&  Thomas Hobbes, da Leviathan (1651)

 

Quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra: guerra che è quella di ogni  uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell'atto di combattere, ma in uno spazio di tempo in cui la volontà di affrontarsi in battaglia è sufficientemente dichiarata: la nozione di tempo va dunque considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura del cattivo tempo non risiede in due acquazzoni, bensì nella tendenza verso questo tipo di situazione, per molti giorni consecutivi, allo stesso modo la natura della guerra non consiste nel combattimento in sé, ma nella disposizione dichiarata verso questo tipo di situazione, in cui per tutto il tempo in cui sussiste non vi è assicurazione del contrario. Ogni altro tempo è PACE.

Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz'altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria ingegnosità. In tali condizioni, non vi è posto per l'operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non vi è né coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare, né costruzioni adeguate, né strumentí per spostare e rimuovere le cose che richiedono molta forza, né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società; e, ciò che è peggio, v'è il contiuno timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, misera, ostile, ammalesca e breve..

Può sembrare strano a chi non abbia ben soppesato tali cose, che la natura possa dividere gli uomini in questo modo e renderli inclini ad aggredirsi e a distruggersi l'un l'altro; è dunque forse probabile che, non fidandosi di questa inferenza tratta dalle passioni, egli desideri vederla conferrnata dall'esperienza. Rifletta dunque tra sé sul fatto che quando intraprende un viaggio si arma e cerca di andare ben accompagnato; che quando va a dormire sbarra le porte, che addirittura quando è nella sua casa chiude a chiave i suoi forzieri; e tutto ciò sapendo che vi sono leggi, e funzionari pubblici armati, per vendicare tutte le offese che dovessero essergli fatte. Quale opinione ha dei suoi consudditi quando cavalca armato? dei suoi concittadini quando sbarra le sue porte? dei suoi figli e dei suoi servitori quando chiude a chiave i suoi forzieri? Non accusa egli l'umanità con le sue azioni, come faccio io con le mie parole? Ma, con ciò, né lo né lui accusiarno la natura umana. I desideri e le altre passioni dell'uomo non sono in sé peccato. E neppure lo sono le azioni che procedono da quelle passioni, sino a quando non si conosce una legge che le vieti; e non si possono conoscere le leggi sino a che non vengono fatte; e nessuna legge può essere fatta sino a che non ci si è accordati sulla persona che la deve fare.

Si può forse pensare che non vi sia mai stato un tempo e uno stato di guerra come questo, ed io credo che nel mondo non sia mai stato così in generale; ma vi sono molti luoghi ove attualmente si vive in tal modo. Infatti, in molti luoghi d'America, i selvaggi, se si esclude il governo di piccole farniglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo e vivono attualmente in quella maniera animalesca di cui ho prima parlato.  Ad ogni modo, si può intuire quale genere di vita ci sarebbe se non ci fosse un potere comune da temere, dal genere di vita in cui, durante una guerra civile, precipitano abitualmente gli uomini che fino a quel momento sono vissuti sotto un governo pacifico.

Ma qualora non fosse mai esistito un tempo in cui gli uomini isolati fossero in uno stato di guerra gli uni contro gli altri, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana sono, a causa della loro indipendenza, in una situazione di continua rivalità e nella situazione e nella postura propria dei gladiatori, le armi puntate, e gli occhi fissi gli uni sugli altri: vale a dire fortezze, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e spie che controllano i ncessantemente i Paesi vicini; questo è un atteggiamento di guerra. Ma poiché essi sostengono cori ciò l'operosità ingegnosa dei loro sudditi, non ne consegue quella miseria che accompagna la libertà degli uomini isolati.

Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro consegue anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e torto, di giustizia e di ingiustizia non vi hanno luogo. Laddove non esiste un potere comune, non esiste legge; dove non vi è legge non vi è ingiustizia. Violenza e frode sono in tempo di guerra le due virtù cardinali. Giustizia e ingiustizia non sono facoltà né del corpo né della mente. Se lo fossero, potrebbero trovarsi in un uomo che fosse solo al mondo, allo stesso modo delle sue sensazioni e delle sue passioni. Sono qualità relative all'uomo che vive in società e non in solitudine. A questa medesima condizione consegue anche che non esiste proprietà, né dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma appartiene ad ogni uomo tutto ciò che riesce a prendersi e per tutto il tempo che riesce a tenerselo. E ciò basti per descrivere la triste condizíone in cui l'uomo è realmente posto dalla nuda natura, benché abbia la possibilità di uscirne, possibilità che risiede in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione.

Le passioni che inducono gli uomini alla pace sono la paura della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie a una vita piacevole e la speranza di ottenerle cori la propria operosità ingegnosa. E la ragione suggerisce opportune clausole di pace sulle quali si possono portare gli uomini a un accordo. Queste clausole sono quelle che vengono, in altri termini, chiamate le leggi di natura, delle quali parlerò in modo più dettagliato nei prossimi due capitoli[1] [...]

è vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono socievolmente fra loro (e a causa di ciò sono annoverate da Aristotele fra le creature politiche) pur senza avere altra direzione che i loro giudizi e appetiti particolari, né avendo loquela [cioè linguaggio] con cui significarsi vicendevolmente quello che ritengono utile per il bene pubblico; qualcuno, perciò, potrebbe forse desiderare di sapere perché l'umanità non possa fare altrettanto [come credeva Aristotele stesso, che considerava l’uomo “animale politico”]..

Al che rispondo: primo, che gli uomini sono continuamente in competizione fra loro per l'onore e la dignità, mentre queste creature non lo sono; di conseguenza, su questo terreno, nasce fra gli uorninì l'invidia e l'odio, e infine la guerra, ma niente del genere nasce fra queste creature; secondo, che fra queste creature, il bene comune non differisce dal privato e, tendendo per natura al loro bene privato, procurano per ciò stesso il bene pubblico. Per l'uomo, invece, la cui gioia consiste nel confrontarsi con gli altri, non può aver sapore nulla che non sia eminente; terzo, che queste creature, non avendo (come l'uomo) l'uso della ragione, non vedono ‑ e non pensano di vedere ‑ alcuna pecca nell'amministrazione degli affari comuni, laddove, fra gli uomini, ce ne sono moltissimi che si ritengono più saggi e più capaci degli altri di governare la società. Costoro si sforzano ‑ chi in un modo, chi in un altro ‑ di riformare e di innovare e, così facendo, la portano alla disgregazione e alla guerra civile; quarto, che queste creature, benché siano provviste di un qualche uso della voce nel comunicarsi vicendevolmente i rispettivi desideri ed affezioni, mancano, tuttavia, di quell'arte delle parole grazie alla quale certi uomini possono rappresentare agli altri ciò che è bene nelle sembianze di male e il male nelle sembianze di bene[2], nonché aumentare o diminuire l'apparente grandezza del bene e del male, rendendo inquieti gli uomini e turbando la pace a loro piacimento; quinto, le creature irrazionali non possono distinguere fra torto e danno; perciò, finché i loro agi sono assicurati non si sentono offese dalle loro compagne, mentre l'uomo è più pronto ad agitarsi proprio quando gode del massimo degli agi, giacché è allora che ama mostrare la propria saggezza criticando le azioni di coloro che governano lo Stato.

Infine, l'accordo fra queste creature è naturale; quello fra gli uomini deriva solo dal patto[3] ed è artificiale. Dunque non desta meraviglia che (oltre al patto) sia necessario qualcos'altro per rendere il loro accordo costante e durevole; e questo qualcosa è un potere comune che li tenga in soggezione e che ne diriga le azioni verso il bene comune.

L 'unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difenderli dall'aggressione di stranieri e dai torti reciproci ‑ perciò procurando loro sicurezza in guisa che grazie alla propria operosità e ai frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfacentemente ‑, è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o a una sola assemblea di uomini (che, in base alla maggioranza delle voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un'unica volontà).. Il che è quanto dire che si incarica un solo uomo o una sola assemblea di uomini di dar corpo alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l'autore di ogni azione compiuta, o fatta compiere, relativamente alle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, da colui che dà corpo alla loro persona; e che con ciò sottomettono, ognuno di essi, le proprie volontà e i propri giudizi alla volontà e al giudizio di quest'ultimo. Questo è più che consenso o concordia, è una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, in maniera tale che è come se ciascuno dicesse a ciascun altro: Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo, o a quest'assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni.. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama Stato in latino civitas. è questa la generazione di quel grande LEVIATANO,  piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel Dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a questa autorità datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria, e dell'aiuto reciproco contro i nemici di fuori. In lui risiede l'essenza dello Stato, che, per darne una definizione, è: Una persona unica, dei cui atti [i membri di] una grande moltitudine si sonofatti autori, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune.

Chi incarna questa persona si chiama SOVRANo e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro [si chiama] suo SUDDITO.



[1] Le leggi di natura secondo Hobbes sono tre: pax est quaerenda (la pace va ricercata); ius est retinendum (il diritto a tutto va limitato); pacta sunt servanda (i patti vanno rispettati). Queste “leggi”, dettate dalla ragione umana per soddisfare le tre passioni di paura, desiderio e speranza, possono, però, diventare effettive solo se c’è un potere che ha la forza di farle rispettare (altrimenti è come se non esistessero).

[2] Cfr. l’arte retorica inventata, presso i Greci, dai sofisti.

[3] Secondo Hobbes, come si può leggere sotto, il poter supremo in grado di imporre l’obbedienza alle leggi naturali è il risultato di un patto sociale.