La guerra di secessione americana

Per comprendere la guerra di secessione americana bisogna risalire al modo in cui si sono formati gli Stati Uniti d’America.

Durante la guerra di indipendenza dalla Gran Bretagna e immediatamente dopo, l’esigenza di restare uniti contro il nemico comune e di impostare una politica estera univoca e coerente, nonché ragioni di bilancio, avevano suggerito di privilegiare, secondo le indicazioni di Hamilton e altri (autori di articoli in seguito raccolti nella silloge Federalist), un assetto istituzionale federale (piuttosto che con-federale), ossia un sistema nel quale le funzioni politiche principali (l’esercizio della politica estera, la facoltà di dichiarare guerra e concludere la pace, la determinazione di eventuali dazi di importazione ed esportazione, il potere di “battere” moneta ecc.) e, in ultima analisi, la sovranità (il supremo potere politico) fossero conferite all’Unione piuttosto che ai singoli Stati (eredi delle originarie tredici colonie inglesi).

Ciò condusse nel 1787 alla stesura della Costituzione degli Stati Uniti (approvata da un numero sufficiente di Stati nel 1789), ancora vigente (anche se sarebbe stata successivamente integrata da numerosi emendamenti), la più antica costituzione democratica moderna. Questa prevede che i singoli Stati siano rappresentati in Senato in modo equo (due senatori per ogni Stato), ma che il potere del Senato sia bilanciato, nel Congresso di Washington (il supremo organo legislativo), da quello della Camera dei rappresentanti, questi ultimi eletti in proporzione al numero degli abitanti dei singoli Stati (in modo tale che gli Stati più popolosi pesino corrispondentemente di più di quelli meno popolosi). Come è noto, un grande potere è detenuto, poi, dal Presidente degli Stati Uniti, capo dell’esecutivo (cioè del governo), ma con ampie possibilità di incidere anche sul processo legislativo, nonché investito del potere di nominare i giudici della Corte Suprema.

In questo assetto piuttosto centralizzato rimanevano (come rimangono) tuttavia ampi poteri anche ai singoli Stati: quello di darsi leggi proprie (come è noto, ad esempio, in alcuni Stati è prevista la pena di morte e in altri no), propri sistemi fiscali, originariamente anche diversi sistemi elettorali (in alcuni Stati il diritto di voto era limitato ad alcune categorie di cittadini, in altri no), una propria forza di polizia locale ecc. Si trattava, comunque, di poteri residuali assai inferiori a quelli di cui inizialmente gli Stati godevano, quando, nelle prime fasi della guerra d’indipendenza, si erano dati una costituzione confederale (con gli Articles of Confederation), che lasciava sostanzialmente agli Stati la propria sovranità, salvo mettere in comune alcune funzioni utili alla conduzione del conflitto (un assetto simile, per intenderci, a quello dell’attuale Unione Europea, dalla quale, ad esempio, come si è verificato recentemente nel caso della Gran Bretagna con la c.d. “Brexit”, i singoli Stati possono anche uscire).

Paradossalmente, tuttavia, nei primi decenni dopo il conseguimento dell’indipendenza prevalse al congresso il Partito Repubblicano che riuscì anche ad esprimere i Presidenti degli Stati Uniti (come Jefferson, Madison e, dopo la scissione dell’ala “nazionalista”, anche Jackson), un Partito decisamente favorevole a lasciare la massima autonomia agli Stati e alla comunità locali, senza che l’Unione interferisse con le loro decisioni. Ciò non fece che accentuare nel tempo la differenza tra gli Stati del Nord, industrializzati (dunque favorevoli al protezionismo doganale) e antischiavisti, e gli Stati del Sud, basati sull’agricoltura schiavile e favorevoli al liberismo economico (per poter più facilmente esportare, soprattutto in Gran Bretagna, il cotone e gli altri prodotti coltivati dai neri nelle piantagioni).

Per un certo tempo questa differenza restò entro “limiti di guardia”, anche perché si era stabilito “salomonicamente” che i futuri Stati via via costituiti nell’Ovest (West), sottratti alle tribù dei nativi (pellirosse), acquistati dalla Francia (come la Louisiana) o conquistati militarmente (come la California, in seguito alla guerra contro il Messico), ammettessero o meno la schiavitù a seconda che fossero situati rispettivamente sotto o sopra il 36° parallelo, accordo che venne meno quando si decise che la schiavitù dovesse invece essere abolita in tutti i futuri Stati. D’altra parte gli Stati costituiti al di sotto di quel parallelo (come p.e. il Texas) si presentavano come poco adatti alle grandi piantagioni. Il tutto rendeva sempre meno rilevante il “peso politico” del Sud rispetto al Nord.

Nel frattempo il Partito Repubblicano aveva subito una scissione dalla quale sarebbero sorti i precursori degli attuali partiti statunitensi. Si era costituito alla sua “destra” il Partito Repubblicano Nazionale (poi solo Repubblicano) che aveva fatto proprie le prospettive dei Padri della Patria federalisti (come Hamilton), battendosi per conferire maggior peso politico all’Unione rispetto ai singoli Stati (a tutto vantaggio del Nord industrializzato, economicamente e demograficamente egemone). Il resto del Partito si chiamò Repubblicano Democratico, quindi semplicemente Democratico. Questo Partito continuava a difendere il decentramento e l’autonomia degli Stati e delle comunità locali. Di fatto ciò significava difendere, dove esisteva, l’istituto della schiavitù (da ingerenze “nazionali” cioè “federali”).

