dialettica moderna

 

 

 


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DIALETTICA ANTICA

La dialettica di Platone è messa in luce delle antinomie o aporie delle cose.

Platone insegna, in sostanza (in ciò seguendo Eraclito), che data una tesi, esiste sempre un'antitesi. In entrambi i casi è necessario studiare le conseguenze di ciascuna di esse. La situazione in cui tesi ed antitesi hanno entrambe conseguenze false è chiamata aporia (= "vicolo cieco", termine platonico) o antinomia (= "irregolarità", termine kantiano). Tale situazione, messa in luce spesso da Platone nel corso dei suoi Dialoghi, viola il principio di non contraddizione, definito da Aristotele.

 

 

STRUTTURA DELL'ANTINOMIA

Antinomia si produce quando tesi e antitesi risultano entrambe vere annullandosi a vicenda. Sono entrambe vere, dunque, per assurdo. Accettiamo dimostrazioni per assurdo che però cadono reciprocamente in contraddizione.

Carneade: filosofo greco a Roma (II sec. a. C). Dimostra da una tribuna che la giustizia è una cosa buona ma il giorno dopo dimostra dalla stessa tribuna che la giustizia non è una cosa buona. Viene cacciato a sassate.

Per riconoscere un testo dialettico basta trovare tesi, antitesi e argomenti?

Un testo è dialettico se gli argomenti effettivamente dimostrano (per assurdo o altrimenti) la necessità sia della tesi che dell'antitesi. Se, invece, dico: "io sono Napoleone Bonaparte e al tempo stesso non sono Napoleone Bonaparte", si tratta semplicemente di contraddizione, non di antinomia, perché non sono in grado di argomentare in alcun modo, né tanto meno di dimostrare la necessità della prima tesi (cioè "io sono Napoleone Bonaparte").

Si può dire, in sintesi: un discorso è dialettico o antinomico quando ciò che afferma implica (automaticamente) la propria negazione.

 

 

LA DIALETTICA COME RISOLUZIONE DELLA CONTRADDIZIONI NELLA SINTESI (HEGEL)

 

Per contestualizzare il percorso si può leggere, sul manuale Abbagnano - Fornero, Autori di Fare filosofia, Torino, Paravia 2001, vol. II [citato per cap. § e capoverso], cap. XIV, salvo §§ 1, 5.2 b - 5.3, 7, 9

 

In Hegel (1775-1831) il metodo dialettico implica che il movimento, il processo, sia il risultato del conflitto tra opposti.
Ciò viene espresso con le categorie di tesi, antitesi e sintesi.
La tesi, che può essere un'idea ma anche una cosa qualunque, un "movimento storico" ecc., ha in sé un'incompiutezza che genera il suo opposto, l'antitesi, un'idea o un movimento opposti. Il risultato della contraddizione, del movimento degli opposti, è un terzo momento, la sintesi, che supera e risolve il conflitto a un livello superiore. La sintesi è in effetti una nuova tesi che innesca un ulteriore movimento dialettico, generando in questo modo un processo intellettuale continuo.

Per Hegel la dialettica è l'anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista necessità.
In altri termini la dialettica eleva al principio, come per Platone, ma non nel senso che il principio sia un'ipotesi tra le altre, solo più certa e più vera, ma nel senso che il principio, in un certo senso, in quanto infinito, coincide con l'attività dialettica stessa, intesa non solo come attività di un singolo filosofo, ma come il processo stesso della realtà.

Hegel, nella Scienza della logica, plaude a Kant che ha fatto capire che la dialettica è una cosa intrinseca a un certo tipo di problemi, riguarda cioè le cose, non solo il nostro modo di argomentare.

La dialettica per Hegel, insomma, è la stessa realtà nel suo divenire.

 

Per comprendere la dialettica di Hegel, si può analizzare un ragionamento che svolge nella Fenomenologia dello spirito (1807).

