Come può la consulenza filosofica diventare (sempre più) una professione?

Da qualche tempo coloro che esercitano la consulenza filosofica si interrogano su una questione che sembra piuttosto grave e urgente:

Come può la consulenza filosofica, in quanto forma della filosofia, diventare (sempre più) una professione?

Per rispondere al quesito propongo tre tesi fondamentali, per argomentare le quali dovrò a più riprese evocare il libro in cui ho trattato estesamente della consulenza filosofica, come forma della filosofia, cercando di sviscerarne le implicazioni epistemologiche, culturali e, per quel che qui interessa, professionaliPlatone 2.0. La rinascita della filosofia come palestra di vita, Milano-Udine, Mimesis 2016 (d’ora in poi “P” – per avere un’idea del contenuto di questo libro si possono leggere due penetranti recensioni: la prima di Davide Ubizzo apparsa sulla rivista “Phronesis” (Anno XIV, numero 25-26, aprile 2016), la una seconda, a cura di Augusto Cavadi, su “Comunicazione filosofica”, n. 38, maggio 2017 -).

1. Chi desidera esercitare la consulenza filosofica come professione deve essere libero di adottare qualsiasi approccio metodologico (e, in ultima analisi, qualsiasi epistemologia della consulenza filosofica) che egli sia in grado di giustificare come filosofico (piuttosto che come psicologico, pedagogico ecc.) sulla base di criteri essenzialmente storico-culturali (con riferimento, cioè, sia alla storia della filosofia nel suo complesso, sia alla più recente storia della consulenza filosofica, a livello internazionale e nazionale); alla sola condizione che il proprio approccio non sia in contraddizione con i requisiti minimi che contraddistinguono una professione in quanto tale (vedi tesi n. 3).

Ciò si può esprimere anche dicendo che non vi è alcun processo, che possa venire analizzato nei suoi elementi o passi o fasi (ossia che possa essere ridotto a metodo), che caratterizzi in modo distintivo la consulenza filosofica.

Come vedremo (tesi n. 3), ciò che, piuttosto, contraddistingue la consulenza filosofica come professione è non tanto il processo, quanto il prodotto, per qualunque via vi si pervenga, che il consulente filosofico si impegna a offrire al cliente (consultante).

Prendo le mosse da questa tesi per mettere in discussione quella che mi appare una “facile semplificazione”, a cui purtroppo indulgono spesso gli stessi “addetti ai lavori”: quella che consiste nell’attribuire il mancato decollo della consulenza filosofica come professione all’eccessivo pluralismo degli approcci metodologici alla consulenza filosofica stessa.

Qualcuno lamenta, infatti, che tale pluralismo possa confondere il cliente. Si evocano, al riguardo, le difficoltà che i filosofi consulenti incontrano, non solo a promuovere la loro professione “porta a porta”, ma anche a ricevere per essa un giusto riconoscimento sociale.

Purtroppo, se il problema fosse questo sarebbe insolubile, salvo trasformare la consulenza filosofica, in quanto filosofica, dunque – come vedremo subito – strutturalmente autocritica e meta-teorica e, perciò, necessariamente plurale, in altro; con il risultato di farci riconoscere sì… ma non per quello che siamo, bensì per quello che non siamo, ossia non come filosofi, ma come professionisti (consulenti esistenziali? antropologici? logico-critici?) aderenti a una determinata prospettiva teorica.

In ogni caso, non solo manca la prova che il mancato decollo della professione sia legato al pluralismo degli approcci, ma, anzi, proprio l’ossessiva ricerca di una “definizione” di quello che, come filosofi consulenti, siamo, lungi dal portarci verso la soluzione dei nostri problemi di riconoscimento, può essere considerata parte importante della loro scaturigine.

Infatti, tale ricerca (di un’impossibile autodefinizione) denota una profonda insicurezza di ciascuno e di tutti, la paura quasi davanti a quella libertà con la quale la filosofia ci chiede (anzi ci impone) di venire esercitata.

Il “cliente” si accorge di questa nostra insicurezza e scappa (rivolgendosi a un professionista diversamente competente).

Oppure il cliente non riesce neppure ad accorgersene, perché non osiamo aprire uno studio, metterci in gioco, senza prima aver perimetrato, definito, esserci riconosciuti ed esserci fatti riconoscere… in un evidente regresso all’infinito (per la natura meta-teorica della filosofia) che rinvia sine die l’agire professionale.

Viceversa, se ci si colloca nella giusta prospettiva, il pluralismo degli approcci, più che un problema, può essere considerato una risorsa.

Ma perché l’esercizio filosofico appare condannato a tale libertà irreggimentabile?

La libertà del filosofo consulente è incomprimibile per una serie di ragioni.

a) Sotto il profilo strettamente teoretico ed epistemologico va sottolineato il carattere di “meta-teoria praticante” della filosofia e, per la proprietà transitiva, della stessa consulenza filosofica, nella misura, almeno, in cui si intenda la consulenza filosofica “come filosofia e nient’altro” [cfr. Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, Apogeo, Milano 2004, pp. 45-46, che riprende Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, tr. it. Apogeo, Milano 2004, p. 69; cfr. anche Neri Pollastri, Filosofia, nient’altro che filosofia, in AA.VV., Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo, Trapani 2008, pp. 21-34].

Come è noto, tale carattere meta-teoretico è dichiarato da Achenbach:

La pratica filosofica non è meta-teoricamente controllata, non viene cioè prima concepita e poi riflessa, ma è una meta-teoria praticante, si costruisce cioè solo come processo riflettente e pratico [Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 83, cfr. P, p. 56].

Ma tale carattere meta-teoretico è argomentato nel modo più chiaro e difficilmente aggirabile da Stefania Contesini:

La caratteristica distintiva della consulenza filosofica consiste [...] nella possibilità di applicare il proprio esercizio critico sui suoi stessi principi. Basti pensare al fatto che i contenuti attorno a cui più frequentemente si dialoga rimandano ai concetti di libertà, responsabilità, comunicazione, tempo, comprensione, i quali [...] costituiscono anche gli assunti a partire da cui la relazione si legittima. Non vi sono a priori garantiti. Gli stessi paradigmi di fondo rimangono domande aperte, sono materia oltre che presupposto del filosofare. In questo processo consulente e cliente condividono lo stesso compito riflessivo, il quale oltre ad appuntarsi sulla “visione del mondo” di entrambi, coinvolge gli stessi principi costitutivi della consulenza. Ogni consulenza filosofica mette dunque sempre in gioco se stessa come possibilità di darsi. Essa si costituisce come quella pratica che si interroga continuamente su di sé e che si dà, al tempo stesso, con un unico movimento, come pratica e come teoria della pratica. Ciò ne fa qualcosa di diverso [ecco una preziosa specificità!] rispetto alle altre forme di counseling, dal momento che qui si gioca il carattere distintivo della filosofia rispetto alle scienze umane. La filosofia è quel sapere che non può non chiedersi che cosa sta facendo, non può usare un metodo senza dare conto del metodo stesso [Stefania Contesini, Roberto Frega, Carla Ruffini, Stefano Tomelleri, Fare le cose con la filosofia. Pratiche filosofiche nella consulenza individuale e nella formazione, Apogeo, Milano 2005, p. 114; cfr. P, p. 56].

