E se la filosofia fosse una psicologia?

Pratica filosofica e psicoterapie. Quale rapporto?

Quale il rapporto tra pratica filosofica e psicologia, segnatamente psicoterapia?

Innanzitutto e per lo più (verrebbe da dire) i filosofi praticanti, soprattutto i consulenti filosofici, hanno cercato di definirsi (o perimetrarsi) per differenza rispetto agli psicologi.

Sotto questo profilo si è insistito su alcuni tratti distintivi come quelli messi in luce a più riprese da Neri Pollastri e così riassunti nella mia introduzione al volume Sofia e psiche [cfr. Giorgio Giacometti (a cura di), Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto, Liguori, Napoli 2010, p. 3]:

Il consulente filosofico [a differenza dello psicologo e/o dello psico-analista]
1) ha una precisa intenzionalità filosofica (intende fare filosofia e nient’altro),
2) non parte dal presupposto che il proprio interlocutore sia abitato da un inconscio in senso psicoanalitico,
3) non si serve tematicamente di strumenti come il transfert,
4) non si preoccupa di spiegare le cause del vissuto del proprio interlocutore, ma piuttosto cerca di comprenderne il senso,
5) si sforza, insieme al proprio interlocutore, di far luce sul mondo che circonda entrambi e non soltanto, intimisticamente, sul cosiddetto “sé” di chi gli sta di fronte,
6) istituisce, pertanto, un setting fondamentalmente intersoggettivo e anaffettivo, aperto sul lògos universale piuttosto che centrato sulla relazione stessa di consulenza e sui suoi attori.

A questi tratti va aggiunta la non terapeuticità della consulenza filosofica, ribadita anche nella perimetrazione della stessa a cura dell’Associazione Phronesis [cfr. «Phronesis», XI, n. 19-20, 2013, pp. 13-16].

Tuttavia, in secondo luogo (o in un secondo tempo), a partire, ad esempio, da altri contributi contenuti in Sofia e psiche e anche dalle pagine del mio libro dedicate alla questione del rapporto tra pratica filosofica e “psicologie” (al plurale) [cfr. Giorgio Giacometti, Platone 2.0. La rinascita della filosofia come palestra di vita, Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 346 e ss.], ci si è resi conto che a questo tentativo di differenziazione, pur accettabile nelle sue linee generali, sfuggivano numerosi casi particolari, quelli rappresentati dagli approcci psicologici, generalmente denominati e denominabili come “umanistici”, che, rifiutando uno o più tratti comunemente caratterizzanti la pratica psicologica (p.e. l’indagine relativa alle cause del disagio, la nozione di inconscio ecc.), potevano presentare elementi di più o meno accentuata confondibilità con la pratica filosofica, potendo addirittura essere considerati “precursori” di questa (il riferimento era ed è alla psicologia analitica di Jung, al counseling di marca rogersiana e frankliana ecc. [cfr. Sofia e psiche, cit., p. 4]).

Per evitare di confonderci con gli psicologi, compresi gli psicologi umanistici, si è sostenuto allora, come ho fatto per molto tempo io stesso, che i filosofi, in quanto praticanti o consulenti, non muoverebbero da dottrine specifiche, neppure di tipo filosofico, ma aiuterebbero i loro consultanti a venire a capo delle loro “dottrine” implicite (visioni del mondo); laddove gli psicologi muoverebbero da dottrine psicologiche ben definite (come quelle di Freud, di Jung, di Rogers ecc.).

Il filosofo praticante, in particolare, per usare l’espressione di Paolo Cervari, sarebbe contraddistinto da un approccio privo di “chiusura epistemologica” [cfr. Sofia e psiche, cit., p. 183] o, nelle parole di Gerd Achenbach, “meta-teorico” [cfr. Gerd Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Apogeo, Milano 2004, p. 83], caratterizzato, cioè, da una continua messa in discussione dei propri stessi assunti epistemologici (cfr. anche Contesini in Stefania Contesini, Roberto Frega, Carla Ruffini, Stefano Tomelleri, Fare le cose con la filosofia. Pratiche filosofiche nella consulenza individuale e nella formazione, Apogeo, Milano 2005, p. 114).