La scintilla che portò alla guerra fu l’elezione nel 1860 di un Presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, sostenuto dai Repubblicani Nazionali e da Democratici del Nord, sostanzialmente votato solo dai “nordisti”. Anche se Lincoln non si pronunciò inizialmente a favore dell’abolizione della schiavitù in tutti gli Stati Uniti, la sua elezione fu vissuta come una minaccia dagli Stati del Sud, che, uno dopo l’altro, proclamarono la secessione (scissione, separazione) dall’Unione, fino a formare tra loro una Confederazione (secondo l’originaria costituzione delle colonie durante la guerra d’indipendenza, prima che prevalesse l’assetto federale, cioè centralizzato). L’ipotesi giuridica dietro questa mossa, respinta da Lincoln, è che ciascuno Stato avesse conservato il diritto di “uscire” dall’Unione. In sostanza i “confederati” o “sudisti” non accettavano l’evoluzione in senso “nazionale” e “unitario” degli U.S.A., pur implicita nella Costituzione del 1787.

Significativo fu il pretesto che diede luogo al conflitto. In ultima analisi si trattò di un problema di giurisdizione. I confederati esigevano che i soldati (federali) di Fort Sumter lasciassero la Carolina del Sud, considerato Stato indipendente, “padrone in casa propria”, cioè del proprio territorio, mentre Lincoln riteneva che tutto il territorio degli Stati Uniti appartenesse all’Unione e non riconosceva la neonata confederazione, né ammetteva che uno o più Stati potessero lasciare l’Unione stessa.

Dello svolgimento del conflitto è interessante rilevare quanto segue:

  1. la Confederazione era militarmente più debole, perché meno industrializzata, meno popolata e isolata da potenziali alleati o sostenitori (come la Gran Bretagna, a cui si vendeva gran parte del cotone prodotto nella piantagioni coltivate dai neri) dal blocco navale attuato dai nordisti (che controllavano di fatto l’intera flotta dell’Unione);
  2. cionondimeno grazie all’abilità di generali come Robert Lee e la “motivazione” dei soldati la Confederazione riuscì a conseguire iniziali successi e, comunque, a resistere all’Unione per quattro anni;
  3. politicamente mossa abile di Lincoln fu il proclama con cui agli inizi del 1863 dichiarò l’emancipazione degli schiavi del Sud (sebbene, in un primo tempo, Lincoln, secondo la tradizione di non ingerenza negli affari interni degli Stati, non fosse stato un abolizionista totale, ma si limitasse, come molti altri repubblicani, ad opporsi all’estensione della schiavitù negli Stati di nuova costituzione e a sostenere l’abolizione della Fugitive Slave Law del 1850, in base alla quale gli schiavi fuggiti al Nord avrebbero dovuto essere “restituiti” ai legittimi proprietari del Sud – d’altra parte lo stesso Jefferson Davis, presidente della Confederazione, era tutt’altro che uno schiavista convinto – )
  4. alla fine il controllo non solo del mare, ma anche del Missisippi, unitamente alla superiorità industriale e all’isolamento del Sud, decise le sorti del conflitto a favore dell’Unione;
  5. il conflitto, che costò 600 mila morti, può essere considerato la prima guerra “moderna”, anticipazione dei due grandi conflitti mondiali del Novecento, per l’uso massiccio di armi di uccisione di massa come la mitragliatrice e per la devastazione a cui diede luogo.

Interessante anche l’esito della vittoria del Nord rispetto alla condizione dei neri: se da un lato la schiavitù fu definitivamente abolita (con il XIII emandamento della Costituzione) in tutta l’Unione, iniziò la politica e la prassi della “segregrazione” dei neri (e anche vere e proprie forme di persecuzione ad opera di organizzazioni clandestine ma tollerate dalle autorità pubbliche come il Ku Klux Klan). Solo negli anni Sessanta del Novecento, con lo sviluppo del movimento per i diritti civili (che annoverava figure carismatiche come Martin Luther King), le principali forme di discriminazione nei confronti dei neri americani vennero superate (anche se tuttora persistono, come è noto, forme striscianti di razzismo negli U.S.A. come altrove).

Possiamo fare al riguardo una riflessione più generale. Tipicamente quando gruppi sociali vengono emancipati giuridicamente, nascono forme di discriminazione su basi culturali ed economiche, per la minaccia che questi gruppi sembrano costituire per resto della popolazione, minaccia in precedenza meno percepita (proprio per la loro precedente subordinazione giuridica). Fu il caso dei neri d’America, ma anche, in altre forme, degli Ebrei in Europa: via via che nel corso dell’Ottocento acquisirono gli stessi di diritti degli altri cittadini si accentuò l’antisemitismo (l’odio e la discriminazione “culturale” nei loro confronti).

Ci si può chiedere se, analogamente, certi rigurgiti di razzismo nel nostro Paese, tradizionalmente relativamente alieno da questo tipo di atteggiamento (ma con l’importante precedente delle politiche di segregazione razziale attuate sistematicamente dal regime  fascista nei confronti dei popoli delle nostre colonie di LIbia ed Etiopia), non dipendano dagli effetti delle migrazioni epocali del nostro tempo, che ci costringono a entrare in diretto contatto con culture che, in teoria tollerate o perfino fonte di curiosità od oggetto di studi antropologici, nel momento in cui “ci toccano” da vicino, con la loro “diversità”, diventano fonte di inquietudine e sono percepite come una minaccia.

Ecco una scheda sul tema a cura di Lucio Caracciolo.

Ed ecco una cartina dinamica relativa all’andamento del conflitto.