitivamente condannato dal concilio di Cartagine. Si dirà che si è trattato di un incidente di percorso, da cui la retta dottrina è uscita rafforzata, ma resta il fatto che in un determinato momento un sinodo e un Papa si pronunciarono errando a favore di una dottrina successivamente dichiarata eretica. Come possiamo dunque credere che il Magistero sia sempre infallibile?

Ancora più chiaramente durante lo scisma d’Occidente (1387-1417) si registrò la presenza di due e perfino tre papi contemporaneamente, ciascuno dei quali affermava che gli altri fossero antipapi (e già questa situazione pone qualche problema ai sostenitori del principio di autorità senza se e senza ma). Ma c’è di più. Lo scisma fu composto nel concilio di Costanza (1414-18) al termine del quale fu solennemente proclamata la dottrina “conciliarista” secondo la quale, in caso di controversia, il concilio avrebbe esercitato un’autorità superiore a quella del Papa.

Il santo sinodo di Costanza [...] dichiara di essersi riunito legittimamente di propria iniziative, alla luce dello Spirito Santo, dando vita a un concilio generale e rappresentativo della Chiesa e di aver ricevuto direttamente da Cristo il potere a cui ciascuno deve obbedire, qualunque sia il suo grado, fosse anche il papa stesso [seguono prescrizioni sull'obbligatoria frequente convocazione di concili generali equipollenti].
[cit. in C. Ehler, L. Morral, Chiesa  e Stato attraverso i secoli, Vita e Pensiero, Milano 1953]

Tale dottrina, come è noto, fu successivamente sconfessata dai Papi della seconda metà del Quattrocento. Ma resta il fatto che essa era stata solennemente proclamata da un concilio e riconosciuta anche dal Papa che ne era stato eletto, Martino V, nonché tenuta per valida per diversi decenni (da insigni personalità tra i quali, per esempio, Niccolò Cusano).

Si potrebbe tentare di sostenere che in casi come questi la dottrina che va considerata come autenticamente propria del Magistero e che, come tale, va tenuta per “certamente vera” sia quella che alla fine ha prevalso, secondo i disegni dello Spirito Santo. Ma, se questo fosse vero, allora sarebbero “certamente vere” le indicazioni del Concilio Vaticano II, “bestia nera” dei cattolici tradizionalisti, nonché quelle contenute nelle esortazioni apostoliche di Papa Francesco; esse sarebbero, se possibile, “più vere” di quelle che le hanno rispettivamente precedute. Ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia di Papa Francesco del 2016 “riformerebbe” sotto diversi aspetti la Familiaris consortio di Papa Giovanni Paolo II del 1981.

Certo, si potrebbe distinguere tra i dogmi solennemente proclamati da concili e Papi e le indicazioni “pastorali” provenienti da consessi meno autorevoli (sinodi locali, conferenze episcopali ecc.) o anche da concili e Papi, che, tuttavia, non abbiano inteso stabilire nuovi dogmi (è stato il caso del Concilio Vaticano II, come concilio incaricato di compiti puramente pastorali, o è il caso dei pronunciamenti del Papa effettuati non ex cathedra).

Se tale distinzione tenesse, tuttavia, non vi potrebbe essere alcuna contraddizione apparente tra la dottrina insegnata dal Concilio di Trento e le indicazioni “pastorali” del Concilio Vaticano II, come invece lamentano i cattolici tradizionalisti che, di fatto, prendono come “dottrinalmente errati” – o, quanto meno, confusivi e forieri di successivi errori – determinati insegnamenti del Vaticano II (conferendo loro, dunque, implicitamente valore dottrinale).

Inoltre si dà almeno un caso certo di “conflitto dottrinale (apparentemente) insanabile”, quello tra il già evocato concilio di Costanza (1414-18) e il concilio di Trento (1545-63), di pari valore, entrambi “universali” (se si prescinde dall’assenza degli “ortodossi”, che, tuttavia, se fosse considerata dirimente, annullerebbe la validità di tutti i pronunciamenti “solo-cattolici” successivi al 1054, data dello scisma d’Oriente). Questi due concili, infatti, (Costanza e Trento) a distanza di poco più di un secolo l’uno dall’altro, si sono pronunciati in modo (apparentemente) reciprocamente contraddittorio rispetto alla questione (si direbbe: “meta-dottrinale”) del primato dottrinale del concilio o del Papa.

In generale, i cattolici tradizionalisti sembrano supporre che la “dottrina della Chiesa” sia un “monòlito” incontraddittorio, che sarebbe stato “scheggiato” o, finanche, “sfigurato” in tempi recenti, col prevalere di istanze “modernistiche”. Ma le cose non stanno affatto così.

Si potrebbero evocare tensioni dottrinali molto antiche.