Ma, se guardiamo al nostro concreto operare, come filosofi praticanti, è un argomento discutibile. Come l’analista lacaniano parte da una serie di assunti metodologici, salvo poi aprirsi a ciò che egli stesso paragona a un esercizio maieutico, così anche il filosofo consulente non può non partire a sua volta da una serie di assunti, come quelli che contraddistinguono la sua pratica secondo p.e. la già evocata perimetrazione della consulenza filosofica a cura dell’Associazione Phronesis.

Inoltre, ciascun singolo filosofo consulente, quando dialoga con un consultante, adotta inevitabilmente un approccio che è figlio della “teoria filosofica” che lui stesso abbraccia (teoria che include sempre indicazioni metodologiche, pensiamo ad es. alla concezione del linguaggio di Wittgenstein o alla nozione di “circolo ermeneutico” in Gadamer, per tacere della maieutica socratica).

Date le persistenti analogie tra pratica filosofica e psicoterapie, alcuni consulenti filosofici, con una certa prudenza, hanno ritenuto addirittura di rifiutare il confronto con il mondo “psi”.

Questa strategia scaturisce dalla seguente considerazione: chi, come il filosofo praticante, non ha le competenze necessarie e sufficienti a conoscere a fondo un determinato campo (quello psicologico e psicoterapeutico) non può presumere di delimitare con precisione il proprio (quello pratico-filosofico) rispetto all’altro. La tesi è: “Io, filosofo consulente, faccio questo e quest’altro, del tutto indipendentemente da quello che fanno gli psicologi e gli psicoterapeuti, convergessero o divergessero i due diversi approcci”.

Questa rinuncia a “perimetrare”, tuttavia, se può aiutare il filosofo consulente a non perdere tempo a fare confronti, quasi a giustificare la propria “esistenza”, per concentrarsi piuttosto sullo “specifico professionale”, può però deludere il potenziale consultante (o cliente), desideroso di afferrare la differenza, ammesso che ve ne sia una, tra consulenza filosofica e psicoterapia (o counseling).

Come soddisfare convincentemente questa legittima esigenza di chiarificazione?

Partiamo da una considerazione. Le nostre risorgenti difficoltà, come filosofi consulenti, a smarcarci dagli psicologi scaturiscono da una certa inestricabilità (sulla quale da ultimo ci ha fatto riflettere la fenomenologia, non a caso presa a modello da psichiatri come Ludwig Binswanger) tra io e mondo; o tra la psiche e la (sua) “visione del mondo” (come Ran Lahav ci ha insegnato a chiamare la nostra “filosofia di vita”).

Forse può soccorrere qualche esempio di questa inestricabilità. Se una persona non si sente riconosciuta per il suo valore dai suoi colleghi di lavoro ne va dell’immagine di se stessa. Riflettere se e quanto io sia quello che gli altri dicono (giudicano) che io sia è fare filosofia o psicologia? Si può senz’altro argomentare che la questione è filosofica, ne va della mia identità. Eppure vi sono senz’altro ottimi psicologi e psicoterapeuti che lavorerebbero nella medesima direzione (ne va della mia immagine, della mia autostima ecc.).

In Sofia e psiche [cfr. ivi, p. 4] e anche nel mio libro Platone 2.0 [cfr. ivi, pp. 346 e ss.] ho sostenuto che queste zone di interferenza dipenderebbero da un’invasione di campo (del campo filosofico) da parte della psicologia e ho sostenuto che non dovremmo darcene pensiero, purché, come filosofi, continuiamo a fare il nostro mestiere (adottando, sotto questo profilo, la prospettiva di quelli che sospendono il confronto).

Lo psicologo potrebbe, però, legittimamente replicare che il campo da dissodare era anche “suo”, e da sempre, trattandosi dell’anima (“psyché“) umana.

Come controreplicare? Certo, lo psicologo avrebbe ragione, ma bisogna considerare che fino almeno all’Ottocento la psicologia era considerata semplicemente una branca della filosofia.

Ancor oggi, del resto, si parla legittimamente, come è ben noto, di psicologia aristotelica, kantiana ecc., cioè delle rispettive “dottrine dell’anima”.

N. B. Non si tratta di dottrine secondarie. In Aristotele, come è noto, questa dottrina è parte della “fisica”: l’anima vi assolve una funzione fondamentale, se pensiamo che il tempo stesso (il tempo della natura, non solo il tempo soggettivo, la durée bergsoniana) ne dipende: “Risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima” [Fisica, IV, 14, 233a21-26].