L’ultimo accenno di Contesini all’esigenza che la filosofia, nell’usare un metodo, debba sempre di nuovo ridiscuterlo, dandone conto, ricorda il noto “adagio” achenbachiano, secondo il quale la consulenza filosofica lavora non «con i metodi, ma sui metodi» [Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 13; cfr. P, p. 144, n. 108].

Alcuni sembrano ritenere che tale approccio meta-teorico non debba essere riferito alla singola consulenza filosofica, mentre si svolge, ma alla più generale riflessione che una comunità di professionisti deve essere libera di svolgere auto-criticamente, nel corso del tempo.

In questa interpretazione il singolo professionista, almeno se intende rimanere all’interno della comunità (che può assumere la forma di un’associazione professionale), dovrebbe accettare le regole che la comunità, per il momento, gli detta.

Tuttavia, tale interpretazione non coglie affatto quello che Achenbach intende e, soprattutto, non è compatibile col carattere intrinsecamente auto-critico del filosofare.

Può essere utile richiamare il contesto in cui Achenbach espone la sua idea della consulenza filosofica come “meta-teoria praticante”.

Egli perviene alla nozione di meta-teoria praticante nel contesto della trattazione di un “principio della consulenza filosofica”, consistente nell’affermazione che la consulenza filosofica nasce dall’interesse del (singolo) filosofo a fare filosofia (senza pretendere di imporre alcunché ad altri e neppure pretendere che questo stesso interesse sia condiviso). Bene, continua Achenbach, tale

principio della consulenza filosofica […] cresce solo sul terreno di una libertà senza confini. La filosofia che sa rispettare questo principio [dell'interesse soggettivo – non comunitario! - al filosofare] conosce allo stesso modo il motivo per cui piuttosto mette in questione se stessa, invece che evangelizzare gli altri senza scrupolo. Per questo la cultura filosofica è la nemica veemente di tutte le convinzioni sicure di sé, dei principi incorporati, […] della normatività imposta, cioè dell'universalità dichiarata. [Questo primo principio della consulenza filosofica, inoltre,] la obbliga […] a una tolleranza piena di comprensione; niente è più sgradevole di quella forma di rigidità intollerante che di norma fa il suo ingresso come risultato della certezza inviolabile, che non permette alcun dubbio su ciò che è giusto e vero. [Ne segue che] la consulenza filosofica non dispone in senso positivo di alcuna teoria che sia solo applicabile. [A differenza degli approcci psicologici e terapeutici in cui opera la “divisione tra teoria e meta-teoria”] non viene prima concepita [p.e. dalla comunità o associazione!] e poi riflessa [p.e. dal singolo professionista], ma è una meta-teoria praticante, si costruisce cioè solo come processo riflettente e pratico” [Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, cit., pp. 82-83].

La comunità professionale, del resto, non svolge attività di “pratica filosofica” nel proprio seno, se non in forma molto limitata (quando p.e. fa ricerca), come sono viceversa i dialoghi in cui consistono le consulenze filosofiche.

Quando la comunità delibera, in particolare, o “detta le regole”, lo fa con strumenti di “democrazia interna” in cui sono coinvolti – necessariamente – aspetti di “potere” che, pur essendo “preparati” da forme di ricerca in cui può essere coinvolto il filosofare, eccedono strutturalmente la dimensione della pura ricerca filosofica, proprio in quanto vincolano anche chi non si riconoscesse – magari per ottime ragioni filosofiche – in quanto deciso [magari] a [colpi di] maggioranza.

Tale vincolo “associativo” può essere accolto solo come “cornice” provvisoria all’interno della quale ciascun professionista colloca il proprio fare, ovvero come indicazione di contesto (storico).

Se, infatti, come argomenta un autorevole teorico del “fare professionale”, Donald Schön, l’agire professionale, in generale, riferito, cioè, a qualsiasi professione, non viene prima pensato e poi agito, ma si pensa mentre agisce e riflette sulla propria natura, per così dire sempre a posteriori, mai a priori (come dire: impara a nuotare solo chi si tuffa, non chi studia “teoria del nuoto”) [cfr. Donald Schön, Il professionista riflessivo, Dedalo, Roma 1993, p. 50; cfr. anche Antonio Cosentino, Filosofia come pratica sociale. Comunità di ricerca, formazione e cura di sé, Apogeo, Milano 2008, p. 26], a maggior ragione, ciò varrà, come argomenta Achenbach, per la consulenza filosofica. che non è equivalente ad altre attività professionali, ma strutturalmente libera e autocritica, “riflessiva al quadrato”, per cosi dire.

Tale pratica, dunque, non potrà essere indotta a seguire procedure che costringerebbero il filosofare al rispetto di regole estrinseche alla pratica medesima.

L’equivoco qui nasce da un’errata pretesa.

Si dice che, come filosofi, dovremmo essere in grado di chiarire preliminarmente, prima (di agire, di promuoverci ecc.), quello che siamo, meglio e più di altri;  che il nostro compito “costitutivo” sarebbe proprio quello di definire ciò che siamo; fino al punto, una volta definita la consulenza filosofica così e così, da riconoscere che le vie (e le corrispondenti “associazioni professionali”) di chi non si riconoscesse in questa raggiunta e luminosa definizione dovrebbero divergere (e amici come prima).

Ma l’esperienza storica del filosofare, così come la natura meta-teorica del medesimo, permette facilmente di “profetare” che, ad andare a fondo in questa direzione, si finirebbe per costituire un’associazione per ciascun consulente filosofico. Anzi, costui/costei dovrebbe continuamente sciogliere e ricostituire la sua associazione personale ogni volta che qualche dialogo filosofico gli/le dovesse far cambiare idea (change his/her mind) sul modo in cui lui stesso/lei stessa ha definito quello che fa.

Si dimentica che il filosofare non consiste affatto nel compito (che Hegel direbbe “intellettualistico”, non “razionale”), proprio piuttosto dei saperi “scientifici”, di “definire”, ma, al contrario, di problematizzare ogni definizione, comprese quelle che istituiscono la stessa pratica filosofica. Ciò risulta – se si vogliono evocare fonti autorevoli – anche da un passo poco noto della VII Lettera di Platone (che cito in P, p. 139 e ss.), oltre che, come detto, dall’esperienza storica.

Tutto questo che cosa ci suggerisce? Che, se la filosofia è tenuta in quanto tale a mettersi continuamente in discussione nei propri stessi fondamenti epistemologici e metodologici mentre si esercita [cfr. P, p. 56] e se svolgere una consulenza filosofica è un modo di fare filosofia, non è possibile predeterminare a priori un’epistemologia della consulenza filosofica vincolante per tutti i professionisti del settore (come non è possibile la quadratura del cerchio).

Ciò, del resto, risulta chiaramente dal da me più volte citato [cfr. P, pp. 417-18, n.8] testo insuperato di Neri Pollastri:

Se [...] la consulenza filosofica è vera e propria filosofia, una teoria su di essa non può configurarsi che come una “teoria” della filosofia stessa, ovvero qualcosa di probabilmente impossibile e comunque a sua volta mai neppure tentata nella storia del pensiero. Come potremmo – senza cadere in depauperanti schematismi o, al contrario, in trattati infiniti e disorientanti – racchiudere in un’unitarietà teoretica onnicomprensiva le molteplici e diversissime forme in cui, negli oltre due millenni e mezzo di storia umana, i pensatori hanno coniugato l’agire filosofico? E come potremmo definire compiutamente e univocamente il “metodo” del loro pensare? [Pollastri, Il pensiero e la vita, cit., p. 19].