Si può, ad esempio, ricordare la disputa del Filioque che oppose a lungo chiesa occidentale e chiese orientali. Quale “tradizione” giustifica l’adozione, da parte cattolica, della formula in questione nel Credo, rifiutata ancor oggi dai cristiani “ortodossi”, in quanto ingiustificata “innovazione” (si direbbe “proto-modernista”)? Per tacere dei dogmi dell’infallibilità del Papa, dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione di Maria, definiti autonomamente dalla Chiesa cattolica, ma non riconosciuti dai fratelli orientali. Perché non li si dovrebbero considerare innovazioni “umane troppo umane”, che rompono con la “Tradizione”, ma li si considera, da parte dei cattolici tradizionalisti, parte del depositum fidei?

O si può evocare la rottura, rispetto alla tradizionale interpretazione tendenzialmente neoplatonica (da parte di Giustino, Origene, Clemente Alessandrino, i padri cappadoci, lo Pseudo-Dionigi ecc.) del messaggio evangelico e scritturale, che si ebbe con l’introduzione, in teologia, delle dottrine del pagano Aristotele, tra il XII e il XIII sec.; rottura che portò, ad esempio, alla condanna di numerose proposizioni del “novatore” aristotelizzante San Tommaso d’Aquino (oggi considerato massimo dottore della Chiesa cattolica) da parte del vescovo di Parigi Stefano Tempier nel 1277 (condanna che costituisce, dunque, un pronunciamento magisteriale).

Se tali riferimenti non bastassero, registriamo un’illuminante circostanza: non vi è accordo tra gli stessi tradizionalisti sul “punto di rottura” della (presunta) “tradizione” (una tradizione, come si sarà capito, abbastanza “recente”, sostanzialmente risalente al Concilio di Trento).

Si va, infatti, da chi, come certi cosiddetti “sedevacantisti”, tenta di argomentare l’invalidità dell’elezione di Papa Giovanni XXIII, che dunque non sarebbe stato un vero Papa, a chi si limita a rifiutare di assegnare pieno valore dottrinale alle indicazioni del Concilio Vaticano II; da chi, viceversa, accoglie formalmente le indicazioni del Concilio Vaticano II, adottando, tuttavia, una peculiare “ermeneutica della continuità” (vedi oltre) che le “schiaccia” totalmente sulle determinazioni del Concilio di Trento, a chi si limita a lamentare  certe derive “interpretative” del Vaticano II ad opera di taluni movimenti di base; da chi si limita a plaudere al Magistero dei Papi “conservatori” Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, contrapponendolo a quello di Papa Francesco, a chi, come Antonio Socci, tenta di argomentare l’invalidità dell’elezione dello stesso Papa Francesco (ma non, p.e., di quella di Giovanni XXIII).

Come si vede, dunque, nel momento in cui si rifiuta l’obbedienza al Papa regnante, sulla base di argomenti dottrinali, non si può non interpretare. Il paradosso, però, è che proprio per evitare il proliferare di tali libere interpretazioni si era costituita la Chiesa gerarchica e, soprattutto, si era affermato il primato di Pietro (messo in dubbio dai tradizionalisti nel caso di Papa Francesco, se non anche di Papa Giovanni XXIII)!

5. … ma deve avere carattere spirituale

Insomma delle due l’una: o nei secoli si è assistito a effettive “riforme” della Chiesa da parte dello stesso Magistero, nel senso di correzioni, ispirate dallo Spirito Santo, di precedenti errori del Magistero (e, allora, nulla impedirebbe che il Concilio Vaticano II, ad onta dei suoi compiti apparentemente solo pastorali, possa essere interpretato come una “riforma” del Concilio di Trento, sotto il profilo strettamente dottrinale, ispirata dal cosiddetto “modernismo”); oppure, come appare senz’altro più convincente, si deve ammettere quanto segue: effettivamente non si devono e non si possono registrare contraddizioni negli insegnamenti della Chiesa, così come nella stessa parola di Dio proposta nelle Scritture; ma ciò è possibile a una sola condizione: che tanto i pronunciamenti del Magistero quanto le Scritture vengano interpretati non alla lettera (cioè nel senso più ovvio che tali testi sembrano restituire, rispetto al quale sarebbe appunto difficile non rilevare l’emergere, nel tempo, a volte negli stessi testi, di contraddizioni), ma secondo uno Spirito che, sempre di nuovo, adesso, si rivela.

Ad esempio, come abbiamo visto sopra, l’attuale Catechismo, distillato del Magistero, insegna che si debba prendere per vero il senso letterale delle Scritture, il quale “insegna i fatti“(art. 118). Ma lo stesso Catechismo richiede che tale senso letterale venga “trovato attraverso l’esegesi che segue le regole della retta interpretazione” (art. 116). Verosimilmente qui si allude al fatto che gli autori sacri avrebbero adottato, nello scrivere, lo stile adeguato al genere letterario proprio del testo a volta a volta prodotto. Con questo escamotage, dunque, si autorizza a non prendere “alla lettera” certi racconti, nel senso che oggi saremmo inclini a conferire a quest’espressione (cioè come se raccontassero fatti realmente o storicamente svoltisi così come sono raccontati).

Di fatto, dunque, è come se il Catechismo, per conciliare una tradizione interpretativa non mai messa in discussione e le moderne esigenze di verosimiglianza storica, suggerisse di intendere la stessa nozione di “interpretazione letterale” del testo sacro, obbligatoria secondo i dettami secolari del Magistero,…. in senso spirituale (metaforico)!