 

Filosofia come psicologia

Alla luce di queste ultime considerazioni, per afferrare il rapporto tra pratica filosofica e psicoterapie, propongo allora di tentare una nuova strategia, fondata storiograficamente ancor più che epistemologicamente, riassumibile nella seguente domanda retorica: “E se la filosofia fosse una psicologia?”; intendo: “… la sola vera e giusta psico-logia?”.

Storicamente, infatti, la psicologia era concepita non solo come una “branca della filosofia” (come appare in Aristotele e in una certa tradizione che da lui promana), ma anche come un altro modo di intendere “tutta la filosofia”, nel senso del suo cuore più profondo.

La tradizione platonica è eloquente. Tutti ricordiamo il comando del dio di Delfi, “Conosci te stesso”, fatto proprio da Socrate e interpretato come invito a conoscere la propria “anima” (in greco: psyché), alla luce dell’esplicita identificazione tra noi e la nostra anima (cfr. Platone, Alcibiade maggiore, 130a).

Si potrebbe obiettare che non tutti i filosofi e neppure gli stessi platonici, di fatto, dedicano tutte le loro energie a meditare su se stessi, ma si interrogano anche sul mondo che li circonda, come invitano a fare oggi i filosofi praticanti (interrogazione che, come abbiamo ricordato, caratterizzerebbe la consulenza filosofica e la distinguerebbe dalle psicoterapie, secondo p.e. Neri Pollastri, ripiegate sul “sé” del soggetto in cura).

Tuttavia, nel solco della tradizione platonica, Plotino arriva ad esempio a dire:

Iniziando questa ricerca, noi
obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi. Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca: desiderando così di cogliere l'amorosa visione delle cose supreme [Plotino, Enneadi, IV, 3, 1, 1];

e ancora:

l'anima è e diviene ciò che contempla" [ivi, IV, 3, 8, 15].

L’ipotesi sottesa a tali espressioni è che non si possa conoscere alcunché se non si conosce se stessi, poiché il “mondo”, almeno il mondo che mettiamo a tema quando vi riflettiamo filosoficamente (che non è certamente l’universo fisico, ma è un universo di valori e ipotesi soggettive), è tale in quanto si riflette nell’anima (forse noi diremmo: “nella coscienza”).

Ora, la storia recente che cosa ci dice, invece? Ci racconta dell’atto di nascita, in un clima culturale contraddistinto dal cosiddetto positivismo, di una psicologia che si voleva emancipata dalle sue radici filosofiche. Quando parliamo, infatti, di psicologia scientifica facciamo riferimento a un sapere relativamente recente che si è dato una patente di “scientificità” adottando una serie di accorgimenti che vorrebbero assimilarlo alle scienze della natura: ad esempio l’attenzione all’oggettività, verificabilità, universalità dei propri risultati. Quest’attenzione ai procedimenti della scienza è evidente in varia misura in correnti di psicologia come il behaviourism, il cognitivismo, la Gestaltpsychologie e, in qualche misura, il costruttivismo. Queste correnti adottano un modello di “uomo” troppo rigido e predeterminato (facendo dell’uomo un mero oggetto, piuttosto che un soggetto, di conoscenza) perché un filosofo consulente, che pure accetti la provocazione che qui ho lanciato (cioè che la filosofia sia anche una psicologia), possa accettarlo acriticamente (ad esempio un modello animale “pavloviano” per il behaviourism, il computer per il cognitivismo ecc.).

Ecco perché, come abbiamo visto, il filosofo consulente teme soprattutto di essere confuso con il counselor di scuola rogersiana o frankliana, con lo psicologo del profondo junghiano, con l’antropoanalista binswangeriano ecc., insomma con professionisti aderenti a quelle correnti della psicologia e della psicoterapia che possiamo chiamare “umanistiche”.

Tuttavia, anche questi psicologi, pur cercando di “fare i filosofi” (spesso, infatti, si ispirano a tradizioni filosofiche, come l’esistenzialismo o la fenomenologia) e riconoscendo l’insopprimibile soggettività del proprio interlocutore (al punto da valersi, talora, di strumenti come l’empatia), devono pur sempre di nuovo misurarsi (contraddittoriamente?) con le esigenze di oggettività, ripetibilità, verificabilità ecc. fatte valere dai loro colleghi.

