Socrate e i sofisti

Il relativismo etico e le sue aporie

 

 

 

SOCRATE

 

Di Socrate, che, da parte sua, non ha lasciato nulla di scritto di proprio pugno (come, peraltro, si tramanda di Talete, Pitagora, Plotino e… Gesù), si sa ben poco oltre a quanto ne testimoniano Platone, Aristotele, Senofonte e Aristofane. La fonte principale resta in ogni caso Platone.

L'impresa di distinguere un "Socrate" platonico da un "Socrate" storico, nonostante tutti i tentativi finora esperiti, non ha prodotto risultati conclusivi.

Seguendo l'esempio di Platone, quindi, assumiamo la figura di Socrate come un paradigma: il paradigma del metodo filosofico per eccellenza: l'rte maieutica come guida dell'esercizio del dialogo e dell'ironia.

Alcuni dei dialoghi attribuiti a Platone trattano il tema tipicamente etico della virtù.

Ciò vale sopratutto dei seguenti: Apologia di Socrate, Carmide, Critone, Eutifrone, Liside, Gorgia, Ione, Ippia minore, Lachete, Protagora, Repubblica (I libro), Eutidemo, Ippia maggiore, Menesseno, Menone risalenti verosimilmente al periodo giovanile di Platone (398-388 a. C.), noti anche come dialoghi socratici per l'evidente centralità che vi riveste la figura di Socrate, il celebre maestro di Platone, vissuto nella seconda metà del V sec. a. C.

I dialoghi socratici di Platone presentano alcuni tratti comuni, come i due seguenti.

Ma che cosa dobbiamo intendere per virtù?

La virtù, in greco areté, lett. eccellenza, propria dei buoni, è intesa, nell'epoca arcaica greca, come capacità peculiare, acquisita ereditariamente, più raramente (soprattutto dopo la diffusione della sofistica, le cui tecniche presupponevano l'insegnabilità della virtù) come conquista personale; ed è riferita o a prestazioni di carattere fisico, oppure, soprattutto dopo la critica di *_blank* Senofane alle esibizioni degli atleti in Olimpia, a valori di tipo morale o intellettuale. Nell'elaborazione platonico-aristotelica, che parte dalle premesse culturali del mondo greco arcaico e classico, ma le supera nella direzione di un'accentuazione dell'importanza delle doti intellettuali dell'uomo, "buono" o "virtuoso" viene considerato colui che è fornito stabilmente di "saggezza", "coraggio", "temperanza", "giustizia"; quelle che, teorizzate per la prima volta in modo organico da Platone nella Repubblica, diventeranno le "virtù cardinali" nella tradizione morale cristiana medioevale e moderna.

Per vedere riemergere, nel mondo occidentale, un significato del termine "virtù" (e, corrispondentemente, un significato di "buono"), affine, in qualche modo, a quello originario, arcaico, occorre attendere Machiavelli, per certi versi, o perfino, forse, Nietzsche.

 

 

L'ETICA TRADIZIONALE

 

In uno dei dialoghi giovanili di Platone, il Lachete, Socrate, dopo una serie di premesse metodologiche, discute con alcuni interlocutori in che cosa consista la virtù tradizionale o eroica del coraggio, celebrata p.e. nei poemi omerici.

Secondo una concezione diffusa nel mondo greco arcaico (VIII-V sec. a. C.) e riproposta oggi in modo esplicito o implicito (per esempio da certa fiction americana) la principale "caratteristica" che deve possedere colui che vuole agire bene, ossia la dote o abilità principale (areté, dicevano i greci, che traduciamo con virtù) è il coraggio.

Che cosa significa "virtù"? La virtù (in greco: areté) è ciò in cui l'uomo (come singolo o come specie) può eccellere.

Per l'età arcaica era il coraggio (areté eroica), ma la filosofia (con Socrate) dimostra che non ci può essere virtù senza scienza della virtù e, quindi, virtù in senso proprio è solo il sapere (in particolare, come vedremo: la scienza del bene o, almeno, il sapere di non sapere). Il coraggio, ad esempio, implica scienza, perché nessuno direbbe coraggioso uno che non sa quello che fa (ma lo direbbe insensato) Il coraggio implica anche bontà, perché nessuno direbbe coraggioso uno che fa del male.

La tesi di Lachete, che nega che il coraggio sia scienza, si spiega storicamente facendo riferimento alla tradizione dell'areté eroica.

