La metodologia delle scienze storico-sociali secondo Weber

WeberMax Weber, prendendo le distanze dall’approccio dello storicismo tedesco, osserva, innanzitutto, che la focalizzazione sull’individuale non è cosa propria soltanto delle scienze umane: in generale, ogni scienza, anche naturale, in quanto idiografica (mirata alla descrizione [graphìa] di qualcosa di individuale [ìdion]) piuttosto che nomotetica (mirata alla supposizione [thésis] di leggi [nòmoi] universali), si occupa anche della genesi e dell’evoluzione di singoli oggetti, come, nel caso classico della geo-grafia, spesso, non a caso, associata alla storia, un fiume, una montagna, un pianeta ecc. D’altra parte anche scienze umane come l’economia, la statistica o la sociologia si sforzano di supporre leggi generali (p.e. legge economica della domanda e dell’offerta ecc.).

Su questa base egli nega che la comprensione dell’oggetto delle scienze umane, compresa la stessa storia, sfugga al paradigma scientifico della spiegazione. Anche l’azione del singolo va spiegata riconducendola a un tipo ideale (che, in ambito storico-sociale, è l’analogo della legge universale della fisica: p.e. il tipo del “generale ambizioso”, del “mistico” ecc.).

Il tipo ideale è ottenuto accentuando uno o alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari, diffusi e discreti, esistenti qui in minor e là in maggior misura, e talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in quadro concettuale in sé unitario. Nella sua purezza concettuale esso non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o minore distanza dalla realtà da quel quadro ideale, stabilendo ad esempio in quale misura il carattere economico dei rapporti di una determinata città possa venir qualificato concettualmente come proprio dell’ economia cittadina (Weber, Il metodo delle scienze storico sociali, Einaudi, Milano, 1998: 108).

Si può, quindi, valutare l’incidenza causale dell’azione di qualcuno o anche di qualche evento naturale attraverso il metodo che consiste nel rappresentarsi che cosa sarebbe accaduto se quella determinata azione non fosse stata compiuta dal quel personaggio o se quel determinato evento naturale non fosse accaduto (teoria della possibilità oggettiva).

Ad esempio, se non vi fosse stata la corsa agli armamenti prima della prima guerra mondiale, questa verosimilmente non sarebbe scoppiata: dunque la corsa agli armamenti può ben essere considerata una causa della guerra. Invece, se il tal soldato semplice non avesse disertato verosimilmente tale evento non avrebbe modificato il corso della storia (dunque il comportamento effettivo del tal soldato, la diserzione, non ha avuto alcuna incidenza causale sullo scoppio della guerra).

Nella spiegazione dei fenomeni storico-sociali non interviene dunque alcuna “immedesimazione”; tanto più che questa, in quanto sembra implicare una certa compenetrazione “empatica” tra i valori dello studioso e quelli propri dei personaggi storici di cui egli si occupa, finirebbe per distorcere il giudizio storico.

Pensiamo al caso di uno storico “di sinistra” che si occupa “empaticamente” della resistenza partigiana e voglia valutarne l’incidenza sul decorso della seconda guerra mondiale a paragone di quello di uno storico “di destra” che voglia valutare il ruolo della Repubblica Sociale Italiana sotto lo stesso profilo.

Secondo Weber la scienza deve restare sempre “avalutativa” e non confondere mai il piano del giudizio di valore con quello dei giudizi di fatto (il solo di pertinenza dello scienziato), p.e. riguardo l’effettivo ruolo causale di una determinato evento o insieme di eventi. I valori dello studioso intervengono solo per ciò che riguarda la selezione degli argomenti di studio. Lo studio delle regole generali (tipi ideali) a cui obbedisce l’azione umana è proprio della sociologia.

Possiamo riassumere l’essenziale dell’approccio di Weber con la seguente tabella (in cui sono inclusi anche le “forme di potere” corrispondenti ai tipi di agire di coloro che alle diverse forme di potere sono sottoposti):

Tipi di agire

Forme di potere (politico)

Modelli di etica

agire tradizionale

potere tradizionale

agire affettivo

potere carismatico

agire razionale secondo il valore

etica della convinzione (o dell’intenzione o dei principi)

agire razionale secondo lo scopo

potere legale-razionale

etica della responsabilità

 

Possiamo distinguere, con Max Weber, due fondamentali approcci ai problemi etici, ossia quelli che fanno capo alle due seguenti etiche: etica dei principi (o delle intenzioni) / etica della responsabilità (o degli effetti).

Facciamo una serie di esempi.

Chi sostiene che sia opportuno liberalizzare il commercio di droghe leggere, magari sotto il controllo dello Stato, in genere riconosce che la droga fa male, ma argomenta più o meno in questo modo: la liberalizzazione di questo commercio consentirebbe di colpire gli interessi delle organizzazioni criminali e, alla lunga, di diminuire la stessa diffusione degli stupefacenti, nonché la connessa mortalità.

Chi si oppone parte spesso dal principio che, se commerciare la droga è qualcosa di immorale, perché si “venderebbe la morte”, lo Stato non può certo dare il cattivo esempio in questo senso, del tutto indipendentemente da possibili benefici che ne potrebbero derivare.

Quando fu approvata la legge 144 sull’interruzione di gravidanza uno degli argomenti a suo favore era che questa legge avrebbe diminuito l’incidenza degli aborti e, evitando gli aborti clandestini, avrebbe diminuito anche la mortalità tra le donne coinvolte. Nessuno si è mai dichiarato favorevole all’aborto in quanto tale.

Gli oppositori, in genere, partono dal principio secondo cui l’interruzione di gravidanza è equiparabile a un omicidio, a partire dal presupposto che l’embrione sia una persona umana fin dal concepimento. Per quanto la legge abbia dato risultati positivi in termini di riduzione del numero degli aborti, essa sarebbe comunque inaccettabile perché nessun calcolo dell’utile potrebbe giustificare l’omicidio.

Ma è proprio così? Se torturando o uccidendo un terrorista potessimo ricavarne informazioni utili a sventare attentati che potrebbero costare la vita a centinaia di persone, perché non dovremmo poterlo fare, solo che si potesse dimostrare che si tratta del solo modo per ottenere quelle informazioni? Non valgono più centinaia di vite innocenti della vita di un solo colpevole?

Ma, così facendo, si violerebbero fondamentali diritti umani. Qualunque fosse il beneficio immediato, “dove si andrebbe a finire”? Vi sono, forse, principi che non possono essere violati mai (tutela della salute pubblica, sacralità della vita, diritti umani ecc.), senza mettere in contraddizione chi lo fa con se stesso (per esempio con ciò che “insegna” agli altri e pretende da loro, nel caso, ad esempio,  di uno Stato).

In tutti questi casi si contrappongono un’etica delle responsabilità e un’etica dei principi (o della convinzione o delle intenzioni).

 

d Giorgio Giacometti