La pretesa comune dalla psicologia contemporanea, infatti, più o meno soddisfatta, è quella di essere una (nuova) scienza dell’uomo, non più una branca della filosofia.

Il vantaggio dei filosofi consulenti è che possono fare i filosofi senza doversi misurare con esigenze estranee al filosofare. Sotto questo profilo il rifiuto di misurarsi con approcci che, se volessimo essere quasi offensivi, potremmo dire che “scimmiottano” il filosofare potrebbe avere un preciso senso storico.

Se tutto questo è vero e se ricordiamo l’uso filosofico della parola “psicologia”, il filosofo consulente potrebbe allora dichiarare non tanto, genericamente, di non essere uno psicologo, quanto di non essere uno psicologo (preteso) “scientifico”, ma di fare piuttosto della psicologia filosofica, indagando l’anima del proprio interlocutore e la propria, in quanto tale, non come un “nome” per nascondere un “arco riflesso” che risponde a stimoli, un computer che processa informazioni, un contenitore di “Gestalten”, una ricetrasmittente di messaggi più o meno equivoci o contraddittori o in qualsiasi altro modo la si “rappresenti” all’interno di questa o quella scuola di psicologia contemporanea.

 

Filosofia come esercizio di ragione

Potrei concludere qui la mia riflessione, ma, proprio restando sul terreno storico-culturale, credo che sia utile meditare su un altro ordine di considerazioni in qualche modo legato al precedente.

Non ci dobbiamo nascondere un problema. La filosofia ha cessato da tempo di venire esercitata “nelle piazze”, come al tempo di Greci, mentre la psicologia, pur nascendo come scienza rigorosa e del tutto “accademica”, contraddistinta in taluni casi da un vero e proprio approccio sperimentale, non si è peritata di scendere dalla cattedra per misurarsi col disagio delle persone, trasformandosi in psicoterapia. In questa trasformazione – se ci si riflette un vero e proprio salto tutt’altro che innocente – la psicologia non solo si è portata dietro gli assunti che la istituivano come scienza (p.e. un determinato modello umano acriticamente adottato), ma si è data anche implicitamente fini etico-terapeutici, a loro volta scarsamente giustificati sul piano strettamente filosofico. Essa ha perfino contribuito a creare un’idea di salute “psico-fisica”, oggi promossa da istituzioni internazionali come l’O.M.S., che include una serie di assunti filosofici non dichiarati circa l’essenza e il fine dell’uomo nel mondo.

Un esempio molto chiaro di questa situazione è offerto dal rovesciamento del rapporto tra ragione ed emozioni.

Come è noto, tradizionalmente la filosofia, quasi a prescindere dalla visione del mondo di cui si faceva latrice (spiritualistica o materialistica che fosse), ha sempre invitato a esercitare forme di autocontrollo (enkràteia) razionale sulle proprie emozioni o passioni. In alcune scuole greche, ad esempio, come la platonica e l’aristotelica, l’obiettivo era la metriopatia (la misura nelle passioni); in altre scuole, come quelle ellenistiche (epicurea, stoica, scettica), l’obiettivo era l’apatia (l’estinzione delle passioni). Ma, se ci si riflette, fino almeno a Kant escluso, anche la filosofia medioevale e moderna ha ereditato questa concezione (pensiamo solo all’importanza assegnata in ambito cristiano alle virtù cardinali o all’etica “intellettuale” di Spinoza).

Il filosofo (anche in quella sorta di quasi caricatura rappresentata dal philosophe illuminista) è classicamente colui che si lascia guidare essenzialmente dalla ragione e sorveglia accuratamente i propri istinti, desideri, sentimenti.

Oggi, dopo l’età romantica e sull’onda delle diverse mode psicologiche, si tende, invece, a dare una grande rilevanza alle emozioni, fino a parlare di intelligenza emotiva (cfr. Daniel Goleman, L’intelligenza emotiva. Che cos’è, perché può renderci felici (1995), tr. it. Rizzoli, Milano 2005) o di intelligenza delle emozioni (cfr. Martha C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, tr. it. Il Mulino, Bologna 2004).

