Proletariato e lotta di classe

Oggi, dopo Marx, siamo abituati a pensare in modo abbastanza schematico che a una fase storica di lotta tra borghesia e aristocrazia (culminata, nel continente, con la rivoluzione francese) sia subentrata in Europa, dopo la rivoluzione industriale, una fase storica di lotta tra proletariato e borghesia.

Tuttavia, al tempo della rivoluzione francese, ci si rappresentava il conflitto esclusivamente come lotta tra il Terzo Stato, ossia il popolo nel suo complesso, e il ceto, parassitario, dei privilegiati (aristocrazia e alto clero), senza immaginare che, all’interno del “popolo”, dovessero prodursi ulteriori, profonde fratture. Da tale rappresentazione “idealizzata” si sviluppò, ad esempio, nell’Ottocento la concezione di Henri de Saint-Simon, talora considerata (frettolosamente) “socialista”, che contrapponeva gli “industriali” (comprendenti senza distinzione datori di lavoro e lavoratori) ai ceti parassitari (cfr. Il nuovo cristianesimo del 1825).

È vero che, durante la rivoluzione francese, vero e proprio laboratorio politico, durante la quale sono stati sinteticamente anticipati una serie di “esperimenti” costituzionali che, in seguito, furono ripresi con più “respiro” (la monarchia costituzione, la repubblica democratica, la dittatura rivoluzionaria, la repubblica moderata, l’impero borghese), si registrò anche la “congiura degli eguali” di Gracco Babeuf, un tentativo (fallito) di instaurare un regime “comunistico”, che avrebbe ispirato l’opera cospirativa di Filippo Buonarroti e della setta degli Adelfi nella prima metà dell’Ottocento. Tuttavia, nel pensiero di questi rivoluzionari si trattava di portare alle estreme conseguenze quel principio di eguaglianza (egalité) tra tutti gli esseri umani (o, quanto meno, tra i maschi maggiorenni) che era già stato ampiamente proclamato dalla rivoluzione francese e, prima ancora, dai philosophes illuministi che l’avevano ispirata (alcuni dei quali, come Morelly e Meslier, avevano del resto già anticipato concezioni dichiaratamente comunistiche, che potrebbero essere fatte risalire, in età moderna, all’Utopia di Tommaso Moro del 1516). In altre parole, queste dottrine e questi tentativi rivoluzionari comunistici non si ponevano ancora esplicitamente in contrapposizione alle dottrine “borghesi” dell’illuminismo, ma intendevano  costituirne piuttosto il compimento (come dimostra ad es. il fatto che la setta segreta degli Adelfi distingueva diversi livelli di iniziazione, come se la battaglia per i diritti civili condotta dagli adepti di primo livello fosse propedeutica alla battaglia per i diritti politici degli adepti di secondo di livello e a quella per i diritti sociali degli adepti di terzo livello).

Tra le dottrine considerate da Marx utopistiche (proprio evocando l’Utopia di Moro) sviluppatesi in questo periodo possiamo ricordare anche quella di Charles Fourier, in un certo senso sperimentata (senza successo) da Robert Owen: l’idea di fondo è che si possano realizzare “isole” felici in cui produrre ciò di cui si ha bisogno in armonia, ciascuno esprimendo le proprie capacità, senza costrizione, quasi fosse un gioco, sulla base di una valorizzazione delle cosiddette “serie passionali”. Il limite di questi progetti/esperimenti (simili a tanti altri di epoche successive, dalla Comune di Parigi alle comuni gestite autarchicamente da gruppi di giovani all’indomani del 1968) sembrerebbe, oltre alla sottovalutazione del latente conflitto di classe tra imprenditori e produttori, quello di non tener conto del contesto storico-economico. Chi, come Owen, dà vita ad aziende “modello”, nelle quali i lavoratori non sono sfruttati, ma pagati equamente, provvisti di assicurazioni contro gli infortuni ecc., è costretto a vendere i prodotti che ne derivano a prezzi “fuori mercato” per compensare un costo del lavoro necessariamente enormemente lievitato e inevitabilmente fallisce.

Analogamente anche la proposta di Proudhon che i lavoratori si organizzino spontaneamente in cooperative (diventando quindi simultaneamente proprietari e dipendenti delle proprie aziende) non risolve questo ordine di problemi: infatti, o i lavoratori si assegnano salari sufficientemente bassi (paragonabili a quelli dei loro colleghi altrove sfruttati dagli imprenditori) per rendere competitiva la propria cooperativa e sono disposti perfino a licenziarsi (a fronte p.e. di processi di intensa meccanizzazione del lavoro) per il bene dell’azienda (cosa scarsamente verosimile, essendo essi stessi i proprietari dell’azienda), oppure anche questo genere di impresa è destinata al fallimento (in un contesto di capitalismo selvaggio).