Come si legge, qui Pollastri non evoca solo le moltissime forme in cui i pensatori hanno elaborato dottrine, ma, giustamente, anche le moltissime forme in cui essi hanno “coniugato l’agire filosofico”. Si tratta, dunque, di metodo, come scrive lo stesso Pollastri. E, infatti, egli ne ricava l’impossibilità di una teoria della consulenza filosofica.

Il che ci porta alla seconda macro-ragione per la quale il filosofo consulente professionista deve essere libero di adottare qualunque metodo egli possa giustificare come filosofico su basi storico-culturali.

b) Le differenze tra i filosofi non hanno riguardato soltanto le loro dottrine, ma anche e soprattutto i loro metodi e, più in generale, la nozione stessa di “filosofia” che ciascuno di essi presupponeva o, talora, argomentava. Come scrive Luciana Regina, la filosofia, nel suo procedere, “produce contenuti che si fanno metodo” (cioè, intendo: il metodo di un filosofo discende sovente dalla sua dottrina, in quanto essa ha determinate implicazioni logiche, linguistiche, psico-logiche, antropologiche ecc.) [Luciana Regina, Consulenza filosofica: un fare che è pensare, Unicopli, Milano 2006, p. 92, cit. in P, p. 358]. Ciò comporta un insopprimibile pluralismo (epistemologico, meta-filosofico) circa la nozione stessa di “filosofia” (analogo al pluralismo relativo alla nozione di “psicologia”, ma, se possibile, ancora più marcato) che rende impossibile determinare per via teorica in maniera univoca (e vincolante per tutti i professionisti) in che cosa debba consistere il “filosofico” nella consulenza filosofica.

Al problema di “Quale filosofia fare?” in consulenza filosofica è dedicato l’intero cap. 5 del mio libro, che parte appunto dalla premessa, storicamente rilevabile, dell’insopprimibile pluralismo della filosofia, non solo dottrinale, ma anche epistemologico.

N. B. Chi ha letto o anche solo sfogliato il mio libro sa che privilegio il paradigma metodologico platonico (l’approccio maieutico socratico così come documentato da Platone) in apparente contraddizione con l’asserito insopprimibile pluralismo epistemologico. La mia tesi paradossale, tuttavia, è che Platone ci avrebbe consegnato una sorta di “metodo del non metodo” (proprio come Achenbach!), anche per l’impossibilità di sapere che cosa egli abbia veramente inteso a partire da quello che egli ne ha scritto. Semplicemente: in positivo, Platone consegna, a chi vi trova spunti metodologici, una sicura fonte di legittimazione del proprio approccio, per chi avesse dubbi riguardo la filosoficità di altri approcci. Ai fini della ricerca di un approccio alla filosofia in grado di farne una professione (nella forma della consulenza), tuttavia, la mia predilezione per Platone può tranquillamente essere messa tra parentesi, in quanto essa pretende (a ragione o a torto) di essere inclusiva e non esclusiva di ogni alto approccio che si voglia filosofico [cfr. P, p. 418].

Piuttosto, sempre in questo quinto capitolo del mio libro, mi concedo di “sdoganare” come filosofici, argomentandolo, metodi e approcci molto diversi, tutti storicamente attestati come tali, tutti presenti in Platone, ma non tutti legati, ad esempio, a procedimenti di tipo logico-critico, nei quali alcuni filosofi consulente, come l'”ultimo Pollastri” (ad onta della sua confutazione della possibilità di derivare una “teoria della consulenza filosofica” da una “teoria della filosofia”), sembrano inclini a ricercare il minimo comune denominatore delle diverse forme del filosofare.

Come ci ricordano Hadot e Foucault, nel mondo greco-romano era considerato “filosofo”, ad esempio, colui che cercava semplicemente di perseguire la saggezza conservando l’imperturbabilità ed esercitando le diverse virtù secondo le indicazioni di qualche maestro. Precisiamo: ciò non implicava l’obbedienza cieca e passiva a dogmi – come a volte si scrive -, ma, verosimilmente, la loro profonda comprensione e condivisione in quanto continuamente verificati dalla propria esperienza [cfr. P, pp. 445-450].

Ora, un filosofo consulente che, “artigianalmente” (per dirla con Davide Miccione), aiutasse se stesso e il proprio interlocutore, maieuticamente, a cercare in se stesso le risorse per essere “più saggio” e “vivere meglio” non svolgerebbe correttamente la professione di “consulente filosofico”? Dovrebbe darsi un altro nome – che ne so? – “consulente morale”, “consulente esistenziale”? Assolutamente no, se ammettiamo il legittimo pluralismo degli approcci professionali in quanto rampolla dal legittimo pluralismo dei modi, storicamente documentati, di intendere la “filosofia”.

Analogamente, in P, p. 532 e ss., mi concedo di “sdoganare”, sotto il profilo strettamente filosofico, l’empatia come possibile, legittimo metodo da mettere in gioco all’interno di un dialogo, con una serie di avvertenze critiche (Altra cosa sarebbe se mi servissi acriticamente dell’empatia “perché funziona”, “aiuta la relazione” o simili, senza giustificarne l’uso come filosofico).

L’obiezione potrebbe allora essere. Ma allora siamo nell’anarchia più totale? Anything goes?

Come Hegel distingue tra “intelletto” e “ragione”, in modo quasi rovesciato la tradizione platonica (così come molti altri autori fino a Husserl), distingue tra procedimenti logico-discorsivi (limitati, esposti al regresso all’infinito e all’antinomia, cfr. i teoremi di Goedel ecc.) e atti di intuizione/intelligenza/intellezione, non meno filosofici, anzi forse tali da caratterizzare il “filosofico” distinguendolo dallo “scientifico” [cfr. P, p. 441 e ss. e passim]. Probabilmente la domanda “Che cos’è la consulenza filosofica?” non ha, allora, una risposta in termini di definizione, ma in termini di intuizione/comprensione (e, conseguente, discernimento, cfr. P, p. 440).

Come è noto, Agostino dice del tempo:

Se nessuno me ne chiede, lo so bene [che cosa sia il tempo]: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so [Confessioni, XI, 14]

Noi sappiamo perfettamente che cos’è l’amore o una retta, ma vi sono molte diverse definizioni dell’una cosa e dell’altra (e probabilmente nessuna esaustiva, non foss’altro perché nascostamente circolari: tipicamente la definizione di retta presuppone la nozione di punto, ma per definire un punto devo evocare l’intersezione di due rette!). Così noi distinguiamo il rosso dall’arancione, ma non sapremmo dire, visivamente, dove passa esattamente il con-fine tra l’uno e l’altro, tale da de-finire l’uno e l’altro (questa metafora valga per la differenza tra filosofia e psicologia o tra filosofia e direzione spirituale, per esempio).

Si può anche evocare il celebre esempio del “gioco” nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein [cfr. Ricerche filosofiche (1953), tr. it. Einaudi, Torino 1999, Oss. 46-47, pp. 66-67]: tutti sappiamo che cos’è un gioco, ma quando cerchiamo di “definirlo” quelle che afferriamo sono solo “somiglianze di famiglia”.

