Dal senso comune all’epistemologia

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Richiamiamo ciò che, alla luce tanto del senso comune quanto dello studio sia della filosofia, sia delle discipline scientifiche, potrebbe costituire  l’insieme dei presupposti di quello che consideriamo il “discorso scientifico” o l’approccio scientifico alla realtà.

Che cosa intendiamo comunemente per “scienza”?

Non ogni forma di “pensiero” è scienza. Platone ci ha aiutato a distinguere tra “scienza” (epistéme) e “opinione” (dòxa). Etimologicamente “scienza” equivale a “sapere” (“scire”). Si ha scienza di ciò che si sa. Ma che cosa si può dire di “sapere” in senso proprio? Chi crede che solo quelle che si chiamano comunemente “scienze” (p.e. matematica, fisica, chimica, biologia ecc. ) siano “sapere” in senso proprio, considera le discipline cosiddette “umanistiche”, ossia che hanno per soggetto e oggetto l’uomo, non siano propriamente “saperi”. Questo implicherebbe, ad esempio, che la lettura di una poesia, per quanto arricchita dagli strumenti forniti dalla critica letteraria, dallo studio della metrica ecc., non offrirebbe al lettore “conoscenza” (maggiore di quanta il lettore aveva prima di leggere la poesia). Una poesia ci può dare emozione, piacere ecc. o essere fonte di noia, ma in nessun caso aumenterebbe la nostra conoscenza.

Questo modo di pensare non si chiede, filosoficamente (epistemo-logicamente), se quelle che comunemente chiamiamo scienze siano tali e se siano le sole a essere tali. Questo modo di pensare crede questo e si fida della “scienza” (spesso denominata genericamente al singolare). Si tratta dunque, a questo livello, di una fede?

In effetti coloro che praticano quelle che comunemente chiamiamo “scienze” forniscono generalmente criteri in base ai quali dovremmo poter considerare queste scienze appunto scienze. Si può anche dire che ogni disciplina scientifica possiede la propria “epistemologia”, ossia, riflettendo su se stessa, chiarisce in che cosa consiste la propria scientificità. Ma, se dovessimo generalizzare, in che cosa potremmo riconoscere questa “scientificità”?

Storicamente la scienza ha cominciato a distinguersi dalla filosofia con la cosiddetta “rivoluzione scientifica” iniziata da Galileo (anche se anticipata nel mondo greco, come sappiamo). Nel corso del Seicento alla rivoluzione astronomica inaugurata da Copernico subentra la nascita della fisica moderna di Galileo e Newton. Nel Settecento la chimica si emancipa definitivamente dall’alchimia e acquista dignità “scientifica”. Nell’Ottocento, con la scoperta della cellula, delle leggi di Mendel e dell’evoluzione (Darwin), è la volta della biologia.

Ma che cosa rende tutti questi saperi affini tra loro e distinti da semplici opinioni? “Il metodo scientifico”? Ma dire che la scienza procede con il “metodo scientifico” è una “tautologia” (dal greco “tautò” = lo stesso) ossia è dire la stessa cosa con altre parole, come dire che “la scienza è scienza”. La domanda è: In che cosa consiste questo metodo?

Come ci aveva spiegato Platone, distinguendo nell’ambito dell’epistéme la diànoia dal nous, la scienza in senso moderno, modellata sulla matematica, si distingue per il fatto di ricorrere a ipotesi (da cui essa deriva altrettante tesi). In questo essa si distinguerebbe dalla dialettica che, per vie misteriose, arriverebbe al principio o alla verità assoluta.