L’idea, in se stessa nientaffatto peregrina e che io stesso ho a lungo carezzato e sostenuto, è che le emozioni abbiano una propria “intelligenza” (ad esempio la paura suggerisce che qualcosa sia pericoloso, il desiderio che qualcosa sia bello e buono per noi, l’invidia che qualcosa d’altri sia desiderabile ecc.).

Tuttavia, dietro questa giusta comprensione del significato delle nostre emozioni (peraltro, come dimostra Martha Nussbaum, di nobile conio filosofico, risalendo almeno allo stoicismo), si nasconde spesso un implicito invito ad accondiscendervi più o meno ciecamente (se le emozioni hanno una loro intelligenza, perché non seguirle invece di lasciarsi irretire dalla pedante ragione?). Questo invito, implicito in molte pratiche psicoterapeutiche, più che scientificamente giustificato, appare un figlio “naturale” (non riconosciuto) del nichilismo filosofico contemporaneo, inaugurato storicamente da Schopenhauer e Nietzsche, che conduce al seguente, seducente “sillogismo”: “Se nulla ha senso e la ragione è solo una maschera, perché non lasciarsi guidare (come fa l’oltreuomo nietzschiano) dal (presuntamente) infallibile istinto?”. Implicitamente o esplicitamente diverse scuole psicoterapeutiche mirano a questa “liberazione” del soggetto (variamente denominata: “libero sviluppo della personalità”, “autonomia”, “self-empowerment“, “auto-efficacia” ecc.) dall’oppressione secolare esercitata dai “rappresentanti psichici” delle figure genitoriali (Super-Io), della cultura religiosa tradizionale, della società capitalistica (il Grande Altro di Zizek) o di altre istanze giudicanti, visti come fonti del famigerato “senso di colpa” e come origine di una vasta gamma di disagi psichici.

Quello che voglio evidenziare è che l’obiettivo terapeutico di molti approcci psicologici è tutt’altro che neutro, ma dipende sotterraneamente da una non dichiarata, occulta, ma ben precisa visione del mondo, in ultima analisi da una determinata opzione filosofica, da una concezione etica (e talora anche politica), giusta o sbagliata che essa sia. In molti casi tale “visione del mondo”, quale storicamente è emersa, può essere rubricata come emotivismo.

Questa concezione, figlia del nostro tempo, tende a giustificare le scelte fatte su base emotiva (in quanto a priori intelligenti), purché esse siano previamente “liberate” dalle pressioni indebitamente esercitate dalla società sull’individuo.

Lo stesso esercizio della ragione cade sotto la scure del sospetto: si tratterebbe per lo più di forme di razionalizzazione volte a giustificare ai propri occhi atteggiamenti in realtà determinati da altro, da moventi inconsci, spesso, appunto, di origine sociale (emozioni parassite ecc.).

L’equivoco qui consiste nel mettere in un unico calderone la coscienza morale prodotta dalla cultura (anche religiosa) di appartenenza (corrispondente all’incirca al Super-Io freudiano), fonte dei propri scrupoli morali e sensi di colpa irrazionali, e la coscienza morale maturata da una persona su basi strettamente razionali (corrispondente all’incirca all’Io freudiano).

Nella prospettiva filosofica classica i propri sensi di colpa (generati spesso da quelle superstizioni contro le quali si scagliavano, ad esempio, gli epicurei) non sono meno irrazionali dei propri desideri. In termini freudiani tanto l’Es quanto il Super-Io dovrebbero essere guidati dall’Io. Proprio a questo fine è utile acquisire consapevolezza dei propri moventi irrazionali, portandoli per quel che è possibile a coscienza. Giova a questo fine, ad esempio, l’esame quotidiano di coscienza (di ascendenza pitagorica, testimoniato da Seneca ed ereditato dal cristianesimo). In questo quadro nulla vieta di riconoscere l’intelligenza delle proprie emergenti emozioni, ma il punto è un altro.

Una cosa è riconoscere le passioni da cui si è abitati, interrogarle e sviscerarne il significato, quello che esse ci chiedono. Un’altra cosa è accondiscendervi ciecamente, rispondere positivamente alle loro richieste senza prima averne esaminato la plausibilità.