Ecco perché  il citato Robert Owen comprese la necessità di sostenere l’azione sindacale (partecipando allo sviluppo delle nascenti Trade Unions inglesi) come sola via per negoziare a livello nazionale migliori condizioni per i lavoratori, senza che questo svantaggiasse singole aziende rispetto ad altre.

Storicamente possiamo forse rintracciare nei moti dei canuts di Lione degli anni ’30 dell’Ottocento il primo barlume di “coscienza di classe” proletaria, cioè la consapevolezza che gli interessi degli operai erano diametralmente opposti a quelli dei loro datori di lavoro.

Poi, certo, registriamo la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, del 1848, in cui la “nuova” lotta di classe tra proletariato e borghesia è messa a tema.

Ma da che cosa scaturisce questa “frattura” all’intero del “popolo” tra “borghesi” e “proletari” (a lungo misconosciuta e ancora rifiutata, in quelli stessi anni, dai “repubblicani” e dai “democratici” come Mazzini, Cattaneo ecc., come sarebbe stata respinta in seguito da cattolici, nazionalisti e fascisti, in generale da tutti coloro che contrapponevano alla lotta di classe la collaborazione tra le classi)?

Schematicamente si può individuare la scaturigine di questa frattura in un’aporia del “liberalismo”, cioè della dottrina politica che difende ad oltranza le libertà fondamentali cioè i diritti “naturali” (“imprescrittibili”) degli uomini (precisamente dei maschi maggiorenni): la libertà personale (habeas corpus), di pensiero, di religione, di parola, di stampa, di associazione ecc. In tale dottrina, esposta in maniera paradigmatica nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, tra i diritti fondamentali (a garanzia, si potrebbe anche precisare, degli altri diritti) è inserito il diritto di proprietà, anzi la proprietà è addirittura proclamata sacra. Il problema è che la crescente ineguaglianza nella distribuzione delle proprietà (segnalata già da Jean-Jacques Rousseau nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini del 1755 e denunciata di nuovo da Pierre-Joseph Proudhon in Che cos’è la proprietà? del 1840, dove leggiamo la famosa sentenza: “La proprietà è un furto!”, e poi di nuovo nel Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria del 1846), ha per effetto, nel lungo termine, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, cioè dei “proprietari” dei mezzi di produzione (terre o fabbriche) sui chi non ne possiede (i proletari). Come è noto, Marx, soprattutto ne Il capitale (1867 e ss.),  ha analizzato finemente il meccanismo economico che fa sì che questa frattura tra detentori dei mezzi di produzione (cioè capitalisti) e proletari, in assenza di interventi dello Stato o di lotte politiche e sindacali da parte dei proletari stessi, diventi sempre più profonda.

Questa frattura può essere riguardata anche dal lato del lavoro, piuttosto che del capitale: a quanto pare quando la merce in compravendita è il lavoro, che, da parte sua, è in grado di generare nuova ricchezza a chi se ne serve, chi vende il suo lavoro tende a percepire salari sempre più bassi, mentre chi lo compra tende a trarre sempre maggiore profitto.

In altre parole si registra una tensione crescente tra diritti civili e politici, da un lato, e diritti sociali dall’altro lato. Estendere lo spettro dei diritti a quelli sociali, affinché anche i diritti civili e politici non rimangano solo “formali”, ma diventino effettivi (il diritto all’istruzione, ad esempio, come diritto sociale, consente di esercitare il diritto di voto in modo più consapevole; il diritto al lavoro, in quanto consente di percepire un reddito, permette di esercitare con maggiore efficacia il diritto di difesa, cioè di proteggere la propria libertà personale, se si viene incriminati ecc.), ha un prezzo: gli stessi diritti civili (in particolare il diritto alla proprietà privata e alla libera iniziativa economica) rischiano di venire limitati dall’estensione dei diritti sociali.