N. B. La prospettiva ermeneutica qui presentata, nel segno dello Spirito, non è un cedimento al modernismo, come si potrebbe credere, e ne differisce profondamente, per la seguente ragione. Le dottrine più recenti non sono necessariamente più attendibili, prese alla lettera, di quelle più antiche: in particolare, su diverse questioni (in campo bioetico, eucaristico ecc.) potrebbero avere senz’altro ragione i conservatori rispetto ai progressisti. Ma la ragione di ciò non starebbe nella pretesa dei conservatori di appoggiarsi a un Magistero concepito come letteralmente immutabile, bensì nella maggior ragionevolezza e persuasività della loro interpretazione (sostenuta, magari, come è il caso di molte dottrine bioetiche, da considerazioni di tipo filosofico, fondate sovente più su argomenti del pagano Aristotele – p.e. circa la natura dell’embrione come essere umano in potenza – che su prescrizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento).

Per la verità vi sarebbe una ragione abbastanza convincente che potrebbe suggerire di non trascurare le “scoperte” della modernità. Come ciascuno di noi impara dai propri errori, cioè dall’esperienza, e, di solito, tende a non ricadervi dopo averli commessi, così si potrebbe ritenere che l’umanità nella sua storia progredisca, invece che regredire. La scienza moderna, in particolare, nel suo progresso, ha reso via via sempre meno  credibili diverse pagine delle Sacre Scritture, se ci si limita al loro significato letterale (in riferimento, per esempio, all’età della Terra o alla creazione dell’uomo e degli animali). I tradizionalisti sostengono che il “pensiero moderno”, nutrito dalle scoperte della nuova scienza, sarebbe la sentina di tutti i mali; ma manca la prova che tale pensiero sia ispirato da Satana piuttosto che, come sembrerebbe più ragionevole credere, dai progressi delle conoscenze che hanno progressivamente eroso credenze via via sempre meno sostenibili, benché ostinatamente difese, fin tanto che era possibile, da stimati teologi. Ciò non implica che il pensiero moderno sia esente da pecche (come su questo sito argomento ampiamente: la prima di tutte il suo pregiudizio meccanicistico). Tuttavia, ancora una volta, l’onere della prova circa l’errore del pensiero moderno sta in capo, mi sembra, a chi intende confutare, almeno in parte, tale pensiero (come tento di fare anch’io). Il critico della modernità, insomma, non può affatto pensare di riposare comodamente sugli allori di un Tradizione religiosa che, nella sua versione fondamentalista (cioè letteralista), è spesso ancora meno sostenibile di quel Progresso alla quale essa si contrappone.

Possiamo, insomma, senz’altro ammettere, con i tradizionalisti, che la verità, in quanto eterna, non evolva se non attraverso la sua progressiva esplicitazione. Ma bisogna intendersi su quale sia il “nucleo” che rimane immutabile, il depositum fidei. Non può trattarsi di un insieme di significati (di contenuti di pensiero, di articoli di fede) tra loro letteralmente o formalmente coerenti (se così fosse, uno studio, anche superficiale, della storia della Chiesa e dei dogmi, sviscerando le contraddizioni che ne hanno segnato le tappe e le incongruenze con l’esperienza scientifica, porterebbe rapidamente all’apostasia), ma deve trattarsi, più verosimilmente, di un mistero insondabile; diciamo, parlando per immagini (come non si può non fare): il mistero di “Cristo crocifisso [e risorto], scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (cfr. 1, Cor 1, 13, il cosiddetto kèrigma).

Se questo è vero e se, apparentemente, si registrano contraddizioni tra diversi pronunciamenti del Magistero (per tacere di quelle che si registrano tra diversi passi biblici ed evangelici), lo sforzo di cogliere, dietro l’apparente contraddizione, l’unità spirituale che vi si cela (non traducibile in “definizioni” verbali che non siano a loro volta soggette a interpretazione e fraintendimento) non ha niente a che fare con il desiderio “sofistico” o “politico” di conciliare verità immutabile e opinioni corrive della modernità allo scopo di compiacere i contemporanei, annacquando per esempio certi insegnamenti morali tradizionali. Si tratta, piuttosto, di un’esigenza assolutamente spirituale, implicata nello stesso assioma dell’immutabilità della verità. È questo assioma a richiedere quell'”ermeneutica della continuità“,  per quanto riguarda l’interpretazione delle determinazioni del Concilio Vaticano II, cara all’allora cardinale Joseph Ratzinger (e ribadita da Benedetto XVI nel suo Discorso alla curia romana del 2005),  che ha ispirato la stesura dell’attuale Catechismo della Chiesa cattolica.  Questa ermeneutica, tuttavia, non comporta (come credono alcuni tradizionalisti già evocati) la “riduzione” delle indicazioni del Concilio Vaticano II a dottrine pregresse e, in particolare, a quelle del Concilio di Trento, più di quanto non comporti l’esito opposto: si possono, ad esempio, in nome della stessa continuità, interpretare certe dottrine tridentine, apparentemente rigide e inconciliabili con l’ “eresia” luterana, come viceversa compatibili con il luteranesimo, nel segno dell’ecumenismo voluto dal Concilio Vaticano II, come si è potuto concretamente sperimentare ad es. nella Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione del 1994.