In generale, noi sappiamo prima (oscuramente) che cosa sono le cose e poi cerchiamo di definirle (altrimenti non sapremmo neppure che cosa dovremmo definire). Non sempre, però, il passaggio è possibile e ci dobbiamo portare a casa un po’ di oscurità. Al riguardo evoco a più riprese, nel mio libro, la nozione di pre-comprensione di Heidegger-Gadamer. Forse ci si può avvicinare ad afferrare verbalmente qualcosa, ma non è mai possibile esaurire la cosa attraverso la definizione (notate che questo vale per le cose più importanti come Dio o l’amore). L’avvicinamento è un avvicinamento storico, che si consegue mettendo per così dire in “risonanza” la letteratura su un argomento (p.e. la consulenza filosofica) senza presumere di pervenire a una definizione univoca e condivisa, che, in definitiva, sarebbe meramente verbale, impoverendo la ricchezza semantica e la plurivocità – che non significa “confusione” – della cosa da definire (si pensi alla nozione di “essere” in Aristotele, per esempio).

La controprova: esiste da anni un’associazione per la consulenza filosofica riconosciuta perfino dallo Stato, alcuni dei suoi soci esercitano la professione, eppure non esiste affatto una definizione condivisa su che cosa esattamente sia quello che costoro fanno. Per quanto ciò possa essere visto come un limite (o una della ragioni del difficile decollo della professione – cosa che io contesto, come già detto – ), come si vede la mancanza di “definizione” non impedisce affatto, in assoluto, che professione sia.

Dunque imbarchiamo tutti nella “nave” di una comunità di (sedicenti) filosofi consulenti? Chiunque può fare qualsiasi cosa? Come discriminare il “valido” filosofo consulente dal ciarlatano? Come garantire l’utenza?

In primo luogo vige un criterio interno di selezione, meglio: di riconoscimento in ingresso: il professionista (pensiamo a un aspirante filosofo  consulente che voglia concludere il suo percorso formativo alla professione), oltre a conoscere a fondo la letteratura, a dover dare prova convincente delle sue capacità pratico-filosofiche attraverso il dialogo, deve soprattutto saper giustificare convincentemente che quello che pratica sia filosofia e non altro (attingendo alla letteratura a questo punto non solo pratico-filosofica, ma filosofica, in generale). Egli mi potrebbe, ad esempio, sorprendere, riuscendo a confutare quello che ho sempre creduto che la consulenza filosofica fosse. Ciò esclude che si possa dettagliare un elenco di competenze rigidamente prescritte.

In secondo luogo è lo “spirito del tempo” a decidere che cosa possa o non possa essere “consulenza filosofica”, proprio attraverso la “selezione naturale” a cui sono sottoposti i nostri tentativi di trasformarla in una vera professione. Non c’è alcuna ragione di aggiungere alla durezza del mercato, ulteriori limitazioni endogene provenienti, per esempio, da codificazioni restrittive dell’agire dei filosofi consulenti. Semmai (vedi sotto la mia tesi n. 2) possiamo ricercare quali vie siano più promettenti di altre.

A partire da questa doppia selezione, preso atto che siamo già molto diversi gli uni dagli altri e che questa diversità non può essere diminuita, si tratta di ricercare con pazienza l’inevidente terreno comune – possibilmente tra coloro che davvero esercitano la professione -, forse difficile da racchiudere dentro uno slogan, ma senz’altro possibile oggetto di una descrizione/narrazione di tipo storico (vedi ancora la mia tesi n. 2).  Che questo terreno sussista credo sia abbastanza evidente, non foss’altro perché la nostra storia è comune e ci contaminiamo continuamente reciprocamente.

c) Se tutto questo non bastasse, un’analitica delineazione del processo (o del metodo) della consulenza filosofica, non solo non è possibile per le ragioni fin qui richiamate, ma non appare neppure necessaria, nella misura in cui non è affatto richiesta affinché la filosofia possa diventare una “professione”.

In nessun passaggio la legge 04/13 sulle professioni non ordinistiche fa riferimento al “processo” come carattere che qualificherebbe una pratica come professione, né viene richiesta un’analitica delineazione della metodologia che la contraddistinguerebbe. È vero che non dobbiamo accettare acriticamente la nozione giuridica di professione, ma è anche vero che non abbiamo alcuna particolare ragione per respingerla o inventarne altre. In ultima analisi il processo (anche inteso genericamente, senza scendere in dettagli) non contraddistingue una pratica come professione (cioè in quanto attività “dichiarata”, “comunicata”, socialmente, economicamente riconosciuta, pro-fessata), ma, semmai, una pratica in quanto tale (anche se essa non fosse esercitata professionalmente).

Forse lo psicoterapeuta è tenuto a dare conto al paziente (al quale egli si presenta come accreditato professionista) del processo che attiva? Tali indicazioni relative al “come”, al processo saranno semmai riservate agli addetti ai lavori, p.e. agli studenti di psicoterapia (e, anche a costoro, nelle infinite differenze e sfumature che contraddistinguono le singole scuole di psicoterapia). Nel patto che stipula col cliente egli gli chiarirà qual è l’obiettivo della sua attività, che cosa richiede al cliente in termini di disponibilità ecc., ma si guarderà bene dal dettagliare il processo, dicendogli ad esempio: “Se mi racconterà un sogno, lo interpreterò cercando di scoprire l’effetto su di Lei del modo in cui Lei è uscito p.e. dal complesso di Edipo ecc.”

Anche per quanto riguarda il confronto con altre professioni: sarebbe perfino ridicolo che il consulente filosofico si mettesse a inseguire analiticamente le differenze (o le inventasse) tra lui e l’analista esistenziale, l’antropologo praticante, il logoterapeuta e chi più ne ha, più ne metta. Basta che il consulente filosofico sappia fare il suo mestiere, giustificando, se richiestone, come filosofico il proprio approccio, del tutto indipendentemente da casuali somiglianze o coincidenze con altre professioni.

A questo punto qualcuno potrebbe sollevare un’obiezione: “Tu, che sostieni che, per una serie di ragioni, la consulenza filosofica, in quanto forma della filosofia, non sia riconducibile a un’epistemologia determinata, non sviluppi, anche tu, in un certo senso, un’epistemologia della consulenza filosofica?”.

In un certo senso è così, certamente. La chiamerei, tuttavia, piuttosto una meta-epistemologia, che, per quanto ho finora argomentato, mi sembra comunque più giustificata e giustificabile di ogni altra possibile epistemologia, che sarebbe necessariamente, ma ingiustificatamente, più restrittiva e riduttiva. Il mio approccio, infatti, da un lato, storicamente, “fotografa” meglio di ogni altro il multiverso delle attuali pratiche filosofiche (e dei molti stili in cui la stessa consulenza filosofica si coniuga), senza introdurre limiti e vincoli che sarebbero giustificabili solo idiosincraticamente (in definitiva arbitrariamente); esso, inoltre, “autorizza” il filosofo consulente ad attingere liberamente al patrimonio non tanto dottrinale quanto metodologico di ciò che, di nuovo storicamente, consideriamo “filosofia,” anche qui senza porsi limiti che avrebbero carattere meramente idiosincratico e scarsamente giustificabile.

2. Lo sforzo della ricerca sulla propria professione a cui i filosofi consulenti sono chiamati, deve, dunque, essere orientato a riconoscere gli stili principali, storicamente emergenti e, dunque, più diffusi, nei quali la filosofia si professionalizza (come consulenza) con maggiore efficacia (l’obiettivo della ricerca, cioè, deve essere descrittivo e non prescrittivo); al duplice fine: a) di organizzare un’efficace formazione alla consulenza filosofica e b) di presentarla pubblicamente in modo onesto (senza mai sottacere ai potenziali utenti l’insopprimibile pluralismo di stili e prospettive). Sulla base di quanto premesso la presentazione, interna ed esterna, avrà, dunque, carattere storico-culturale (narrativo) piuttosto che teoretico-fondazionale.