 

 

LE ORIGINI DELL'INTELLETTUALISMO GRECO

Senofane, nato e vissuto a Colofone, nella Ionia (costa greca dell'Asia minore) nel VI sec. a. C., è autore di vari componimenti in prosa e poesia. Considerato per molto tempo fondatore della scuola di Elea e, quindi, maestro di Parmenide (perché riconduceva tutto a un unico principio, probabilmente la Terra, concepita come un dio, e criticava l'antropomorfismo religioso), ha esposto in una famosa elegia la sua concezione della virtù.

Senofane suggerisce che una città si salva non tanto se ciascun cittadino è bello o forte, ma se è intelligente. Più che forti, dunque, sarebbe meglio essere intelligenti.

Viene sempre più in luce nell'età arcaica dei Greci l'importanza del sapere. Il sapere diventa più importante della forza. I Greci, sempre più, valorizzano l'intelligenza, l'essere più astuti degli altri, l'imparare a mentire.

MENTIRE è parola che ha la medesima radice di MENTE: solo colui che è astuto, infatti, usa la mente mentendo in modo efficace, cfr. Ulisse.

La dottrina intellettualistica di Senofane presenta evidenti analogia con la concezione posteriore di Socrate

 

 

L'INTELLETTUALISMO SOCRATICO

 

A questo punto si può richiamare quanto emerso dal modulo Filosofia e amicizia, per quanto riguarda l'intellettualismo socratico, ossia la dottrina secondo la quale

Un classico esempio di "applicazione" di questa dottrina si trova nel Gorgia di Platone [IV sec. a. C.].

Il tiranno crede di fare quello che vuole e di esercitare un effettivo potere, ma, facendo il male, non fa ciò veramente non può non volere, ossia il bene: il suo potere è apparente.

Chi, come lui, scambia il bene con il male, commette un errore.

Non esistono quindi, nella prospettiva socratica, colpe o peccati, ma solo ignoranza, mancanza di conoscenza.

Sotto questo profilo la "psicologia dell'atto morale" dei Greci può, schematicamente, venire distinta da quella dei cristiani:

 

La filosofia dunque è necessaria per fare il proprio bene, perché solo chi conosce il vero bene lo ottiene.

Il rapporto tra sapere e agire bene è sviluppato nei dialoghi cosiddetti socratici di Platone, ad esempio il Carmide [inizi IV sec. a.C.].

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DALL'ETICA ALL'ANTROPOLOGIA

 

La scienza del bene di cui si parla in questi dialoghi è quella che a partire da Aristotele (IV sec. a.C.) chiamiamo etica. Si tratta della scienza del bene e del male.

Il termine deriva da èthos che in greco significa "costume" o "carattere". La scienza etica si occupa infatti di distinguere l'agire buono (o il cui fine è il bene) da quello cattivo (o il cui fine è il male).

La virtù è per definizione tale, quale che ne sia la nozione, da avere come scopo o effetto il bene, mentre il vizio tende al male. Dunque il problema etico investe anche la natura della virtù, intesa come disposizione costante o attitudine al bene.

Se per etica intendiamo quella "parte" della filosofia che si occupa della questione del bene e del male, perché essa sia scientifica, bisogna che essa sappia spiegare razionalmente che cosa sia bene fare senza mettere in gioco i sentimenti.

Uno dei caratteri essenziali della filosofia, infatti, come sappiamo, è la razionalità.

 

Il fondamento antropologico dell'etica socratica è una concezione secondo la quale "l'uomo è la propria anima", concezione delineata, ad esempio, nell'Alcibiade maggiore.

Per comprendere senza equivoci l'argomento secondo cui l'uomo coinciderebbe con la sua anima occorre precisare che cosa gli antichi intendevano con questo termine, senza farsi fuorviare dalla concezione cristiana e moderna di anima come principio spirituale.

Nella visione arcaica del mondo, propria degli antichi Greci e di molti popoli, tutto ciò che si muove da solo si muove perché ha un'anima. L'anima, in altre parole, è il principio del movimento dei corpi, l'origine della forza. Resta indeterminato se si tratti di anima materiale o spirituale, mortale o immortale.