Il criterio ultimo e primo, in questa prospettiva, rimane la coerenza globale (si sarebbe tentati di dire “universale”, “cattolica”), del depositum fidei e, per estensione, del complesso dei pronunciamenti magisteriali, anche quelli che appaiono contraddirsi reciprocamente.

In un certo senso un saggio di questo esercizio ermeneutico lo ha paradossalmente offerto lo stesso prof. Pasqualucci nel già citato scritto Crisi della Chiesa: la vera nozione delle “buone opere”, contro l’eresia luterana di Papa Francesco.

Il menzionato saggio ermeneutico Pasqualucci lo offre replicando al mio commento a un suo precedente scritto (Crisi della Chiesa: l’eresia luterana di papa Francesco). In tale commento avevo avanzato, di passaggio (si trattava, in effetti, solo di un esempio di una possibile “ermeneutica concordistica” dei canoni del Concilio di Trento), un’ipotesi ardita, cioè che  il Canone sulla giustificazione n. 24  (che sostiene che la “giustificazione ricevuta” dai credenti “aumenta” in virtù delle buone opere) potesse venire inteso nel senso che tale giustificazione pre-esistesse, in un certo senso, alle opere medesime (la quali, appunto, “si limiterebbero” ad aumentarla), in accordo (involontario) con la dottrina luterana della “sola gratia” (nel senso che solo la grazia sarebbe sufficiente alla giustificazione, dal momento che le opere si limiterebbero ad aumentare una giustificazione già ricevuta). Ora, nella sua replica, il prof. Pasqualucci ha buon gioco (fino a un certo punto, per la verità, come accennerò a margine) a mostrare come la dottrina tridentina dell’aumento della giustificazione in virtù delle opere, nel suo contesto, non possa significare, come “alla lettera” parrebbe (di solito si “aumenta” qualcosa che già sussiste!) e, in particolare, a me era sembrato, che le opere accrescano una giustificazione già data, verosimilmente ad opera della sola grazia:  le opere, piuttosto, sarebbero altrettanto essenziali alla giustificazione della fede e della grazia come si evincerebbe da numerosi altri “luoghi” dei Decreti e degli altri documenti prodotti dal Concilio di Trento (Pasqualucci qui oppone il cosiddetto “sinergismo” cattolico al “monergismo” luterano).

[Nel merito non mi sembrano del tutto convincenti le argomentazioni di Pasqualucci.  Ecco ad esempio come Pasqualucci evoca le cause della giustificazione, traendole letteralmente dal cap. VII, del Decreto sulla giustificazione del Concilio di Trento:

Le c a u s e della giustificazione sono le seguenti: finale, nella Gloria di Dio, di Cristo e nella vita eterna; efficiente, nella misericordia di Dio, che gratuitamente lava e santifica mediante lo Spirito Santo “pegno della nostra eredità”[Ef 1, 13-14]; meritoria, Cristo stesso, che ci ha meritato la giustificazione con la sua Passione, soddisfacendo Dio Padre; strumentale, “il sacramento del battesimo, che è il sacramento della fede, senza la quale a nessuno, mai, viene concessa la giustificazione”. Infine, la causa più importante, quella formale, “è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli è giusto, ma quella per cui ci rende giusti”.

Ora, in tale elenco di  “cause”, – che un luterano, fatta salva la sua refrattarietà ad Aristotele, potrebbe probabilmente sottoscrivere -,  brilla per la sua assenza la libera iniziativa (cooperatrice) dell’uomo (che ci si sarebbe aspettati di leggere tra le cause efficienti o meritorie o, almeno, strumentali).]

Tuttavia, lo stesso sforzo ermeneutico di Pasqualucci (ammesso che sia riuscito nel suo intento) che cosa dimostra? Che le parole spesso non significano quello che sembrano. Ora, perché questo non potrebbe valere anche di molte espressioni adottate dai luterani, in apparente opposizione a quelle adoperate dai cattolici, come tenta di dimostrare la Dichiarazione congiunta del 1994? Come il canone 24, secondo Pasqualucci, non dice  esattamente quello che sembra a una prima lettura (che le opere sono superflue rispetto alla giustificazione), analogamente anche i luterani potrebbero non dire esattamente solo quello che sembra, quando mettono l’accento che si viene giustificati “sola fide“. Come argomenta la citata Dichiarazione congiunta (cfr. n. 4.3, §§ 25-27, e relative note), ad esempio, forse la fede come la intendono i protestanti include  e non esclude le altre virtù teologali, ovvero la speranza e la carità, dunque è pensata come indissociabile dalla carità dalla quale scaturiscono le buone opere (e anche questo è solo un esempio della direzione in cui si potrebbe andare esercitando un’ermeneutica capace di approfondire, senza preconcetti, i termini delle diverse questioni).