Classicamente un filosofo segue all’incirca questo imperativo ipotetico (parafrasando in parte una celebre esortazione di Agostino):

Fai quello che vuoi, purché tu non te ne debba poi pentire.

(Se proprio si vuole sofisticare si potrebbe aggiungere l’ulteriore condizione: “oppure purché tu metta in conto e accetti di potertene in seguito anche pentire”).

Questa condizione è posta dalla ragione e supera sempre per intelligenza qualsiasi spinta emotiva. Per quanto, infatti, un’emozione “sappia il fatto suo”, essa tende a non calcolare lucidamente gli effetti che derivano dal fatto di accondiscendervi.

La cosa può essere espressa anche evocando il tipico modo di ragionare degli stoici, che mi permetto di semplificare come segue. Gli animali irrazionali (àlogoi) non possono fare altro che seguire i loro istinti (hormài, termine introdotto proprio dagli stoici) che, indubbiamente, hanno una loro intelligenza (p.e. quando gli animali hanno sete, l’istinto li induce a procurarsi i liquidi necessari per sopravvivere; quando hanno paura, l’istinto li induce a evitare i pericoli che potrebbero minacciare la loro esistenza ecc.), ma che possono sbagliare. Anche noi uomini abbiamo gli istinti (e le emozioni, i desideri ecc.), che hanno una loro intelligenza, ma che possono sbagliare; abbiamo, però, anche la ragione (lògos) che può esaminare le pretese di questi nostri istinti e desideri e valutare quando è il caso di accondiscendervi e quando no. Sebbene anche la ragione sia fallibile (aggiungo io, non so se gli stoici sarebbero stati d’accordo), è sempre meglio seguire la ragione piuttosto che qualsiasi altra cosa.

Dunque le emozioni sono superflue? Nientaffatto. Parafrasando Kant potremmo dire:

le emozioni sono cieche senza la ragione, ma anche la ragione è vuota senza le emozioni.

Le emozioni, come suggerisce la stessa parola che le designa, sono moventi che spingono all’azione. Senza di esse la ragione girerebbe a vuoto. Tuttavia, in assenza di un esame della ragione il rischio dietro l’angolo resta sempre quello di commettere errori di cui poi ci si debba pentire.

N. B. Nel corso di questo esame, dal momento che si rivela necessario conoscere se stessi e, dunque, anche le proprie emozioni, nulla vieta, anzi tutto invita ad adottare tecniche, come quelle suggerite dalle moderne psicoterapie o, magari, da pratiche di matrice religiosa o spirituale, volte a portare a consapevolezza o mettere in luce le proprie più segrete (a noi stessi) emozioni. Ciò che l’impegno filosofico esige è non tanto di eludere tecniche di questo genere, qualora le si sappia padroneggiare, quanto di non fermarsi al dato emotivo ma concludere piuttosto l’esame della propria anima attraverso l’esercizio del lògos (più o meno “divinamente” ispirato, vedi la questione immediatamente successiva).

Vi è un almeno un caso, anche se forse più frequente di quello che si immagina, – si potrebbe obiettare – nel quale sembrerebbe sensato affidarsi alle emozioni: quando le ragioni pro e contro una determinata scelta sembrano equivalersi. Tuttavia, anche in questo caso più che l’emozione, sempre soggetta all’errore, ciò che la filosofia invita a esercitare per coadiuvare la nostra decisione è qualcosa di simile a un’intuizione o a un atto di intellezione, alcunché di supra, non di infra rationem. Si tratta di un atto eminentemente filosofico, anche se può essere suscitato da una forma sublimata di èros, come ci insegna Platone, un atto nel quale il noûs, nel trascendere la diànoia, se ne mostra tuttavia alla radice.

Che cosa, dunque, propongo in ultima analisi per distinguere la pratica filosofica e, segnatamente, la consulenza filosofica da approcci di carattere psicologico e psicoterapeutico? Quanto segue.

La pratica filosofica si fonda su una psicologia filosofica che non ha nulla da invidiare alle psicologie pretese scientifiche e meno ancora alle loro “implementazioni” psicoterapeutiche, cieche sulla valenza filosofica dei loro stessi assunti e obiettivi, nonché sull’etica non dichiarata che esse incorporano.