Secondo la concezione di Aristotele, per esempio, che ha fatto scuola, l'uomo ha 3 tipi di anime:

1. Anima vegetativa (involontaria, come ad esempio quella degli alberi o quella presiede a fenomeni come la digestione o il battito cardiaco)

2. Anima sensitiva o motoria (guidata dall'istinto o da un apprendimento che sfocia in comportamenti automatizzati)

3. Anima razionale (quella che produce la consapevolezza delle proprie azioni e permette di riflettervi)

L'uomo è la sua anima la quale è il principio delle sue azioni, del suo comportamento. Per questo quando il corpo non agisce secondo la volontà dell'anima non ha il controllo di se stesso. Per questo, ad esempio, secondo la legge non è imputabile. [Si dice che uno era "fuori di sé", per esempio, cioè l'anima era fuori del corpo che agiva in modo incontrollato e, dunque, irresponsabile]

 

 

IL RELATIVISMO ETICO DEI SOFISTI

 

Ma, se per fare il bene è necessario conoscerlo, bisogna che il bene sia qualcosa di "reale", "oggettivo", "comune".

I sofisti introducono per la prima volta, forse, nella storia dell'uomo, la sconcertante ipotesi che vi siano altrettante nozioni di bene quanti sono gli individui che lo perseguono (ossia, in altri termini, che il bene sia diverso per ciascuno).

La crisi di una nozione comune o condivisa di virtù, di cui sono testimonianza i testi di Platone e il frammento di Senofane, può dare come esito il relativismo etico.

RELATIVISMO = l'opinione secondo cui non c'è una verità assoluta, ma il "vero" dipende dal punto di vista di ciascuno.

RELATIVISMO ETICO = l'opinione secondo cui non c'è un bene assoluto, ma il "bene" dipende dal punto di vista di ciascuno: il bene di una persona può essere in conflitto con quello degli altri, dunque può non coincidere con quello altrui.

SOFISTA = [etimologicamente] sapiente (da sophìa = saggezza),

Per sapere se qualcosa era bene o male nella Grecia arcaica, come presso le popolazioni tribali, ci si rivolgeva o al medico o allo "stregone" o al consiglio degli anziani (a maggioranza). Il presupposto era che la verità riguardo a bene o male fosse conoscibile e valida per tutti. Ma con la diffusione dei commerci e degli scambi con popoli diversi, depositari di credenze diverse, entra in crisi l'idea di una verità assoluta.

Per sofisti designiamo un insieme variegato di personaggi, operanti soprattutto ad Atene a partire dal V sec. a.C, i quali, capaci di argomentare persuasivamente qualunque tesi, si proponevano come educatori dei giovani, in cambio di un compenso in denaro. Questi sedicenti sapienti, dopo gli (apparentemente) vani tentativi da parte dei primi filosofi di trovare un convincente "principio" di "tutte le cose", erano giunti alla conclusione che "l'uomo è la misura di tutte le cose" (Protagora). Se le cose stanno così, non è possibile conoscere la "verità" intorno a qualcosa se non relativamente a un certo punto di vista, e in particolare in funzione dell'utile (= dell'interesse) di qualcuno (Antilogie).

Per semplicità prendiamo qui in considerazione soltanto l'immagine che di questi personaggi ci è restituita, ancora una volta, dai dialoghi di Platone, che, del resto, rappresentano una delle fonti maggiori per ricostruire il loro pensiero; avvertendo del fatto che quali fossero le effettive dottrine di costoro, di ciascuno e di tutti, è ancora oggetto di discussione tra gli storici della filosofia.

 

Che cosa si risponderebbe alla domanda: "E' bene o male che uno stia male?". Immediatamente si risponderebbe che è male, ma poi, ripensandoci, si direbbe che ciò dipende dalla situazione. Infatti in certi casi sembrerebbe più conveniente stare male piuttosto che bene [come ad esempio quando si deve andare a scuola e si sa che quel giorno si potrebbe essere interrogati, ma non si è abbastanza preparati].

Per riprendere la questione introdotta leggendo i testi di Platone e Senofane, ci si potrebbe chiedere: "E' meglio essere forti o intelligenti?". "Dipende dalla situazione", si dirà.

Quindi, quello che si crede sia migliore in assoluto, effettivamente sembra tale solo relativamente. Si ha cioè l'impressione che si possa sempre discutere se sia meglio una cosa o un'altra.

Si deve osservare, inoltre, che ognuno pensa necessariamente che la sua opinione sia quella giusta, altrimenti non si potrebbe dire che si tratta, appunto, della propria opinione e non per es. dell'opinione che si ha di quella che potrebbe essere l'opinione prevalente tra tutti gli altri. D'altra parte non esiste un'opinione che sia quella giusta, scientifica, oggettiva, almeno in quanto opinione. Per opinione, infatti, intendiamo qualcosa non solo di soggettivo, ma anche di discutibile e relativo.