Ciò segue chiaramente dal carattere meta-teoretico della consulenza filosofica. L’importante è non considerare la presentazione storico-culturale una diminutio rispetto al preteso afferramento logico-teoretico della consulenza filosofica come professione. Infatti, quest’ultimo, oltre che impossibile, potrebbe essere anche meno esplicativo, di una presentazione storica, della ricchezza semantica di una nozione (neppure esente da interne contraddizioni, come è proprio di tutte le nozioni di una certa rilevanza).

Alla luce della nostra esperienza professionale (più che di qualsiasi altro riferimento bibliografico), ma anche in osservanza delle indicazioni normative e culturali, di provenienza nazionale ed europea, circa i requisiti delle moderne professioni, possiamo, come professionisti in ricerca sulla propria professione (già esistente e già esercitata!), suggerire semplicemente alcune possibili condizioni che potrebbero favorire più di altre la professionalizzazione della filosofia come consulenza (quel “salto” o “discontinuità” dalla filosofia “tradizionale” alla professione della consulenza sul quale molti colleghi invitano a riflettere).

a) Una condizione favorevole all’esercizio della professione è senz’altro la forte motivazione del filosofo consulente a esercitare la professione (filosofo che deve saper giustificare, almeno a se stesso, le ragioni di questo “passaggio all’atto” professionale); motivazione, tuttavia, che potrebbe essere legittimamente diversa per ciascuno di noi, stante l’insopprimibile pluralismo nelle concezioni della filosofia da cui prendiamo le mosse; anche se, in sede di ricerca, è sempre possibile cercare qualche minimo comune denominatore emergente come storicamente prevalente in questo tipo di motivazione.

Nel mio caso, ad esempio, la motivazione è questa: la filosofia “accademica” e “scolastica” mi sembra una “luogo-tenente” della “vera filosofia” (come sembrava anche a Gerd Achenbach – cosa che spesso non si ricorda – cfr. La consulenza filosofica, cit., p. 142, cit. in P, p. 49, n. 2; cfr. anche P, p. 450 e ss.), “vera filosofia” (come dialogo orale) che sarebbe finita con la fine del mondo antico; le pratiche filosofiche e in particolare la consulenza filosofica sarebbero un modo “postmoderno” (legato, cioè, al nostro tempo) di “resuscitare” la “vera filosofia” (di qui il sottotitolo del mio libro), il solo modo di fare filosofia oggi. A quale scopo? Per conseguire (il bene e) la felicità! Per dare senso alla propria vita (può bastare? Tutto il mio libro sottende tale ipotesi, anche se forse non la mette nella giusta evidenza).

Capisco perfettamente che questa motivazione è legata a una ben precisa “filosofia” della “filosofia”, legittimamente non da tutti condivisa. Ciò esemplifica bene la difficoltà che abbiamo di trovare una motivazione buona per tutti.

La sola motivazione “universale” che mi viene da suggerire – e che mi è stata suggerita da Luca Comino, che fu tra i pionieri della consulenza filosofica in Italia – è che, come i nostri consultanti, tutti noi viviamo in un’epoca di nichilismo e di erosione del senso offerto dalle altre agenzie tradizionali (chiesa, scuola, scienza, stato, partito ecc.) e, quindi, ricerchiamo insieme a loro (ai consultanti) questo senso perduto.

b) Se si vuole enfatizzare la dimensione professionale della consulenza filosofica, nel descrivere la consulenza filosofica si deve adottare un linguaggio accessibile e appetibile per i “non filosofi”.

Si potrebbe ad esempio tradurre l’obiettivo della “chiarificazione della visione del mondo” del consultante di turno, spesso sottolineato dalla letteratura sulla consulenza filosofica, dicendo che la consulenza filosofica aiuta (perché non “sdoganare” anche il verbo “aiutare”?) chi la richiede a orientarsi efficacemente nel mondo (in un mondo sempre più frammentato e confuso) e a ritrovare un senso (e un gusto?) per la vita, risolvendo/dissolvendo (o, almeno, favorendo la risoluzione di) tutti i propri problemi (non solo quello per cui la si è richiesta, vedi la mia tesi n. 3).

Sembra un obiettivo ambizioso, ma, se ci si riflette, intendendo opportunamente nozioni come “orientamento”, “senso”, “aiuto”, “problema” ecc., potrebbe essere un’interpretazione/traduzione, soltanto più efficace sotto il profilo della comunicazione (anche a noi stessi, filosofi consulenti!), di quanto, in fondo, già ampiamente sostenuto in letteratura.

c) Probabilmente, infine, alcuni stili (non uno solo!) più di altri sono adatti alla professionalizzazione della filosofia come consulenza.

La presentazione della consulenza filosofica può senz’altro privilegiare, dunque, anche per ovvie ragioni di spazio e di tempo, gli stili più promettenti o che appaiono più legittimati storicamente o più adatti a una professionalizzazione efficace.

Tutto ciò coniugherebbe verità (storica) ed efficacia (retorico-promozionale), senza evocare vane, ulteriori “rotture” tra colleghi che non si riconoscessero più come tali (o simili).

Ad esempio, chi intendesse la filosofia come ricerca metafisica dei principi e delle cause prime, ponendosi come prioritaria la domanda sull’esistenza di Dio (procedendo top down), e considerando la risposta a tale domanda preliminare alla soluzione di qualsiasi altro problema (e chi potrebbe dargli torto?), al di là delle sue eventuali pretese dogmatiche (poniamo che si limiti a porre la domanda senza dare risposta), non sembrerebbe molto adatto a svolgere una funzione di consulente filosofico, come è comunemente intesa (storicamente emergente).

Chi, come Oscar Brenifier, alla precisa domanda: “Perché lo fai?”, rispondesse “Perché è divertente” (cfr. «Phronesis», IX, n. 16, 2001, pp. 54-55, cit. in P, p. 656, n. 187), si direbbe in grado di raggiungere un’élite di intellettuali che intendono il filosofare come attività principalmente ludica, ma non molti altri potenziali consultanti.

Verosimilmente, quindi, si tratta di adottare stili non solo legittimi in quanto filosofici (come sarebbero anche quello metafisico e quello ludico sopra evocati), ma anche efficaci in quanto pertinenti a un’attività di consulenza filosofica, che, vuoi o non vuoi, deve rispondere a un bisogno di un “non filosofo”  (foss’anche quello minimo di fare chiarezza in se stesso, vedi ancora la mia tesi n. 3).

Proprio il ricco pluralismo di riferimenti filosofici che si possono evocare per giustificare il proprio approccio metodologico consente proprio quello che una rigida perimetrazione impedirebbe: di trascegliere proprio quello stile che appare più consono ai bisogni che si intendono soddisfare (vedi tesi seguente).

3. Fermo restando il carattere meta-teoretico della consulenza filosofica, con la conseguente impossibilità di fissarne una volta per sempre il metodo e il conseguente pluralismo degli stili con cui essa può venire esercitata, storicamente ed empiricamente rilevabili come più o meno promettenti, resta un requisito (al quale finora abbiamo alluso senza metterlo meglio a fuoco) in assenza del quale l’esercizio della consulenza filosofica in quanto professione sarebbe impossibile: la soddisfazione della domanda del (potenziale) cliente, il consultante.