Questa psicologia filosofica riconosce la complessità dell’anima umana, nella quale si riflette il mondo, e, senza disdegnare altre tecniche di indagine, mette in luce il valore insostituibile dell’esercizio della ragione nell’esame di questa stessa complessità e nella selezione delle vie migliori attraverso cui l’anima stessa può perseguire i propri fini.

 

Inscindibilità dell’anima

Una parola infine, sulle ragioni anche personali che mi hanno portato a queste considerazioni che, per certi aspetti, senza contraddire frontalmente antecedenti modi di porre la questione, propongono una vera e propria “svolta” nel modo di pensare il rapporto tra pratica filosofica e psicoterapia.

Il presupposto da cui sono partito è quello dell’unitarietà dell’anima che, in quanto tale, merita, per così dire, un esame a sua volta unitario.

Per chiarire questo punto la cosa migliore è, forse, quella di fare un esempio.

Supponiamo che qualcuno soffra per la perdita di una persona cara. Costui si domanda il senso di quello che gli accade, potrebbe anche attraversare una crisi di fede, qualora fosse una persona religiosa, e potrebbe, infine, avere difficoltà anche a svegliarsi la mattina e andare a lavorare, cose che per lui sono ora diventate insensate. Che dovrebbe fare per ricevere un aiuto? Sotto il primo profilo (questione del senso di quello che gli accade) dovrebbe forse rivolgersi a un filosofo consulente, sotto il secondo profilo (crisi di fede) a un direttore spirituale e sotto il terzo profilo (sindrome lievemente depressiva) a uno psicoterapeuta. A queste figure dovremmo poi aggiungere gli amici e i parenti, sempre (anche troppo) prodighi di consigli, il medico di medicina generale per una prima prescrizione di farmaci adatti alla bisogna ecc. ecc. Non è un po’ troppa gente?

Poiché chi soffre è sempre lui e la sua “anima” o “psiche” è sempre la stessa, la cosa migliore non sarebbe che vi fosse qualcuno, chiamiamolo un “filosofo a tutto tondo”, in grado di prendersi cura globalmente (nella misura del possibile e in base alle proprie competenze) del disagio dell’anima di questa persona? Potrebbe trattarsi anche di un sacerdote con competenze e sensibilità psicologica o di uno psicoterapeuta “umanista” con una solida base filosofica.

Quello che vorrei suggerire è che, se l’anima è sempre la stessa, bisognerebbe riuscire darle unitariamente quello che essa chiede. Chiunque sia colui a cui un’anima principalmente si rivolgerà a questo scopo (all’interno di una pleiade di diverse figure che verosimilmente accompagneranno questa persona nel suo lutto), questa persona dovrebbe riuscire, nella misura del possibile, ad accogliere questa domanda e dare le risposte giuste (o almeno non così sbagliate come quelle che potrebbero dare altri).

E quale formazione dovrebbe avere questo “consolatore” (nel senso più filosofico e spirituale del termine) se non una formazione filosofica “a tutto tondo”, grazie alla quale egli possa interrogare il proprio interlocutore, favorendo in lui l’emersione (il “parto” socratico, a cui non sono estranee le doglie del disagio e della sofferenza psichica) di qualcosa come una “verità” dell’anima, contraddistinta da aspetti certamente diversi, ma fondamentalmente inscindibili?

Nel nostro esempio il filosofo consulente dovrebbe avere dimestichezza con le questioni teologiche implicate nella crisi religiosa del suo interlocutore, ma saper anche suggerire qualche tecnica di sopravvivenza quotidiana affinché la stessa prosecuzione del dialogo sia resa possibile. In ultima analisi, di volta in volta, si tratta sempre di valutare ciò che sia meglio fare o non fare, considerando la situazione esistenziale nella quale versiamo nella sua globalità e non per compartimenti stagni. Questo, ovviamente, non esclude che su specifiche questioni liminari, ad esempio se assumere o meno antidepressivi e quali, il suggerimento possa essere quello di rivolgersi a chi è più competente e autorizzato a trattare tali questioni, ma la domanda di fondo, se provare a fare a meno di certi aiuti o, viceversa, riconoscere i propri limiti e attingervi, resta in ultima analisi filosofica (e “psico-logica” in senso antico), perché per rispondervi occorre sempre di nuovo mettere in gioco “tutta l’anima” della persona.

 

di Giorgio Giacometti