La scienza e l'opinione sono, dunque, per definzione, due cose ben diverse, la prima è oggettiva mentre la seconda è soggettiva e dipende dalla sensibilità delle persone.

L'essere delle cose - così sembra - dipende dalla "misura" che ciascun uomo dà loro.

Il bene per uno non appare necessariamente identico al bene dell'altro Un'azione può essere giudicata buona o cattiva a seconda di presupposti di ordine etico.

 

Il concetto di ambiguità e relatività del bene (relativismo etico) può essere esemplificato da un farmaco [phàrmakon in greco = medicina/veleno], che per qualche persona può risultare benefico mentre per qualche altra, dannoso.

I sofisti affermano o lasciano intendere che l'utile dell'uomo è tale quando ha per conseguenza quella di procurare il massimo del piacere, negando l'esistenza di un bene comune, eguale per tutti: il bene di una persona può non essere il bene di un'altra, quando per es. per essere conseguito implica il danno dell'altra. Dicono che il vantaggio di uno è spesso svantaggio dell'altro e negano, in generale, che si possa dire che cosa sia assolutamente buono o cattivo. Per i sofisti, inoltre, per ogni tesi è possibile trovare argomentazioni. L'arte da loro introdotta di argomentare qualsiasi tesi è la retorica, o arte del discorso. L'uso della parola diviene un'arte avvocatizia che non ha per fine che la persuasione, ad ogni costo.

Essi elaborano, dunque, dottrine che giustificano il loro comportamento di "commercianti" del sapere, entrando così in conflitto con i filosofi come Socrate e Platone, convinti della necessità di ammettere un bene oggettivo o assoluto.

Campione della sofistica è stato Protagora di Abdera [V sec. a.C.], di cui, tra l'altro, si tramanda una celebre sentenza. Secondo Protagora "L'uomo è misura di tutte le cose" nel senso che ogni cosa è come appare a ciascuno di noi. Tale apparenza coincide con la sensazione che ciascuno ha delle cose. Non esiste quindi un "essere" assoluto ma solamente relativo all'osservatore.

Tale dottrina è esposta chiaramente anche nei cosiddetti Discorsi doppi (anonimi).

Dalla provocazione sofistica, esposta nei Discorsi doppi, scaturisce un problema di grande attualità: il bene etico-politico può essere stabilito in modo univoco (un solo significato)?

Più in generale il relativismo etico, che ha presupposti gnoseologici e ontologici, ha implicazioni politiche.

Inoltre esso è insieme giustificazione e frutto di quell'arte della parola che nasce allora come retorica (e oggi si chiama, se si vuole, scienza della comunicazione)

 

 

RELATIVISMO ETICO E RETORICA

 

La retorica è l'arte di persuadere per mezzo del discorso.

Che tipo di conoscenza deve avere chi cerca di persuadere con le parole?

Colui che cerca di persuadere con le parole deve innanzitutto conoscere il linguaggio e l'interlocutore. Per quanto riguarda il linguaggio deve usare tutti quegli strumenti atti a persuadere l'interlocutore. Il fatto di persuadere qualcuno di qualcosa non ha necessariamente a che fare con la verità o la falsità di ciò di cui si persuade, a meno che non si persuada mediante dimostrazione, cioè in modo maieutico [cfr. Socrate].

Ma la negazione o l'ignoranza della verità importa difficoltà nel persuadere?

Si può persuadere ignorando la verità, ma si persuade anche di una verità in forza di essa.

L'arte del parlare ornato presuppone una crisi. Quest'arte retorica è stata sviluppata, coerentemente, dai "sofisti".

In che cosa non si ha più fiducia, perché una simile pratica possa affermarsi?

Non si ha più fiducia nell'"esistenza" della verità stessa, nella possibilità della "sapienza", come sapere tutto di tutto.

 

Perché e in che senso il relativismo etico ispira la ricerca retorica dei sofisti?