Hegel parte dai concetti di ora e qui.
La tesi "ora è notte", qui, in questo preciso momento è vera (ts). In un secondo momento, però, la stessa proposizione non esprimerà alcunché di vero, ma sarà falsa, perché, come è probabile, non sarà più notte ma giorno. A questo punto "ora è giorno", l'antitesi, è vera. In un momento ancora successivo, tuttavia, l'antitesi diventerà anch'essa falsa in quanto il giorno sarà diventato di nuovo la notte.
In questo modo Hegel vuole dimostrare che l'essenza del presente sfugge, ossia che esso è sempre in conflitto con se stesso (dialettica).
La sintesi è quindi che l'ora è eterna, il presente coincide con la coscienza eterna del soggetto


Nella, Scienza della logica, la prima triade (1816) la dialettica investe la nozione fondamentale di "essere" da cui, dai tempi di Parmenide, la filosofia "comincia".

Hegel, tuttavia, a questo punto non si ferma colmo di meraviglia all'antinomia [come Platone, Kant, la mistica ecc.], ma indovina una sintesi tra i due contrari: il divenire, come passaggio dall'essere al non essere (perire) e dal non essere all'essere (nascere). Il movimento dialettico della ragione tra i due opposti coincide con il movimento naturale delle cose dall'essere al non essere: la dialettica (= la logica del pensiero) è la molla della realtà, oltre che del pensiero.
La sintesi costituirà a sua volta una tesi contraddittoria che implicherà una nuova sintesi tra sé e la propria antitesi e così via, nel processo logico sistematico del pensiero che è anche quello della realtà, fino al sistema completo della filosofia in cui sono contenute tutte le determinazioni (essere, nulla, divenire, essenza, concetto, vita, natura, diritto, morale, Stato, spirito ecc.).

N.B. Se in generale il metodo della filosofia consiste nello sviscerare criticamente i presupposti di ciò si afferma, si può intendere la sintesi in Hegel semplicemente come il presupposto nascosto sotto l'apparente contraddizione di un concetto. Per esempio l'essere presuppone il nulla, il nulla l'essere, e la loro stessa contraddizione presuppone il divenire dell'uno nell'altro e viceversa. La sintesi suprema (lo Spirito Assoluto) di tutto il movimento dialettico sarà quindi anche il principio primo, il presupposto di tutti i presupposti, la condizione che fin dall'inizio, ma segretamente, rendeva possibile tutto il movimento. Tale principio coincide con la stessa attività dialettica, col percorrimento filosofico di tutti i concetti.

 

 

LA DIALETTICA NELLA FENOMENOLOGIA E NELLA LOGICA DI HEGEL

 

La Fenomenologia dello spirito (1807) è scienza dell'esperienza e "romanzo di formazione" della coscienza.

Per Hegel l'Assoluto si manifesta in primo luogo attraverso la coscienza (io). La "fenomenologia dello spirito" è un cammino che la coscienza percorre per arrivare all'Assoluto attraverso varie figure fino a riconoscersi come Spirito.

La conoscenza fin dall'inizio è uguale all'Assoluto ma non se ne accorge. L'Assoluto coincide con la coscienza dell'uomo (è [in] noi stessi). Le varie figure sono solo un riconoscimento progressivo e razionale dello Spirito assoluto.

Proponiamo ora alcune figure tipiche assunte dallo Spirito nella Fenomenologia.

 

Il questo e l'opinione.

Il termine "questo", riferendosi a qualsiasi cosa non significa qualcosa di particolare come appare in prima battuta. Quando utilizziamo tale termine intendiamo indicare qualunque cosa sia vicina al parlante, perciò il significato del termine è piuttosto universale. L'uso del termine è dunque aporetico. Ciò che ne risulta è la dialettica tra particolare e universale, ciascuno dei due momenti rinviando all'altro. Inoltre anche i nomi comuni hanno una loro dialettica. L'espressione "questo libro" pretende di indicare un particolare, ma ricorre a termini, ciascuno dei quali indica un che di universale. Analogamente se dico "ora è notte", scopro ben presto che è vero che, piuttosto, "ora è giorno", sicché quell'"ora" che sembrava un istante passeggero, si rivela universale, eterna, solidale con la coscienza che è sempre presente a se stessa