6. Fondamenti del dialogo ecumenico e interreligioso

Lo stesso ecumenismo, in ultima analisi, di cui la più volte evocata Dichiarazione congiunta costituisce un saggio paradigmatico, su che cosa si fonda? Sull’ipotesi che la ricerca dell’unità tra i cristiani (una sorta di concordia discors di eraclitea, piuttosto che aristotelica, memoria) possa essere realizzata esercitando una sorta di “ermeneutica della continuità al quadrato”. Essa dovrebbe venire esercitata al fine di armonizzare, grazie a un dialogo inesausto, non più solo le diverse versioni della dottrina cattolica elaborate nel corso dei secoli, ma anche le diverse dottrine elaborate dalle diverse “denominazioni” cristiane (le tradizionali “eresie”).

Il dialogo che tale approccio consente di mettere in atto con coloro che apparentemente sostengono tesi diverse non ha niente a che fare con una negoziazione di tipo politico, volta a raggiungere una pace meramente estrinseca, sacrificando la verità. All’opposto il dialogo che qui è in gioco è dialogo nel senso autentico e originario (socratico-platonico): una ricerca della verità senza sconti, a partire da un’analisi critica e auto-critica delle premesse proprie e altrui, in quanto esse potrebbero rivelarsi meno granitiche di quello che sembrano ed essere esposte, se intese nel senso che esse superficialmente esibiscono, all’autocontraddizione. Solo una tale ricerca, nella sua radicalità, sgombrando il campo da ipotesi solo apparentemente autoconsistenti (come il luterano “sola gratia” o il cattolico “gratia et operibus“), nella loro più superficiale accezione, può aprire la mente e il cuore all’intuizione della sola verità che si cela dietro questi tentativi di afferrare verbalmente l’inafferrabile (ad esempio: l’idea di una grazia che ci predestina alla salvezza nel momento stesso in cui ci lascia liberi di scegliere il nostro destino, paradosso sul quale più di un faro potrebbe essere puntato se si adotta ad es. l’approccio di Leibniz basato sulla teoria dei mondi possibili).

Un esempio storico estremamente illuminante di un dialogo di questo tipo, che non ha alcunché a che fare col cosiddetto modernismo, è offerto dal “dialogo” (nel senso del genere letterario) De pace fidei (La pace nella fede) di Niccolò Cusano. In questo testo paradigmatico del 1453, che risente certamente del clima spirituale “conciliarista”, si mostra palpabilmente come si possa convenire su alcune intuizioni fondamentali delle diverse religioni, anche esterne al monoteismo ebraico-cristiano (come l’induismo).

Più in generale la prospettiva “cattolica”, se vuole essere davvero uni-versale, come qui la intendo, non può che richiamarsi a quella dei grandi filosofi cristiani del nostro umanesimo (la cui riflessione non fu estranea alla meditazione del teologo Henri de Lubac, così rilevante per la preparazione dei lavori del Concilio Vaticano II), come Giovanni Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, i quali, in quanto “platonici”, di tutto possono essere accusati salvo che di “modernismo”.

In tale orizzonte proto-ecumenico si muoveva la corrente dei cosiddetti spirituali, tra i quali possiamo ricordare i cardinali Gasparo Contarini e Reginald Pole, successivamente emarginata durante i lavori del Concilio di Trento, ma che diede un importante contributo nei colloqui tra cattolici e luterani di Ratisbona del 1541, quando si sfiorò il raggiungimento di un’intesa (grazie anche all’opera, dalla parte dei protestanti, di Filippo Melantone).

Certo, chi, come il prof. Pasqualucci, sembra legato a una logica aristotelica (cfr. il § 1 del suo contributo), resterà perplesso davanti alla ricerca di un’ineffabile coerenza, dove sembra, viceversa, di registrare palesi contraddizioni e incompatibilità tra dottrine letteralmente divergenti o, perfino, opposte (nonché storicamente sorte come tali, come è il caso della dottrina cattolica e dell’ “eresia” luterana).

Ma siamo sicuri che la coerenza spirituale ricercata debba essere una coerenza meramente formale? Se così fosse, dovremmo abbandonare i fondamenti stessi della dottrina cattolica, ossia la fede paradossale in un Dio che è sia Uno sia Trino, in un Figlio di Dio che è sia Dio sia Uomo.

Invece, tale fede, con tutte le sue implicazioni dottrinali e morali, può senz’altro essere coltivata non già  contra rationem, bensì supra rationem (per usare le terminologia di Riccardo di San Vittore, cfr. il già citato De gratia contemplationis, IV, 11),  solo che ci si elevi all’altezza di una capacità intellettiva (noetica), di ascendenza platonica (come platonica era la feconda matrice culturale sottesa alla meditazione dei Padri della Chiesa e della prima scolastica), al di qua del principio – aristotelico – di non contraddizione (che vale per la ragione discorsiva, la diànoia, e si applica a materie decisamente meno spirituali).  Tant’è che una paradossalità, ai limiti dell’antinomicità, del tutto simile a quella che caratterizza le Persone della Trinità cristiana, può essere facilmente rilevata per quanto riguarda le tre ipostasi (lo stesso termine che contraddistingue le Persone divine in lingua greca) del sistema (neo)platonico di Plotino.