I sofisti, scoprendo la straordinaria varietà delle tradizioni culturali esistenti nel mondo allora conosciuto, hanno constatato la profonda diversità dei codici morali . Ne deriva un vero e proprio relativismo morale (o etico) tale da escludere qualsiasi possibilità di definire, in modo assoluto, ciò che è bene e ciò che è male. Per i sofisti, dunque, la "virtù" non è un patrimonio esclusivo di una parte della società (non è per es. identificabile con i valori affermati dall'aristocrazia tradizionale), ma è una possibilità data a tutti gli uomini, che consiste nel possesso di determinate capacità e competenze. Sostenendo il valore individuale di ciascuno, indipendente dalla condizione sociale di appartenenza, essi fondano la possibilità di diverse concezioni etiche o morali, modi diversi di pensare che saranno di volta in volta giudicati buoni o cattivi a seconda del punto di vista.

Il relativismo etico (l'opinione, in particolare, che a ogni tesi [morale] affermata si possa opporre una tesi contraria, altrettanto legittima) comporta la possibilità di discorsi anti-logici (cioè apparentemente contraddittori) realizzati grazie alla padronanza da parte dei sofisti dell'organizzazione logica del pensiero e all'utilizzazione spregiudicata del linguaggio. Il che attesta l'incremento della potenza della parola.

 

 

L'UTILITARISMO SOFISTICO

I sofisti, come si è visto, per illustrare la distinzione tra bene e male, fanno corrispondere il bene all'utile e il male al dannoso. Perciò la stessa cosa (p.e. un naufragio) può essere un bene per qualcuno (p.e. l'armatore di navi) e un male per altri (p.e. i naufraghi).

Che cosa sono, in ultima analisi, il giusto e il bene, secondo i sofisti, sia per i singoli uomini, sia per i gruppi di uomini?

Secondo i sofisti il giusto per un gruppo umano può non essere il bene (ciò che appare tale) in quanto si possono far apparire oneste le cose anche se sono disoneste. Una cosa è buona quando è utile (o appare tale) per uno. Il bene è l'utile proprio o della propria parte politica.

In particolare quale è il beneficio che i sofisti affermano di arrecare ai loro discepoli e quale quello che ne ricavano essi stessi?

I sofisti arrecano un beneficio ai discepoli perché insegnano a far apparire (ai propri avversari) cose dannose le cose utili e viceversa, per conseguire vantaggi politici: è questo, generalmente, che ricavano i discepoli, mentre il sofista ne ricava denaro. Entrambi, dunque, ricavano un utile, almeno all'apparernza, immediato. Ancora una volta il bene(ficio) è l'utilità: economica per i sofisti, generalmente politica per i loro clienti.

N.B. Secondo Aristotele bene e male non sono la stessa cosa in quanto solo il primo permette di raggiungere la felicità. Inoltre non solo non è sempre vero che perché uno possa conseguire il suo bene è necessario che un altro ne paghi le conseguenze (come pensavano i sofisti), ma anzi il vero bene, soddisfacendo la natura comune degli uomini, è bene per tutti (bene comune). Anche per questo filosofo, in un certo senso, il bene e il male coincidono con l'utile, salvo che per il sommo bene che essendo fine a se stesso non è utile ad altro (la felicità).

 

 

IL RELATIVISMO POLITICO E LE SUE APORIE

Lo schema sopra tracciato indica la stratificazione sociale tipica di una pòlis antica (come, in parte, di un, possibile Stato dell'età moderna).

Facciamo la seguente considerazione. Ciascun ceto [nobili, ricchi, popolo] può conseguire il governo [-CRAZIA], ma anche se chi lo esprime rappresentasse (gli interessi del)la maggior parte della popolazione, tranne il caso che prendesse provvedimenti su cui tutti concordassero (ma allora un governo, cioè una guida, diverrebbe superfluo: si avrebbe un'an-ARCHIA, ossia un'assenza totale di principio [politico] o arché), esso farebbe sempre scontenta una parte della popolazione, anche se costituita da una piccola minoranza.

Pertanto, possiamo osservare, se chi governa segue le indicazioni dei sofisti e mira soltanto all'utile proprio non può conservare la pace sociale. Solo una politica che abbia di mira il bene comune può essere soddisfacente indipendentemente da chi e quanti governano (tesi platonica, come vedremo, oltre che aristotelica).

 

 

IL RELATIVISMO ONTOLOGICO

 

Per ONTOLOGIA si intende la scienza dell'essere, quale sarà "codificata" dalla Metafisica di Aristotele. Prima di Aristotele anche altri filosofi o presunti tali (i sofisti) non hanno potuto non possedere in forma esplicita o implicita un'ontologia, ossia una concezione relativa al significato dell'essere delle cose.