Sotto questo profilo, mentre, come abbiamo visto, non è affatto necessario, né possibile delineare il processo in cui si articola una consulenza filosofica (in quanto meta-teoria praticante, che lavora non con i metodi, ma sui metodi), è del tutto possibile, anzi necessario riflettere sul prodotto offerto da una consulenza filosofica, in quanto professione, a chi ne fa richiesta.

Perché è necessaria una precisazione del prodotto a cui una consulenza filosofica, in quanto professione, deve dare luogo?

Perché è ciò su cui siamo fondamentalmente carenti, sebbene esso contraddistingua una professione in quanto attività economica, volta alla soddisfazione di qualche tipo di domanda (ossia bisogno, ossia alla soluzione di problemi).
Se, infatti, facciamo ricerca sulla professione, che esiste in quanto è riconosciuta giuridicamente, è perché essa “non esiste” in qualche altro senso, e cioè precisamente in termini di riconoscibilità/visibilità sociale, commerciale, economica ecc., cose che non possono essere “rubricate” come estrinseche questioni concernenti il marketing.

Come, dunque, caratterizzare positivamente e senza contraddizione (con il legittimo pluralismo degli approcci) il prodotto complessivo di una consulenza filosofica?

In generale, a clienti e società un professionista  deve dare conto, non tanto di come fa quel che fa (del processo che mette in atto), quanto soprattutto dei risultati attesi (di “quel che fa”, inteso come l’oggetto della pratica, in quanto questo è distinto da generiche finalità) e dei criteri di qualità (o anche solo di riuscita) della pratica medesima.

Nel caso della consulenza filosofica

  1. oggetto della pratica sarà la “canonica” chiarificazione della visione del mondo (in quanto oggetto della filosofia, come ricerca della conoscenza);
  2. criterio di riuscita (e di qualità) sarà (il grado del)la soddisfazione del cliente.

Per quanto riguarda la chiarificazione della visione del mondo del consultante,  possiamo evocare, a titolo esemplificativo, il § 4 della Perimetrazione della consulenza filosofica a cura dell’associazione Phronesis [in «Phronesis», XI, n. 19-20, 2013, p. 15, art. C4, prima parte]: “La consulenza filosofica ha il fine fondamentale di chiarire, arricchire, rendere più articolata e profonda la visione del mondo del consultante”.

La precisazione di un simile “oggetto” limita il pluralismo degli approcci alla consulenza filosofica? Non se intendiamo la “chiarificazione della visione del mondo” come la forma, storicamente emersa per la specifica pratica filosofica in cui consiste la consulenza filosofica, del fine più generale della filo-sofia, in quanto amore della saggezza, dunque ricerca della conoscenza (nei modi più diversi – ecco preservato il pluralismo).

Ma, se conseguire tale chiarificazione è senz’altro un fine legittimo della consulenza filosofica, in quanto attività filosofica, anche la costumer satisfaction è a pieno titolo un criterio di riuscita della consulenza filosofica come professione. Possiamo senz’altro affermare, quindi, che obiettivo (prodotto) della consulenza filosofica siano, a diverso titolo, sia la chiarificazione della visione del mondo del consultante, sia la soddisfazione dello stesso consultante (in quanto cliente).

N. B. In questa versione la caratterizzazione distintiva della professione è fortissima: se tu non pervieni a una chiarificazione della visione del mondo, quale che sia il processo attraverso cui ha ottenuto i benefici attesi dal “cliente”, non hai fatto filo-sofia, ergo neppure consulenza filosofica.

Perciò è del tutto ingiustificato accusare l’attenzione al bisogno del cliente come “volgarmente” orientata esclusivamente e comunque alla soddisfazione del cliente stesso. Questa soddisfazione è bensì condizione per la riuscita della pratica ed è tale da contraddistinguere la pratica come professione (come attività economica), ma non è la sola: bisogna anche che la pratica sia svolta in un certo modo (che è qualunque modo produca chiarificazione della visione del mondo).

Gli argomenti tradizionali contro il fatto che la consulenza filosofica soddisfi bisogni e risolva problemi, che hanno ostacolato finora l’emergere del carattere professionale della consulenza filosofica, così come è postulato dalla legge e dal senso comune (che poi è il sentire dei nostri potenziali clienti), non sono così cogenti sembrano.

Ad esempio non è così cogente il riferimento stretto ad Achenbach, che sembra negare che una consulenza filosofica possa soddisfare il bisogno del “cliente”.

Non possiamo certo ignorare che storicamente proveniamo da Achenbach (in senso culturale ed ermeneutico), ma questo fa di Achenbach un’autorità, da cui non potremmo prescindere per definirci? [Analogamente “non possiamo non dirci cristiani” storico-culturalmente (Croce), anche se siamo atei, ma questo fa di noi fondamentalisti cristiani, che si fondano dogmaticamente sul Bibbia letteralmente intesa?]. È ben possibile andare oltre Achenbach, sviscerandovi contraddizioni e incongruenze oppure  alla luce dell’esperienza professionale associativa o anche solo personale storicamente maturata o infine grazie alla riflessione teorica via via prodotta (cfr. scritti di Regina, Zampieri, Giacometti ecc.).

Ad esempio è del tutto discutibile che il libro sulla Lebenskönnerschaft di Achenbach sia pertinente alla fondazione teoretica della consulenza filosofica alla stessa stregua dei saggi contenuti in La consulenza filosofica dello stesso Achenbach (o più di quello che hanno scritto Morstein, Lahav, Gutknecht ecc.).

Ammesso e non concesso di prendere Achenbach come autorità, inoltre, bisogna intendere bene quello che Achenbach afferma, quando scrive, per esempio:

Nel momento in cui la filosofia si rifiuta di soddisfare il bisogno che le viene direttamente incontro, nel momento in cui essa piuttosto comincia a riflettere su questo stesso preteso bisogno per renderlo oggetto dei suoi interessi e per diminuirgli così la sua validità temporanea e limitata, la filosofia si trova in una relazione chiaramente differente verso il bisogno che la richiede, rispetto a quella tipica delle solite professioni. [...] Invece di servire senza riserve i bisogni con i quali viene in contatto [...] è giustappunto la loro critica approfondita.
[Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 81]

O quando dice che “la consulenza filosofica è una delusione mirata, un’irritazione dell’aspettativa” [ivi, p. 85].

Che cosa intende esattamente Achenbach? Se la consulenza filosofica non soddisfa il bisogno immediato o esplicito del consultante (il bisogno che “le viene direttamente incontro”), potrebbe forse soddisfare un bisogno implicito (di “verità”, di “senso”, ma, perché no?, anche di “ben-essere” ecc.); se la consulenza filosofica non è terapia nel senso del paradigma terapeutico di Furedi (non partecipa al gioco della “medicalizzazione” del disagio) [cfr. Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, cit., p. 93], potrebbe essere therapèuein in senso socratico ecc.

