cfr. Hobbes, Leviathan
Queste nozioni, secondo Hobbes, presuppongono una concezione pessimistica e individualistica dell'uomo, considerato come essere naturalmente malvagio che persegue il proprio interesse personale. La "guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo" deriva dal suo stato di natura aggressivo ed "egoista" e dalla sua naturale disposizione a tutelarsi preventivamente dagli altri esseri. I concetti di diritto e torto, giustizia e ingiustizia, quindi, si sviluppano sulla base della ragion di stato, cioè su una concezione del bene non come utile personale, ma della collettività che prende il nome di "stato", guidata da un potere supremo che definisce i contenuti di tali nozioni. Senza un'autorità suprema che stabilisca il diritto e il torto non esisterebbe un criterio univoco per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è.
L'uomo non può essere considerato un animale socievole in quanto, a differenza di altri animali come "api e formiche", non considera per sua natura il bene privato strettamente uguale a quello pubblico e tende a perseguire i propri interessi a scapito di quelli altrui. L'uomo è incline al dominio sugli altri e all'autoaffermazione: per Hobbes, quindi, non esisterebbe alcun "accordo" naturale fra gli uomini. La loro naturale condizione è quella della guerra reciproca. Per gli antichi, e per Aristotele in particolare, l'uomo è un essere sociale molto più degli altri animali in quanto fa naturalmente coincidere la propria felicità con quella della comunità di cui è parte.
Lo stato di Hobbes nasce da un patto sociale mediante cui si dà luogo a un potere supremo, garante dei diritti e della pace; tale potere viene formato attraverso il trasferimento dei diritti personali di tutti i membri della comunità ad un sovrano in modo che egli disponga di una forza tale da permettergli di assoggettare tutti e di modellare le loro singole volontà, mantenendo la pace ed evitando la guerra di ciascuno contro ciascuno
Per Aristotele l'uomo è socievole per natura e il bene individuale coincide con il bene collettivo. Per questo, secondo Aristotele, l'uomo ha, rispetto agli altri animali, "la percezione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e degli altri valori". E questa giustizia "naturale" è elemento dello stato. Per Hobbes l'uomo ha un carattere più aggressivo: egli cerca di ottenere il bene individuale che non coincide affatto con quello collettivo. Inoltre, i concetti di giusto e ingiusto sono soggettivi e variano da individuo a individuo; perciò la giustizia, come bene collettivo, deve essere stabilita da un potere supremo distinto da quello individuale. Sia Aristotele che Hobbes, però, sono convinti l'uomo che non è parte dello stato viva senza giustizia (dato che "la giustizia è elemento dello stato") e conduca una vita non buona.
A parere dei più la visione più attuale e comunemente condivisa è quella di Hobbes sia perché gli stessi atteggiamenti dell'uomo lo rilevano (come sosteneva Hobbes: gli uomini sbarrano le porte delle loro case o chiudono a chiave le casseforti per timore dei loro simili), sia perché se l'uomo fosse effettivamente un essere naturalmente socievole in grado di distinguere tra giusto e ingiusto, non vi sarebbe motivo di stabilire in uno stato un insieme di leggi e di istituire un potere giudiziario che le faccia rispettare. In più saremmo sempre tutti d'accordo su ciò che è bene e male, non ci sarebbero partiti politici, guerre civili, guerre di conquista