Possiamo ora evocare brevemente per punti, in una prospettiva storica, gli elementi fondamentali della cosiddetta scienza moderna a partire dalle rispettive sorgenti culturali:

 

Platone (Pitagora) idealizzazione (astrazione)
non sapere, dotta ignoranza (ripresa da Cusano)
matematizzazione
la rivoluzione ellenistica
secondo L. Russo
costruzione di ipotesi per “salvare le apparenze”
un’immagine de mondo contraddistinta da:

·      infinità dell’universo (tema ripreso da Cusano, Bruno)

·      eliocentrismo

·      relatività del moto

·      inerzia

·      gravità

Galileo ricorso alle ipotesi matematiche
esperimenti reali e immaginari
filosofia moderna:
problema del metodo
razionalismo (Cartesio, Spinoza, Leibniz)
empirismo (Hume)
criticismo (Kant)

Sembra, in generale, che nel corso dei secoli la scienza abbia messo a punto un metodo specifico che consiste nella “dimostrazione” di ciò che afferma. Per distinguere, tuttavia, la dimostrazione scientifica da quella “filosofica” (p.e. dalla dimostrazione per assurdo dell’esistenza di Dio) bisogna precisare, richiamando Kant, che nella dimostrazione scientifica sono sempre “combinate” ragione ed esperienza. La scienza, quindi, non si occupa mai di “oggetti” (come Dio) che non sono direttamente esperibili. L’esperimento, dunque, sembra un elemento chiave del metodo scientifico.

Non meno importante sembra, comunque, l’apporto della matematica o, più in generale, della ragione. Dai tempi di Galileo lo scienziato coltiva l’idea che la natura sia un “libro” scritto in caratteri geometrico-matematici. Cartesio aveva perfino tentato, in questo senso, di ridurre la fisica (che allora coincideva con la meccanica) alla geometria (tentativo ripreso in altro contesto da Einstein), abolendo la nozione “semi-metafisica” di forza. L’opinione secondo cui la natura sarebbe scritta in caratteri matematici, anche se rifiutata da alcuni autori come Aristotele, per certi aspetti risale, come sappiamo, al mondo greco e, in particolare, alla tradizione platonico-pitagorica.

Ma questi due elementi (esperienza e ragione) da soli non sembrano del tutto sufficienti a caratterizzare un approccio come scienza, se a “scienza” diamo il significato etimologico di “sapere” (corrispondente al greco epistéme), ossia di conoscenza certa e “assoluta”, non soggetta a revisione.

Non dimentichiamo che in Platone la “matematica” era considerata un sapere ancora “ipotetico” e non assolutamente certo, perché incapace di risalire ai principi. Del resto, diverse teorie pretese “scientifiche”, come quella di Newton e, prima di lui, quelle di Aristotele, Aristarco, Copernico, Keplero ecc., si sono, via via, rivelate parzialmente false, a seguito dell’elaborazione di nuove teorie o dell’effettuazione di nuove scoperte.

D’altra parte da Galileo in poi  i principali filosofi e scienziati sembrano “caduti” proprio nell’equivoco che Platone imputava ai “matematici”: ossia quello di scambiare le ipotesi con principi (p.e. “principio d’inerzia, di relatività del moto, di azione e reazione” ecc.), sostenendo una posizione realistica in campo epistemologico (ossia l’idea che le qualità “primarie” od “oggettive” dei corpi, espresse dalle grandezze fisiche che li caratterizzano, siano “reali” e non puramente ipotetiche o convenzionali).

Quale allora le caratteristiche del sapere scientifico? Come possiamo intenderlo oggi? Si tratta solo di un metodo tra altri di investigazione del mondo, come suggerisce chi non sembra credere che la scienza sia in grado di fornirci la verità definitiva su quello di cui si occupa, o di un metodo migliore di altri perché pragmaticamente più efficace o semplicemente perché capace di previsioni più attendibili, indipendentemente se le teorie scientifiche in se stesse siano vere o false?

Torniamo così alla domanda epistemologica, ossia alla domanda che la filosofia pone alla scienza (epistéme), divenuta dirompente, come già osservato, con la crisi delle certezze, soprattutto in campo fisico e matematico, che si è consumata tra Otto e Novecento.

d Giorgio Giacometti