 

Il relativismo etico, come si è visto, dipende dal relativismo ontologico e gnoseologico: una cosa può essere buona o cattiva a seconda del punto di vista (aspetto etico) perché può essere altrettanto vero quanto falso (aspetto gnoseologico) che essa sia (aspetto ontologico) buona.

 

Il relativismo ontologico può sfociare, come in Gorgia di Leontini [VI sec. a. C.] in forme di vero e proprio nichilismo (concezione secondo cui niente è vero e niente è buono).

Gorgia era un oratore, utilizzava il discorso per sedurre chi lo ascoltava.

Per Gorgia se ciò che è è, è o eterno o generato; ma se è eterno non ha alcun principio e non avendo principio è illimitato; ma se è illimitato non è in alcun luogo e se non è in alcun luogo, non è. Se è generato, si ricade nei paradossi già enucleati da Parmenide. Dunque il paradosso è che se qualcosa è, non è possibile in alcun modo che sia!

Se il pensato è, allora tutte le cose pensate sono comunque le si pensi. Però non è vero che, se uno pensa un uomo che voli, o dei carri che corrono sul mare, subito un uomo si mette a volare o dei carri a correre sul mare. Pertanto il pensato non è.

Il visibile non può divenire udibile, e viceversa: ciò che è, quindi, in quanto oggetto esterno a noi, non può diventare la nostra parola.

L'essere non è dunque né esistente, né pensabile, né comunicabile.

Questa teoria di Gorgia costituisce, evidentemente, anche una critica a Parmenide.

 

Discussione: l'emergenza di antinomie

Secondo Aristotele e Leibniz (XVII sec.) è vero secondo ragione ciò la cui negazione indica contraddizione (ragionamento per assurdo). Ma l'esistenza di antinomie come quelle esposte da Gorgia getta un sospetto su questo tipo di argomentazione (detta elenctica, da èlenchos, confutazione). Da Gorgia deriva lo scetticismo cioè la negazione della possibilità di comunicare con verità (o in modo attendibile) su qualsiasi cosa.

Gorgia, come tutti i sofisti, esclude una norma assoluta di giudizio. Egli analizza "ciò che è" secondo due diverse ipotesi, esaminandolo a seconda che esso sia eterno o generato.

A partire dall'ipotesi che l'essere sia eterno Gorgia effettua un ragionamento per assurdo che porta alla dimostrazione della falsità del proprio contraddittorio (cioè che sia generato). Si tratta in sostanza della dimostrazione di Parmenide, suffragata dagli argomenti di Zenone, che sosteneva che ciò che è deve essere eterno, confutando il movimento e il divenire.

Ma Gorgia non si limita a confutare il movimento: egli confuta anche lo stesso essere eterno, dando luogo a un'antinomia, cioè a un ragionamento che, andando al di là di quello per assurdo, nega anche il contrario di una tesi dimostrata contraddittoria (cioè confutata).

L'antinomia consiste, partendo da una data premessa, nel generare contraddizioni necessarie, cioè inevitabili.

Altro ESEMPIO di antinomia: (rapporto principio-tutto)

Se una causa è la causa del tutto la causa stessa - sembrerebbe logico - non appartiene al tutto. Si può rilevare, tuttavia, che il concetto di "causa del tutto" ha caratteristiche profondamente antinomiche. Si possono infatti avere due casi: la causa è dentro al tutto ovvero fa parte di esso, oppure è fuori dal tutto, ovvero non è compresa in esso.

E' chiaro che se la causa fosse fuori del tutto il tutto non sarebbe più "tutto", in quanto ne mancherebbe qualcosa, tale causa, appunto. Ma se la causa fosse parte del tutto non ne sarebbe più interamente causa (dovrebbe infatti essere anche causa di se stessa il che è assurdo, perché dovrebbe essere qualcosa prima di essere qualcosa).

Plotino (III sec. d. C.) ha fatto un analogo ragionamento riferendosi all'essere. Infatti, se l'essere, fosse generato da qualcosa che è, questo qualcosa avrebbe caratteristiche antinomiche perché in un certo senso avrebbe il proprio effetto dentro di sé. Dunque la causa dell'essere deve essere al di là dello stesso essere, anche se sarebbe assurdo concepirla come non esistente!

Le antinomie, comunque, sono considerate da alcuni studiosi solo dei giochi di parole. Altri le considerano dei dilemmi logici insolubili a tutt'oggi.