Bisogna anche considerare l’evoluzione dei rapporti contrattuali tra datori di lavoro e lavoratori. Nel domestic system che ha preceduto il factory system l’imprenditore era il mercante che acquistava non tanto (almeno formalmente) il lavoro, quanto il prodotto del lavoro dell’artigiano, il quale conservava, perciò, una certa autonomia.  Per quanto il mercante tendesse ad esercitare un potere contrattuale sempre maggiore, l’artigiano (spesso un contadino o una contadina che, nei ritagli di tempo dal lavoro dei campi, si dedicava p.e. alla tessitura) conservava “margini di libertà” (poteva scegliere quando e come produrre, anche se sempre meno che cosa produrre) che l’operaio avrebbe perduto. Nel factory system, infatti, l’imprenditore era il proprietario della fabbrica (dunque deteneva completamente i mezzi di produzione e dettava anche i ritmi della stessa produzione) e aveva acquistato direttamente il lavoro (trasformato, perciò, in merce, di valore decrescente a causa della crescente concorrenza tra proletari) di un operaio sempre meno specializzato e sempre più asservito alla logica della produttività capitalistica. Alla formale eguaglianza giuridica tra cittadini faceva da contraltare, dunque, la crescente ineguaglianza economica tra cittadini appartenenti a classi diverse.

D’altra parte, attentare alla proprietà privata significava violare uno “spazio” sacro, limitare la stessa libertà (d’intraprendere) degli uomini, minacciare tutte le altre libertà fondamentali (come effettivamente accadde storicamente nei Paesi in cui si sperimentò la collettivizzazione forzata). Ciò spiega, se non giustifica, la resistenza di molti liberali all’estensione del suffragio durante l’Ottocento (contraddicendo, apparentemente, il principio della libera autodeterminazione degli uomini, che invitava a estendere a tutti i diritti politici), difendendo il principio che potessero partecipare alla vita politica solo coloro che disponessero di un certo reddito. Il timore era che il “popolo”, in maggioranza costituito da proletari, si servisse del potere politico per confiscare i beni dei ricchi senza indennizzo, violando la loro libertà personale e precipitando gli Stati in nuove forme di “terrore” rivoluzionario.

La difesa strenua della libertà di intraprendere e di contrattare spiega anche la resistenza decennale a riconoscere il diritto di sciopero. In Francia ad esempio il divieto sia di scioperare sia di organizzarsi, da parte p.e. degli operai, in leghe o associazioni di mutuo soccorso risale alla famigerata legge Le Chapelier (imitata in Gran Bretagna dai famigerati Combination Acts del 1799, aboliti solo nel 1825) che fu voluta non già da un monarca assoluto, ma dall’assemblea nazionale costituente nel 1791, durante la rivoluzione francese. Il principio è semplice: il rapporto di lavoro è regolato da un contratto tra uomini liberi: se le condizioni non sono più soddisfacenti per il lavoratore, questi è libero di licenziarsi, ma scioperare o agire in qualsiasi modo per “costringere” il datore di lavoro a modificare i termini contrattuali non è altro che una forma di violenza e una palese violazione del contratto stipulato, un attentato alla libertà del datore di lavoro.

I primi socialisti (Robert Owen, Charles Fourier ecc.), che non intendevano mettere in discussione le libertà fondamentali sancite dalla rivoluzione francese (o, nel caso di Owen, dalla Declaration of rights inglese del 1689), si limitavano a constatare e a denunciare il fatto che i proletari si trovavano, nei confronti dei borghesi, a causa della loro “miseria”, in una situazione di “debolezza contrattuale”, di svantaggio, che li rendeva “ricattabili”. Restando nella logica “liberale” i socialisti (chiamati da Marx “utopisti” per le loro aspettative, secondo Marx, illusorie) si limitavano, quindi, ad auspicare (attraverso un’opera fondamentalmente pubblicistica) una più equa distribuzione della ricchezza “iniziale” (attraverso p.e. forti tasse di successione, che avrebbero dovuto ostacolare la trasmissione ereditaria dei patrimoni), affinché ciascuno se la potesse “giocare” in condizioni il più possibile di “pari opportunità” con gli altri.

Il problema è che non è possibile, a quanto pare, garantire queste pari opportunità se non “espropriando” almeno parzialmente i “ricchi” (magari divenuti tali per la loro intraprendenza, cioè per i loro meriti personali), dunque violando “ingiustamente” le loro libertà. Una “via intermedia” tra l’espropriazione senza indennizzo delle grandi proprietà immobiliari e il mantenimento dello status quo poteva essere (e in qualche caso fu, come, tardivamente, negli anni ’50 del Novecento in Italia) la “riforma agraria”, ossia l’espropriazione parziale a favore dei contadini dei latifondi trascurati o abbandonati (cioè non fatti fruttare) dai loro proprietari.