N.B. Come si vede, chi accusasse di “hegelismo” il mio approccio scarsamente aristotelico alla dottrina cristiana dimostrerebbe di ignorare la matrice fondamentalmente platonica delle mie considerazioni, matrice che mi “onoro” di condividere con tanti Padri della Chiesa. Hegel, infatti, non ha fatto che secolarizzare la dialettica platonica. La dialettica platonica (che altro non è che l’arte del correttamente dialogare, secondo il magistero socratico) aveva di mira, dal canto suo, attraverso una purificazione della mente dalle false opinioni, l’illuminazione della mente (per ricorrere al termine caro ad Agostino), una forma di conoscenza autentica, noetica, non discorsiva, dunque al di là del principio di non contraddizione. Possiamo anche chiamarla gnosi, senza tema di venire accusati di cadere nello “gnosticismo” eretico dei primi secoli, facendo riferimento alla “vera gnosi”,  celebrata, in opposizione all’omonima eresia, da autori sicuramente cattolici come Clemente Alessandrino (cfr. Protrettico, XII, 112, 1-3).

Da ultimo lo stesso dialogo interreligioso, reso concepibile dalla costituzione Nostra aetate (del Concilio Vaticano II), su che altro potrebbe fondarsi se non su un ulteriore allargamento della “base documentale” sulla quale esercitare una sorta di “ermeneutica della continuità al cubo”?  L’ipotesi è che la verità divina non possa essere rimasta del tutto celata ai popoli che non hanno conosciuto Cristo, sicché raggi di tale verità (cfr. § 2 di Nostra aetate) devono in qualche modo informare anche le religioni non cristiane (il tradizionale paganesimo e, aggiungerei, le filosofie, con particolare riguardo a quella greca pagana, come argomentava p.e. Giustino martire nel II sec. d. C.).

Sotto questo profilo nozioni come “eresia” e “paganesimo”, così ampiamente documentate nella letteratura cristiana e rilanciate dai tradizionalisti, dovrebbero essere abbandonate? Non necessariamente, Anch’esse subiscono una necessaria precisazione semantica, in quanto si deve ben intendere lo Spirito in cui sono intese (il solo Spirito compatibile con le costituzioni del Vaticano II):

  1. “eretico” potrebbe essere colui che persiste nel ritenersi depositario di una verità separata e incompatibile con quella della “Grande Chiesa” (chi, cioè, ostinatamente si rifiuta di esercitare l’ermeneutica della continuità e di ammettere che lo “Spirito soffia dove vuole”, cfr. Gv 3, 8);
  2. “pagano” chi adora in forma superstiziosa questo o quel “dio” umano troppo umano, costruito a propria misura, adottando un approccio “letteralistico” alla fede piuttosto che autenticamente “spirituale”.

Più in generale si può ritenere che tanto nelle Scritture, quanto nei pronunciamenti del Magistero, la “mano” dell’uomo di cui Dio si è servito per rivelare se stesso, i Propri desideri nei nostri confronti, vada accuratamente distinta dalla “mente” divina, mediante un discernimento guidato tanto dalla ragione (criterio della coerenza che informa l’ermeneutica della continuità), quanto, soprattutto, dallo Spirito (dunque da Dio stesso, che è, dunque, sia l’autore delle verità rivelate sia il solo interprete autentico delle medesime, cfr. Catechismoart. 111).

Non si può sfuggire a quest’esigenza, abbandonandosi legalisticamente alle “lettera” delle norme scritturali e magisteriali. Né quest’esigenza (il richiamo allo Spirito Santo) può essere accusata di strizzare l’occhio alla dottrina luterana del libero esame (intesa nel modo corrente, ossia come dottrina riduttiva e, perciò, eretica). Infatti l’interprete “cattolico” cerca la verità non nella singola parola o nel singolo versetto, astratto dal contesto, ma nell’universalità  (kath’holou) del corpo non solo delle Scritture (“presta[ndo] attenzione […] all’unità di tutta la Scrittura”, cfr. Catechismo, art. 112) , ma anche della Tradizione (“legge[ndo] la Scrittura nella Tradizione vivente di tutta la Chiesa”, cfr. Catechismo art. 113), dunque cercando ostinatamente (per un’esigenza profondamente spirituale, non certo per una ricerca puramente “politica” di un accordo purchessia con presunte controparti) l’accordo e l’armonia con tutti i pronunciamenti magisteriali, anche con quelli più apparentemente rigidi e incompatibili con altri (o con l’esperienza, scientificamente nutrita, della quale nessuna persona ragionevole oggi non accoglierebbe le indicazioni).

A questo punto qualcuno mi potrebbe obiettare: “Alla fine, questo tuo ‘universalismo’, inclusivo anche delle denominazioni non cattoliche e, perfino, delle religioni non cristiane, annacqua talmente il tuo preteso ‘cattolicesimo’ che c’è da chiedersi perché tu ti ostini a dirti cattolico, piuttosto che neoplatonico o, magari, perfino, deista”.