Non bisogna dimenticare che, come ricorda la nota filosofa consulente israeliana Schlomit Schuster, lo stesso

Achenbach valuta la qualità del dialogo filosofico dalla capacità di recare beneficio; è il criterio per distinguere tra consulenti competenti e incompetenti [!].
[Schlomit Schuster, La pratica filosofica. Una alternativa al counseling psicologico e alla psicoterapia, tr. it. Apogeo, Milano 2006, p. 51; Schuster evoca in questo passaggio quanto scrivono Gerd Achenbach e Odo Marquard, nell'articolo Diese Biene ist ein Lügner: Der Philosoph als Berater, in "Zeitschrift für Philosophische Praxis", 2, 1994, p. 4]

Vi sono fior di tradizioni filosofiche (da Epicuro al pragmatismo americano, attraverso l’utilitarismo inglese) che considerano la filosofia strumentale alla soluzione di problemi e alla soddisfazione di bisogni (dunque al fatto di arrecare, come dice Achenbach e ricorda Schuster, qualche genere di beneficio).

Su tale linea (in particolare in quella dello strumentalismo di Dewey) si colloca ampiamente anche Donald Schön, la cui nozione di professionista riflessivo è stata, giustamente, spesso evocata per inquadrare l’approccio professionale, aperto e autocritico, che dovrebbe contraddistinguere il consulente filosofico.  Ad esempio quando afferma:

Non è attraverso la soluzione di problemi a livello tecnico che convertiamo situazioni problematiche in situazioni con problemi ben formulati; piuttosto è attraverso l’attribuzione di un nome e l’impostazione che la soluzione di un problema a livello tecnico diventa possibile.
[Donald, Schön, Il professionista riflessivo, cit., p. 34]

È chiaro che Schön propone certamente modi intelligenti di ristrutturazione e riproposizione dei problemi posti al professionista, in quanto riflessivo, rispetto all’approccio della “razionalità tecnica”, ma non certamente per omettere di pervenire a qualche tipo di soluzione, ma anzi per soddisfare meglio che in un approccio “classico”, proprio i bisogni dei clienti (“la soluzione di un problema a livello tecnico diventa possibile“). Se egli non mette sempre la cosa a tema, è perché lo considera ovvia.

Una professione che non consideri la soddisfazione del cliente come misura (anche se, certamente, non l’unica) del suo valore, in quanto professione (non in in quanto pratica, in generale) si nega come professione, venendo meno quel carattere economico (relativo alla scambio di beni o servizi, cfr. legge 4/2013, art. 1, c. 2) che dovrebbe contraddistinguerla; nella misura, almeno, in cui il guadagno del professionista (anche il guadagno minimo che consente alla professione semplicemente di esistere, ripagando le spese ad essa collegate) è strettamente connesso alla soddisfazione del cliente (che, in quanto soddisfatto, ritorna e fa buona pubblicità all’attività a terzi).

Anzi, il cliente, più che offrire la sua soddisfazione come dato da interpretare come prova della riuscita della consulenza filosofica, dovrebbe essere soggettivamente coinvolto nel processo di valutazione (“apprezzamento” nei termini di Donald Schön), nella misura in cui una seria professione (come p.e. quella del docente) è sempre soggetta a forme tanto di auto- e co-valutazione (ad opera della comunità dei pari), quanto di etero-valutazione (p.e. da parte degli studenti).

La soddisfazione del cliente e la soluzione dei suoi problemi sembrano criteri relativi alla riuscita piuttosto classici e anche ovvi per quanto riguarda professioni che si presentano come simili alla nostra. Poiché lamentiamo propria la scarsa riconoscibilità della nostra attività come attività professionale, prima di respingerli (come abbiamo storicamente fatto, sulla scia di Achenbach) ci sarebbe da riflettere non una, due o tre, ma mille volte.

Si potrebbe, dunque, in definitiva, complicare come segue l’eterogenesi dei fini che contraddistingue, come molti hanno rilevato, la pratica filosofica in quanto attività professionale, aumentando di un livello la complessità in gioco:

  1. La consulenza filosofica  come pura pratica delude le aspettative immediate del consultante (Achenbach) riguardo i suoi problemi e i suoi bisogni (i fini immediati del consultante) e gli propone come fine squisitamente filosofico la chiarificazione della sua visione del mondo, qualunque sia il processo, dunque qualunque sia il mezzo attraverso di cui essa persegue tale fine (primo livello di eterogenesi).
  2. La consulenza filosofica come professione, garantendo di servirsi di un “metodo” (in senso generico) filosofico (che consiste nel perseguire la chiarificazione della visione del mondo del “cliente”, a questo livello considerata come strumento o mezzo piuttosto che come fine), persegue il fine di soddisfare qualche bisogno “profondo” del cliente, anche sicuramente ma non solo risolvendogli/dissolvendogli il problema (più o meno apparente) iniziale (soluzione che, quindi, anche se non perseguita ossessivamente, può benissimo essere rubricata come criterio di riuscita della pratica) (secondo livello di eterogenesi).

Si potrebbe fare il paragone con l’azione dell’oculista.

Un bravo oculista ha per fine immediato la determinazione dell’esatto difetto visivo del paziente, affinché egli possa procurarsi lenti adatte e vivere meglio (guidare, apprezzare il panorama, godere della bellezza della propria compagna ecc.).

I mezzi di cui si serve l’oculista attengono alla sua professionalità e non c’è bisogno che siano comunicati al paziente. Per quel che ne sappiamo, oculisti diversi possono adottare strumenti differenti, sulla base di ricerche e studi differenti.

Per promuovere la propria professione l’ordine degli oculisti è senz’altro autorizzato a elencare tutti i benefici che derivano dal vederci bene  (guidare, apprezzare il panorama, godere della bellezza della propria compagna ecc.), così come tutti i rischi che derivano dal non vederci bene, anche se, ovviamente, tali “secondi fini” vanno ben oltre le competenze degli oculisti (ad esempio, per guidare occorre avere la patente, non solo vederci bene).

Nel caso della consulenza filosofica si potrebbe  più precisamente dire: la consulenza filosofica non mira a risolvere lo specifico il problema per cui la si è richiesta, perché (in quanto ha di mira il bene, il senso della vita, la felicità ecc.) mira a risolvere (indirettamente) tutti i problemi di chi la richiede (con ciò dissolvendo il problema iniziale), migliorandone significativamente la qualità della vita.

Tuttavia, anche ad accettare, a una prima analisi, tale “eterogenesi” dei fini, non si può essere ingenui. Come già osservavo nel mio articolo L’incantesimo di Orfeo. Sulla “feconda inapplicabilità” della consulenza filosofica alla vita [in “Phronesis”, n. 17, anno IX, 2011, pp. 9-39] e ribadito in Platone 2.0 [al § 3.1.4], proprio in virtù del fatto che la consulenza filosofica è meta-teoria praticante consulente e consultante non possono ignorare gli effetti della pratica. Ora, se tali effetti sono “saputi” e si prosegue nella pratica, sono anche voluti (come nel “dolo eventuale”: se so che con un certo comportamento potrei danneggiare altri e persisto, non si può più parlare di semplice “colpa”, ma bisogna riconoscere nel mio agire anche dell’intenzione). Essi, dunque, costituiscono altrettanti fini.

In questo senso si può parlare globalmente del “prodotto” di una consulenza filosofica, che ricomprende tanto l’oggetto (il fine immediato) proprio della pratica in quanto tale (la canonica “chiarificazione della visione del mondo del consultante”) quanto il beneficio atteso dal consultante medesimo, verosimilmente un miglioramento (conseguente a tale chiarificazione) della qualità della sua vita che lo soddisfa in quanto cliente pagante.

