Convergenze pratiche (consulenza filosofica e psicologie umanistiche)

Certo, una cosa è stabilire in teoria quali sono le principali differenze tra consulenza filosofica e psicoterapie, un’altra cosa è istituire un confronto relativo alle concrete pratiche a cui i cultori dell’una e delle altre dànno vita.

Le differenze tra consulenza filosofica e psicologia umanistica (à la Rogers per intenderci), ad esempio, sono ben lumeggiate in diversi contributi, come quelli Stefano Zampieri e di altri.

Tali differenze, tuttavia, appaiono tanto più evidenti e nette quanto meno ci si immerge nell’esperienza concreta delle due pratiche, all’interno della quale esse sembrano, piuttosto, sfumare (e anche qui: sfumano più o meno a seconda di “chi” pratica l’una e l’altra attività, questione talora più rilevante della distinzione nominale tra le attività medesime).

Ad esempio è chiaro che la “connotazione” della psicologia umanistica come attività, formalmente, “terapeutica”, nella quale ha rilevanza soprattutto la gestione della sfera “emotiva” (e, dunque, l’empatia) ed è tale da esigere un’accettazione incondizionata e non giudicante del proprio interlocutore da parte del “terapeuta” o del “counselor” (che, si direbbe, “sparisce” come soggetto dalla relazione), sembra una differenza “insuperabile” con la consulenza filosofica.

Tuttavia, nel fuoco del dialogo con il proprio interlocutore questa e altre differenze (di “intenzionalità” come le chiamerei io) tendono ad assottigliarsi. Anche nella consulenza filosofica si produce una naturale empatia che può anche assolvere una funzione “cognitiva” se ammettiamo, con Martha Nussbaum (autrice citata spesso  da quei filosofi consulenti che insistono proprio sulle differenze della consulenza filosofica dal mondo delle psicoterapie), che le emozioni sono giudizi impliciti. L’importante è non abbandonarsi all’empatia come se si trattasse di una finestra sull’anima del proprio interlocutore. Piuttosto: non smettere di interrogare le proprie e altrui emozioni per cercare di capire che cosa “significano” (quale interpretazione del mondo restituiscono: p.e., banalmente, la paura, che qualcosa di pericoloso ci minacci ecc.). Così, da un lato il filosofo consulente partecipa certamente come “soggetto”, ma non certo per giudicare o condannare, bensì sempre per cercare di comprendere insieme all’altro: questo non lo rende neutrale, ma neppure giudicante. Dall’altro lato il “counselor” davvero “preparato” non assume lo sguardo non giudicante come una posa (perché il proprio interlocutore se ne accorgerebbe), ma come un atteggiamento che ha fatto proprio, per quel che è possibile, di autentica apertura all’altro.

Su questo punto vorrei evocare un’esperienza personale recente. Nell’ambito dello sportello di consulenza filosofica che tengo nella scuola dove insegno, mi confronto, come gli altri colleghi che svolgono attività di ascolto, con psicologhe che svolgono funzione formativa sulle problematiche adolescenziali e sul tipo di ascolto che presumibilmente esse richiedono. Bene, ho avuto modo di confrontarmi con alcune formatrici – certo non tutte – (nel mio caso, per lo più, appartenenti alla psicologia transazionale, quella che “ci” vede come articolati in io Adulto, Genitore e Bambino, per intenderci) che “autointerpretano” il loro (e il nostro) ruolo (probabilmente in virtù di una loro personale formazione filosofica) in termini estremamente interessanti: ogni “strumento” psicologico che propongono lo discutono “meta-teoricamente”, chiedono che sia messo alla prova, insistendo quasi ossessivamente sulla necessità che si sia presenti come “persone” nel dialogo con i nostri “ospiti” (adolescenti), autenticamente, a costo di fare errori “metodologici”.

Tutto questo per suggerire che cosa? La differenza la fanno le persone e il modo in cui auto-interpretano il loro ruolo nel quadro della consulenza filosofica e/o della psicologia umanistica: si va da chi cerca di “implementare” tecniche di ascolto attivo o empatico, senza troppe attenzioni epistemologiche e senza troppa riflessione su di sé, a chi riscopre ogni volta il senso del suo agire, insieme con il proprio interlocutore (e, almeno sotto questo profilo, avvicina la propria azione a quella di un filosofo, anche qualora non si desse questa denominazione).

Questa possibile “confondibilità” con altre pratiche, tuttavia, non ci dovrebbe inquietare, per una serie di ragioni (che ho anche esposto nel quarto capitolo di Platone 2.0). In estrema sintesi: a) i nostri “consultanti” non si fanno tante domande epistemologiche, ma ricercano un aiuto, nel nostro caso filosofico, senza porsi il problema della nostra “differenza da”, ma semmai della nostra “efficacia” (ed è su questa che dovremmo lavorare), b) se pratichiamo onestamente la filosofia, queste interferenze non dovrebbero turbarci, ma semmai dovrebbero interrogare gli amici “psy” sullo statuto delle loro “pratiche” che, “invadendo” il “nostro” campo”, hanno assolto e assolvono in un certo senso una funzione di “supplenza” nei confronti di una “filosofia praticata” che noi vorremmo far risorgere in forma più pura e genuina, c) abbiamo dalla nostra sempre quella famosa tendenza radicale e autocritica preclusa a qualsivoglia altra “disciplina”, chiusa per definizione entro i propri confini disciplinari.

A questo forse allude Zampieri in certi passi dell’articolo sopra evocato (pp. 128 e ss.), nei quali mette in luce la radicalità dell’ermeneutica che noi mettiamo in gioco. Con il suo lessico e la sua prospettiva di matrice vagamente “esistenzialistica”, Zampieri probabilmente (come ci insegna Platone nel Fedro ogni discorso scritto è ambiguo in assenza del “padre” che lo difenda oralmente e ne illustri il significato) intende riferirsi al fatto che, se ci mettiamo in gioco come filosofi, tutto è messo in gioco: “chi” siamo noi, chi è l’altro, il senso del nostro dialogo, il senso del mondo ecc. Ne va dalla vita e della morte in senso più radicale e ultimativo di quello che è generalmente ammesso in un dialogo di “counseling” dove, al di là della metodologia più o meno “filosofica”, si ha per lo più un obiettivo più limitato, in termini di restituzione di qualità della vita, di benessere, di apertura.

Ma, ancora un volta, anche questa “differenza” può sfumare. Ci può essere uno psicoterapeuta, come p.e. Miguel Benasayag, dalla forte vocazione filosofica, incontrare il quale (a giudicare dai libri che scrive) può costituire una “rivelazione”, e un filosofo consulente incerto, appena formato da qualche agenzia formativa che, per paura di sbagliare o di invadere altri campi, si trattiene sui rigidi binari di una tecnica dialogica magari eccellente (mutuata p.e. da Platone), ma impiegata meccanicamente, rigidamente, senza attenzione ai risvolti emozionali (sempre per paura di invadere altri campi)….

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di Giorgio Giacometti