Rispondo. Sarebbe molto comodo per i tradizionalisti cattolici che tutti coloro che interpretano diversamente da loro il loro essere cattolici (potremmo dire: tutti i diversamente cattolici) si dessero un altro nome, come quelli appena suggeriti. Ma il punto è proprio questo. Se cedessi ai tradizionalisti la denominazione “cattolico” riconoscerei come legittima la loro interpretazione non solo restrittiva, ma anche francamente contraddittoria dell’essere cattolici (contraddittoria perché, come ho cercato di dimostrare, in nome dell’immutabile verità della dottrina, essi finiscono, in effetti, per mutilarla misconoscendone porzioni significative – p.e. le determinazioni del Concilio Vaticano II o quelle del Concilio di Costanza e le loro implicazioni – col considerarle false).

Perché, ad esempio, dovrei concedere che la corrente che ha finito per prevalere storicamente nella Chiesa, secondo la quale il primato dottrinario spetta al Papa, sia la sola a potersi denominare legittimamente come “cattolica” quando il concilio di Costanza, come abbiamo visto, aveva licenziato solennemente un’ipotesi diversa, quella secondo la quale l’autorità suprema spetterebbe al concilio stesso inteso come espressione della Chiesa nel suo insieme? Come sappiamo, lo stesso Concilio Vaticano II, sottolineando che per Chiesa non si debba intendere la Chiesa gerarchica o ministeriale, ma l’intero “popolo di Dio”, ha precisato che

la totalità dei fedeli [...] non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi [Lumen gentium, 12],

rilanciando  così implicitamente, l’ipotesi conciliarista, ripresa, come è noto, da movimenti di base come Noi siamo chiesa. Perché, allora, dovrebbe dirsi cattolico solo chi segue alcuni criteri di auto-definizione (propri soltanto di alcuni membri della Chiesa, per quanto autorevoli) piuttosto che altri?

In particolare, anche se il Magistero stesso ha stabilito in vari modi nel corso della storia che solo il Magistero dispone dell’autorità per definire il contenuto della fede e anche se il Papa si è sostanzialmente autoproclamato infallibile nel Concilio Vaticano I (in assenza p.e. di rappresentanti del mondo greco-orientale), in che modo queste auto-determinazioni obbligherebbero coloro che, considerandosi cattolici, al pari del Papa e dei vescovi, non condividessero queste conclusioni nella loro letteralità? Perché non le si potrebbe viceversa intendere, secondo lo Spirito, nell’unico modo compatibile con altre indicazioni, p.e. con quelle del concilio di Costanza? Si sarà bensì tenuti a prestare ascolto critico ai pronunciamenti di Papa e Magistero, ma essendo sempre e solo guidati, come è necessario che sia, dalla propria coscienza (dalla propria ragione ispirata). Se nessuno può disporre della coscienza degli altri, neppure il Papa,  perché qualcuno dovrebbe allora disporre dei “nomi” che si dànno alle cose, come p.e. del nome “cattolico”?

L’ipotetico obiettore potrebbe insistere: “Ma se spingi la ‘base documentale’ su cui esercitare la tua ‘ermeneutica della continuità al cubo’ ai testi sacri e non sacri di tutte le religioni, magari anche alle opere filosofiche e letterarie ecc., insomma alla cultura mondiale, come puoi poi dirti seriamente cattolico piuttosto che hindu,  platonico o, appunto, deista? Se non te lo può vietare il Papa, dovrebbe vietartelo il buon senso e un criterio minimo di mutua comprensibilità…”

Innanzitutto queste denominazioni (“cattolico”, “platonico”, “hindu” ecc.) non sono necessariamente mutuamente esclusive (ad es. il compianto teologo Raimon Panikkar si riteneva a ragione cattolico e hindu) se non nella prospettiva di chi esclude a priori, senza poterlo dimostrare, che l’unica verità si effonda come attraverso un prisma in una molteplicità di raggi (come, di nuovo, suggerisce, anche se timidamente, la costituzione Nostra aetate del Concilio Vaticano II)…

Il deismo, in particolare, è una concezione del divino astratta e puramente filosofica, che può facilmente essere accettata da tutti, ma che ha il grave limite di “non scaldare il cuore”. In questo senso esso non può essere considerato propriamente come una re-ligione. Ciascuno incontra Dio all’interno della propria cultura e nella propria prospettiva che nel mio caso è quella cattolica. Ciò che mi rende – se si vuole – diversamente cattolico (ma pur sempre cattolico) è la comprensione della mia prospettiva come tale, come una prospettiva appunto, aperta alla convergenza (in Dio, nel Principio di ogni cosa) con altre prospettive, fermo restando, però, che qui e ora non puoi mescolare il Padre nostro con i mantra tantrici o la meditazione zen… Sembra in generale più sensato adottare uno stile di vita coerente con una specifica tradizione, attraverso la quale il divino ci ha storicamente incontrato, piuttosto che cedendo a forme di “sincretismo fai da te”.