La cosa può anche essere posta intelligentemente in termini storici sviluppando un prezioso suggerimento del filosofo consulente Carlo Basili: dopo dieci anni di esperienza professionale, per quanto sporadica, non possiamo ignorare gli effetti auspicabili o ricercati della consulenza filosofica e possiamo porli francamente come obiettivi all’interno di documenti ufficiali.

N. B. Tali effetti possono – perché no? – essere oggetto di un’indagine storico-empirica (p.e. si potrebbe ricorrere a questionari o, comunque, riferire il feedback dei nostri consultanti, come già suggerito). Possiamo, ad esempio, cercare di individuare best practices. Che cosa fa di una pratica una pratica “migliore”? Che cosa contraddistingue il successo della pratica, oltre la chiarificazione della visione del mondo del consultante? Si deve trattare di qualcosa che interessa la professione: la soddisfazione di un bisogno che fa “ritornare” il consultante come cliente pagante.

Si tratta, semmai, di lavorare sulle nozioni di problema, bisogno, cambiamento (e anche aiuto) per mostrare che, se da un lato la filosofia delude certe aspettative dei consultanti (come rimarca Achenbach e sottolinea spesso Neri Pollastri) rispetto a quali siano i loro effettivi problemi, bisogni e a quale cambiamento possano aspirare e come la filosofia stessa li possa aiutare, lo fa solo per mostrare loro quali siano i loro effettivi problemi (riproposizione del problema nel senso di Schön) e bisogni e come essa li possa aiutare a risolverli per migliorare davvero la loro vita.

Si potrebbe al riguardo evocare la “trasformazione” della persona che sperimenta la filosofia o, come faccio in Platone 2.0 [cfr. p. 289 e ss. e p. 299 e ss.], una sua vera e propria (tendenziale) elevazione o evoluzione spirituale. Il bisogno “profondo” e inevidente da soddisfare concernerebbe tale potenziale evoluzione, il nietzschiano “divenire ciò che si è”.

In quest’ultima prospettiva potremmo osare promettere qualcosa di molto di più (non di meno!) di una “semplice” soluzione di problemi, rimanendo perfettamente in linea con la più nobile e antica tradizione della filosofia intesa come “esercizio spirituale”; a condizione, però, che abbiamo sufficiente fiducia, una fiducia verosimilmente maturata grazie all’esperienza, nei nostri mezzi maieutici.

Possiamo, in particolare, introdurre un preciso criterio di verifica della qualità o della riuscita di una consulenza filosofica, come propongo in Platone 2.0 [p. 290]. La pratica deve riuscire ad (almeno) cambiare significativamente (se non “rivoluzionare”, realizzando una vera e propria metànoia o conversione e immettendoci in quella che Stefano Zampieri chiama “vita filosofica” [soprattutto, ma non solo, nel suo libro Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana, Mimesis, Milano 2010]) il proprio rapporto con se stessi, con gli altri, con il mondo.

Neri Pollastri una volta ha scritto:

La verità non è solo la somma matematica di funtori logici, non è una mera operazione della ragione calcolante, ma è qualcosa che, per apparire vera, deve toccarci, deve mettere in comunicazione pensiero ed emozione, mente e corpo, fino a diventare motivante. [E, se la consulenza filosofica non riuscisse a essere in questo senso motivante in questo senso, aggiungeva Pollastri], ciò [sarebbe] il segno esperienziale che non di verità si tratta o, al massimo, che siamo di fronte a una verità puramente astratta, formale, parziale, e che pertanto manca ancora di colpire il segno del vero. [Neri Pollastri, La vita filosofica è vita politica, in Stefano Zampieri (a cura di), Sofia e Polis. Pratica filosofica e agire politico, Liguori, Napoli 2012, p. 43].

Altrove Pollastri parla di valori, mediati dal pensiero, ma “iscritti nel corpo” che vanno seguiti “liberamente e spontaneamente” [cfr. Sull’utilità e il danno della filosofia per la vita, in Neri Pollastri, Davide Miccione, L’uomo è ciò che pensa. Sull’avvenire della pratica filosofica, Di Girolamo, Trapani 2008, p. 69].

Perché o come la “conoscenza di se stessi” (e del mondo), che sembra quanto di più “astratto” e “sterile”, dovrebbe “motivare” un tale cambiamento, una tale “trasformazione” finanche corporea?

Il presupposto è che si tratti di una conoscenza autentica che implica spontaneamente tale trasformazione.

Si potrebbe, al riguardo, rovesciare il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate. Invece di chiedersi se sia sufficiente sapere che cos’è il bene per farlo, si potrebbe sostenere che, solo se una determinata “conoscenza” è efficace (ci fa conseguire, con tutti i limiti del caso, il nostro bene), è autentica. E si potrebbe precisare che l’esercizio filosofico ha di mira esclusivamente questo genere di “conoscenza efficace”.

Non credo che si possa opporre che il perseguimento del “bene”, in quanto “bisogno fondamentale di ogni uomo”, non sia di pertinenza della filosofia dal momento che essa, in quanto amore della saggezza (soprattutto se la “saggezza” è intesa come phrònesis, dunque come scienza o, comunque, ricerca del bene), può essere del tutto legittimamente intesa, su basi storiche (scavalcando una certa “deriva logico-critica moderna” a favore di una nozione originariamente greca di “filo-sofia”, come esercizio spirituale, così come ci è illustrata da Hadot e Foucault, secondo quanto argomento ampiamente in Platone 2.0, pp. 445-485), come desiderio di conoscere e, inestricabilmente, praticare il bene.

In estrema sintesi: una consulenza filosofica, se deve essere una professione, deve perseguire sia la chiarificazione della visione del mondo (come suo obiettivo, in quanto pratica filosofica), sia la soddisfazione di qualche tipo di bisogno “profondo” (non immediato) del consultante (in quanto beneficio che, come professione, la consulenza arreca), ovviamente non in contraddizione con la summenzionata chiarificazione, in modo tale che il consultante possa apprezzare il lavoro svolto (al punto, almeno, da ritornare lui stesso dal consulente e da inviare altri consultanti, in modo da mettere in moto un virtuoso “circolo economico” di scambio tra “utilità”).

Qualcuno potrebbe, certo, argomentare che la semplice chiarificazione della visione propria del mondo, in quanto tale, sia soddisfacente per il consultante, cioè che i due obiettivi della consulenza filosofica (filosofico e professionale) coincidano.

Ma perché? Ciò vincolerebbe il consulente filosofico a una visione della filosofia (a una dottrina) e a un’antropologia (piuttosto ottimistica) in base alle quali l’uomo sarebbe semplicemente “soddisfatto di conoscere se stesso e il mondo”. Si tratta di un’opzione molto forte, molto classica (aristotelica, in particolare, ma anche gnostica e neoplatonica, che si ritrova apparentemente in Achenbach, nella versione “l’uomo è costitutivamente filosofante”, ma cfr., contra, quanto Achenbach scrive in La consulenza filosofica, cit., a p. 82) che potrei anche sottoscrivere, ma che dubito possa essere “imposta”, a priori, in quanto dottrina, a consulenti filosofici di ispirazione pragmatistica, marxistica, nietzschiana ecc. Si tratterà semmai di qualcosa da (ri)scoprire, a posteriori, “dentro” una consulenza filosofica o al termine di essa in quanto meta-teoria praticante.

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di Giorgio Giacometti