La crescente consapevolezza dei diversi interessi di classe, grazie alla diffusione del pensiero di Marx, fece sorgere a partire dagli anni ’60 dell’Ottocento, sul continente (in Gran Bretagna erano già sorte negli anni ’30), le prime organizzazioni sindacali (sempre meno legate ai singoli mestieri svolti dagli iscritti, e sempre più alla loro condizione di semplici salariati, dunque organizzate sempre più su base territoriale, come le italiane “camere del lavoro”), il cui obiettivo (anche attraverso il ricorso alla sciopero e alla lotta contro il “crumiraggio”) era quello di strappare sempre migliori condizioni contrattuali, mantenendo il massimo grado possibile di solidarietà, dunque di compattezza tra i lavoratori (pena, in caso di divisione, a causa dell’elevata offerta di lavoro, dovuta all’alta disoccupazione, la caduta verticale del costo del lavoro, dunque dei salari).

Poco dopo cominciarono a sorgere anche i primi partiti politici socialisti, socialdemocratici, operai (nel 1875 sorge il Partito Socialdemocratico Tedesco dalla fusione di due precedenti partiti di ispirazione sindacale l’uno e marxista l’altro, mentre in Italia occorre attendere il 1892 per vedere nascere il Partito Socialista Italiano, preceduto da altre formazioni di ispirazione anarchica e mazziniana), il cui obiettivo immediato era, anche attraverso l’ottenimento del suffragio universale, il varo di leggi di tutela dei lavoratori (giornata di otto ore, assicurazioni contro gli infortuni, per il caso di malattia, per la vecchiaia ecc.). Solo alcune componenti di tali partiti, di provata ortodossia marxista, avevano l’obiettivo “massimo” (da cui la denominazione di “massimalisti”) di servirsi del potere politico per espropriare coattivamente i mezzi di produzione così da redistribuirli ai lavoratori (cioè di collettivizzarli).

Curiosamente lo stesso Marx, nell’elaborare l’atto di indirizzo della prima Associazione Internazionale Socialista del 1864, distingue tra l’obiettivo finale (rivoluzionario) e gli obiettivi più limitati e immediati, volti a migliorare le condizioni dei lavoratori.

Qui si registra un paradosso. Nell’analisi di Marx il capitalismo era destinato a collassare perché il meccanismo economico che esso stesso aveva messo in moto avrebbe portato a una polarizzazione della società, destinata a dividersi tra una classe sempre più ristretta di capitalisti (alla fine di monopolisti, nella prospettiva ulteriore elaborata da Lenin) e una classe sempre più numerosa di proletari, sempre più sfruttati  e sempre meno capaci di acquistare i prodotti da loro stessi elaborati. La crisi del capitalismo, dovuta alla sovrapproduzione di merci che nessuno avrebbe più potuto comprare, avrebbe portato alla rivoluzione e all’espropriazione dei mezzi di produzione in mano ai capitalisti.

Paradossalmente, però, le stesse conquiste politiche e sindacali del movimento operaio, spesso guidato da esponenti marxisti, finirono per rendere meno drammatica la frattura tra classe operaia e classe borghese, conservando un certo poter d’acquisto ai salari degli operai e allontanando indefinitamente lo spettro della rivoluzione. Di tale situazione prese atto il “revisionista” Eduard Bernstein, quando (p.e. in I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia del 1899) proclamò decaduto l’obiettivo rivoluzionario che Marx aveva dato al movimento operaio e sostenne che si dovesse mirare soltanto a migliorare le condizioni di vita del proletariato attraverso riforme (e migliori contratti di lavoro) da realizzare  nel quadro dello Stato borghese.

Possiamo anche ricordare il ruolo nuovo assunto dai cattolici, soprattutto dopo l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (che pose la Chiesa a difesa dei diritti di operai e contadini, sia pure in un’ottica di collaborazione interclassista e, al fondo, conservando un approccio critico, di tipo tradizionalistico, nei confronti dei regimi liberali).

In generale in questo periodo, anche grazie alla pressione dei gruppi socialisti riformisti e dei cattolici democratici, si assiste a una estensione sempre maggiore del suffragio (dal quale, tuttavia, rimasero escluse le donne, nonostante le lotte femministe che iniziarono proprio in quest’epoca).

Altra questione rilevante: il sorgere di formazioni nazionaliste e reazionarie (come l’Action française di Charles Maurras) dalle quali emergeranno, nel Novecento, i grandi partiti reazionari di massa.