N. B. Sotto questo profilo vale sempre ancora – si direbbe – il principio extra ecclesiam nulla salus, ma precisato come segue: esso può valere solo per chi ha già aderito all'”ecclesia“, cioè come monito contro i rischi dell’apostasia. Questa, infatti, può essere determinata da incomprensioni con la gerarchia o dalla difficoltà ad esercitare la virtù dell’obbedienza o da infinite altre ragioni, spesso comunque corredate da buone dosi di risentimento. Si comprende bene come in tali condizioni difficilmente si possa aspirare alla salvezza.

Il principio extra ecclesia nulla salus non può però significare che p.e. ai buddhisti o agli hindu sia preclusa ogni via di salvezza. Tale ipotesi, infatti, parrebbe piuttosto inverosimile, perché significherebbe che un Dio d’amore avrebbe abbandonato alla perdizione miliardi di persone incolpevoli e che i tesori di sapienza dell’Oriente (ancora contro lo spirito della costituzione Nostra aetate) sarebbero solo “fumo di Satana”; considerazioni, queste, che non vietano affatto di proporre con delicatezza Cristo ai non cristiani per cercare di convertirli, come chi avesse un bel dono da offrire a chi ne volesse liberamente approfittare. La questione della salvezza dei non cristiani non sembra in ogni caso di pertinenza di un teologo cattolico, anche per la comprensibile (e legittima) ignoranza delle rispettive tradizioni religiose.

In generale può essere fatto valere, sia nel confronto tra diverse religioni, sia, all’interno di una religione, nel confronto tra diverse “versioni” del medesimo credo, il principio dell’incommensurabilità tra paradigmi, introdotto da Thomas Kuhn per quanto riguarda le teorie scientifiche. In attesa che il dialogo porti a riconoscere la verità comune sottesa alle (apparentemente) diverse dottrine si può sempre legittimamente sperare che tale verità sussista considerando che i linguaggi con cui le diverse dottrine la esprimono sono reciprocamente incommensurabili. In altre parole non posso mai escludere che tu intenda le stesse cose che intendo io dal solo fatto che ti servi di altre parole, dal momento che, per così dire, io non sono “nella tua testa”.

2 pensieri su “Che significa essere cattolici?”

  1. Caro Giorgio, avendo tu letto i miei “In verità ci disse altro” e “Mosaici di saggezze”, sai in quanta vasta misura le tue pagine di oggi mi trovino consenziente. E anche perché c’è una piccola dose (diciamo il 20 % ?) di residua differenza. In sintesi brutale: la tua trattazione è ancora troppo cattolico-centrica. Bisogna rassegnarsi invece a dire che il cattolicesimo è stata un’ubriacatura di “iubris” (o come lo si voglia translitterare dal greco all’italiano) e che bisogna ripartire dal Logo-centrismo (con prisma annesso, secondo la tua immagine a me cara). Certo, questo significa non avere pratiche tradizionali in cui riconoscersi , laddove una buona religione non può farne a meno: ma il vino nuovo va in otri nuovi e, anche a costo di qualche fatica, dobbiamo provare a costruire nuove liturgie leggere e provvisorie che servano da veicoli all’azione mobile del Pneuma.
    Così parlò Cavadustra.

    1. Caro Augusto, grazie per il contributo di riflessione.

      Hai colto un aspetto importante. Effettivamente dubito che si possano credibilmente “inventare” nuove liturgie che non cadano in alcunché di improbabile… Ci ha provato dal Settecento la Massoneria che, in un certo senso, ha “scimmiottato” il cattolicesimo. Ci abbiamo provato anche “noi”, filosofi praticanti, ma con risultati, a mio modo di vedere, poco persuasivi. Forse si sarebbe dovuto ascoltare la voce di Schelling (o forse di Hegel, non si sa bene) che nell’erste Systemprogramm dell’idealismo tedesco invitava a condire la filosofia di nuove forme di “mitologia” per rendersi abbastanza “popolare”. Tuttavia, come osserverebbero gli amici tradizionalisti, il rischio è che si “inventi” sempre qualcosa di “umano troppo umano”. Un vero simbolo, in senso etimologico, è “eucaristico”: è, non semplicemente ricorda, il divino (credo che Origene da qualche parte scriva che un simbolo vero “è quello che significa”). Ora credo che Dio, se esiste, si sia liberamente rivelato come è piaciuto a Lui e non come vorremmo noi. Sotto questo profilo non credo si possano mettere in soffitta duemila anni di rivelazione specificamente cristiana. Vi dobbiamo ricercare le orme o le tracce autentiche del divino (una per tutte: la Sindone di Torino). Del resto, non si può non avere una prospettiva, nel rispetto di tutte le altre, la propria, quella che abbiamo ereditato o, se vuoi, in cui siamo stati “gettati” non per nostra scelta.

      Kyrie eleison (per quello che scrivo).

      P.S. Non voglio abusare del tuo tempo e della tua pazienza, ma il modo in cui intendo che si debba prendere sul serio la “storia di Gesù di Nazareth” ho cercato di chiarirlo in questo articolo (che Renato Pilutti ha avuto la bontà di commentare).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.