Sulla struttura dell'antinomia cfr. anche quanto se ne dice nel modulo dialettica moderna.

 

 

 

APORIE DEL RELATIVISMO

 

Il filosofo autentico, se seguiamo il modello di Socrate, non dà risposte ma fa domande che inducono a riflettere affinché ognuno possa trovare la verità ragionando autonomamente.

Il presupposto di tale metodo è, comunque, che esista una sola verità.

Il sofista, invece, cerca di persuadere l'interlocutore delle proprie opinioni, a prescindere dal fatto che siano vere o false.

Il presupposto di tale tecnica è il relativismo, che rende inutile la preoccupazione di fondare il proprio ragionamento sulla verità.

Il presupposto relativistico di Protagora, tuttavia, alla fine si rivela contraddittorio (dal punto di vista autenticamente filosofico) perché se veramente tutto dovesse essere relativo, non si potrebbe più affermare niente di sensato (cioè comunicare qualcosa a un altro) perché tutto cambierebbe a seconda della persona che parla.

 

Nel dialogo di Platone, Teeteto, questa necessaria assunzione viene sostenuta con un celebre argomento.

Per Socrate, insomma, esiste necessariamente una sola verità, altrimenti essa non sarebbe tale, ma si risolverebbe in opinione.

Questo non significa che noi la conosciamo. Possiamo pure limitarci a cercarla.

In altri termini: il bene, qualunque cosa esso sia, per essere "vero" e non solo il frutto di un'opinione personale che chiunque altro potrebbe neutralizzare opponendo una diversa opinione, se esiste, è collettivo (è oggettivo) mentre le sensazioni sono solo opinioni (sono soggettive).

 

Il relativismo, come si è visto, è la dottrina secondo la quale le cose sono relative al punto di vista di chi le considera, appaiono diverse a ognuno.

Il relativismo afferma che l'uomo è la misura di tutte le cose, secondo la dottrina del sofista Protagora (V sec. a. C.).

Secondo la teoria del relativismo: scienza = opinione, essere = apparire, verità = opinione, conoscenza = credenza, sapere = credere/pensare.

Presupposto del relativismo di Protagora, secondo l'ipotesi espressa da Socrate nel Teeteto, è la teoria di Eraclito di Mileto [VI sec. a. C.] che afferma che tutto scorre.

 

Il relativismo sfocia nell'indifferentismo: non ci sono saggi che possano smentire le mie osservazioni perché ogni tesi vale l'altra, tutto è indifferentemente vero (o falso).

Altra conseguenza possibile del relativismo è la (dottrina della) negazione della verità: scetticismo, scuola filosofica dell'antica Grecia (età ellenistica, dal II sec. a. C.) secondo la quale non esiste la verità se questa appare diversa per tutti.

 

Relativismo e scetticismo parrebbero dottrine coerenti. L'aporia di fondo di queste dottrine è la seguente: avere un'opinione significa credere che sia vera per me e per tutti. Se così non fosse, non si potrebbe dire che si ha quella determinata opinione, ma che se ne un'altra, cioè quella secondo cui tutte le tesi sono egualmente vere (indifferentismo).

In altri termini il fatto stesso di avere un'opinione presuppone la fede nella distinzione tra la verità che si attribuisce alla propria opinione e la falsità che si attribuisce alle opinioni diverse dalla propria sul medesimo argomento.
Dunque uno scettico e un relativista radicali non potrebbero avere alcuna opinione, neppure quella che consiste nella tesi del relativismo o dello scetticismo!

Un'altra aporia è la seguente: dalla discussione, svolta nel Teeteto del relativismo sofistico, scaturisce che se l'uomo è la misura di cose non avrebbe senso andare dai maestri per sapere le cose.

 

 

IL MARTIRIO FILOSOFICO

 

Per introdurre la lettura dell'Apologia di Socrate, il primo dialogo scritto da Platone, possiamo ricordare una data: 399 a.C.: morte di Socrate.

Socrate viene condannato a morte da un governo democratico (benché egli avesse disobbedito a un ordine dei "Trenta Tiranni", il governo dispotico che i democratici rovesciarono) con una grande maggioranza di voti degli ateniesi.

Egli accetta il verdetto, perché intuisce che la sua morte sarà esemplare (più un bene che un male per la città): Socrate è martire per il pensiero.

Come abbiamo potuto leggere, Socrate, secondo un vaticinio dell'oracolo di Apollo, risulta l'uomo più saggio di Atene.

Socrate, stupito del vaticinio, lo attribuisce al fatto che egli sa di non sapere.

Questa scoperta gli deriva dall'indagine che compie sui suoi conciittadini, andando a chiedere agli esperti (presunti) nella varie arti (Politica, Poesia, Pittura...) che cosa sia la propria arte, e trovando che i "saggi" di volta in volta interpellati non sanno rispondere. Essi quindi non sono saggi perché credono di sapere ma non sanno, mentre Socrate sa di non sapere.

La tesi che ne risulta è la seguente: ne sa di più chi sa di non sapere di chi crede di sapere, ma non sa.

Se ricordiamo i risultati a cui eravamo pervenuti, seguendo Socrate, con la lettura di passi del Carmide e dell'Alcibiade minore, possiamo dire che senza scienza del bene, ovvero saggezza, ogni altra "arte" può essere inutile o perfino dannosa.

Ma la saggezza si acquisisce con la sua ricerca, la ricerca della saggezza è la filosofia, quindi il filosofo fa la sola cosa buona e saggia che sia possibile fare in mancanza della conoscenza del bene: cercarlo!

Socrate non conosce il bene e sa di non saperlo, ma sa che per decidere qualcosa si deve sapere se esso è un bene e un male.

Il filosofo è il più saggio di tutti poiché ricerca la saggezza.

 

Confrontiamo la figura di Socrate con quella di Gesù.

Gesù afferma: "io sono la via, la verità e la vita". Gesù, seconda persona divina, Lògos, ciò per mezzo di cui tutte le cose sono state fatte e, quindi, si possono anche conoscere, nell'ipotesi cristiana, è tutto ciò che si deve conoscere.

Chi ha fede in Gesù, cioè nel fatto che Egli sia Dio, non ha dubbi: sceglie di morire per testimoniare (martirio significa testimonianza) la propria fede. Il premio del Paradiso vale qualsiasi sofferenza terrena e compensa anche la morte.

Anche Socrate, quando fu costretto a decidere se morire o smettere di cercare la verità, non sapendo se la morte fosse un bene o un male, preferì morire. La ricerca del bene è talmente importante che niente può fermarlo, tanto meno la morte.

Socrate preferisce morire piuttosto che smettere di cercare la verità non perché, come il cristiano, creda di conoscere la verità, ma proprio perché sa di non saperla! Dal punto di vista filosofico non c'è niente che valga meno della filosofia, poiché solo la filosofia ci permette di sapere che cosa sia bene o male, mentre ogni altra cosa, compresa la morte, va ritenuta indifferente finché la stessa filosofia non ci dica se essa sia buona o cattiva.

 

Possiamo riesaminare tutta la questione a partire dalla domanda che scaturiva dalla provocazione dei Discorsi doppi: il bene può essere stabilito univocamente o in modi diversi?

Quale che sia la risposta a questa domanda, una cosa è certa: non sarà mai possibile conoscere il bene se non ci si dedica alla ricerca del bene. Se definiamo "saggezza" la "scienza del bene", la prima forma di saggezza è, dunque, la ricerca della saggezza e quindi la filo-sofia: il filosofo è più saggio di uno che non ricerca la saggezza. Lo scopo della filosofia è ricercare la verità (anche se molto spesso non fa comodo cercarla). La ricerca del bene è meglio della non ricerca.

Secondo problema: la morte. La morte è un bene o un male? Per Socrate essa è indifferente poiché egli non può considerare bene o male una cosa che non conosce. Pertanto se dobbiamo scegliere tra la ricerca del bene e la conservazione della vita, la prima, che senz'altro appare la cosa migliore che uno possa fare fin tanto che non perviene alla saggezza, appare talmente importante che nemmeno la morte può fermarla.

Inoltre Socrate, consigliato da un demone, sceglie di morire piuttosto che interrompere tale ricerca anche per un motivo più profondo: in quanto se fosse vissuto, i posteri (noi!) non avrebbero ricordato il suo importante insegnamento.

 

Per contestualizzare il percorso svolto si può leggere, sul manuale Abbagnano - Fornero, Autori di Fare filosofia, Torino, Paravia 2001, vol. I [citato per cap. § e capoverso], il cap. VIII (Socrate), integralmente, leggendo tutti i testi e specialmente il T3 (tratto dal Teeteto) relativo all'arte maieutica; nonché il cap. VII (I Sofisti e la polis), §§ 1-3.2.