 

Dalla coscienza alla dialettica servo/padrone

Come Hegel passa dialetticamente dal particolare all'universale (cioè dimostra che dietro ogni particolare è presupposto necessariamente, anche se contraddittoriamente, un universale, un'idea, cfr. Platone), così nella Fenomenologia, dimostra che dietro ogni figura dello spirito è presupposto qualcos'altro, p.e. dietro la proposizione sogg. + ogg. (universale + qualità, cfr. Aristotele) l'Io (cfr. Kant), dietro l'Io il soggetto che determina assolutamente gli oggetti (cfr. Fichte) ecc. Hegel ripercorre, così, tutti i "punti di vista" delle filosofie precedenti, dialetticamente implicantisi.

L'autocoscienza: Per ciascuno di noi, noi siamo soggetto e gli altri sono nostro oggetto anche se per ciascuno degli altri è il contrario. Di conseguenza sorge il problema del riconoscimento reciproco delle coscienze come autocoscienze. La prima risposta che ha dato il giovane Hegel a questo problema è stata che l'amore reciproco permette il riconoscimento di ciascuno come autocoscienza. Ma il filosofo nella Fenomenologia sceglie un'altra strada, quella della "lotta per la vita e per la morte" ovvero della competizione tra i vari soggetti per la sopravvivenza. Al termine di tale lotta colui che ha superato l'avversario (il padrone) resta privo della coscienza di non essere l'unico soggetto, mentre chi gli si sottomette (il servo), avendo temuto per la propria vita, è doppiamente cosciente: di sé (infatti, proprio per non perdere la propria vita si è sottomesso), dell'altro (infatti, lo serve come prima serviva se stesso, riconoscendone così la soggettività, facendo che i suoi desideri siano i propri). Inoltre il servo si riconosce come vivente, come corpo, mentre il padrone, sprezzante della vita, si concepisce ancora come un Io astratto, privo di corpo. Il servo perciò ne sa più del padrone.

Hegel dimostra, infine, che se i due si separano il padrone, non avendo acquisito la capacità di trasformare la natura per sopravvivere, è destinato a soccombere. Colui che appare indipendente, si rivela dipendere da colui che ne dipende, mentre il dipendente, in verità, è libero nel suo rapporto con la natura.

 

Distinzione tra fenomenologia e sistema in Hegel

Mentre nella Fenomenologia (1807) Hegel mostra la "relatività" delle diverse "figure" come momenti del sapere assoluto, partendo dalla coscienza individuale che ha difronte a sé (apparentemente) "questo" oggetto, a partire dalla Scienza della logica (1816) Hegel muove fin dall'inizio dall'Assoluto, soltanto: compreso in maniera sempre meno astratta ("essere", "nulla", "divenire") e sempre più ricca di articolazioni ("diritto", "morale", "eticità" ecc.).

In entrambi gli svolgimenti Hegel applica la dialettica, intesa però non come "tecnica", ma come procedimento intrinseco di un pensiero che, differentemente che in Kant e negli autori del passato, non si ferma davanti alla contraddizione, ma la "supera" (Aufhebung) nella cd. "sintesi" (che ha carattere concettuale, non mistico o pratico).

 

La logica

Conseguita nella Fenomenologia l'identità di essere e pensiero o di reale e razionale Hegel inaugura il "sistema" con la Scienza della logica (1816), ponendosi il problema del "cominciamento" del sistema stesso. Il principio più immediato gli appare ora non più la coscienza (soggetto separato dall'oggetto), ma l'essere (in quanto pensato), come l'Assoluto stesso immediatamente inteso. "L'essere": tutto ciò che è assolutamente. Essere = Verità. L' essere sta dietro ciascun oggetto, come l'elemento fondamentale di cui è imprescindibilmente costituito. Ma, così astrattamente concepito, privo di "determinazioni", di qualità: Essere = Nulla [vedi supra].

 

 

DIALETTICA E POLITICA

 

Dalla Logica allo Spirito oggettivo

Non seguiamo analiticamente tutte le figure del "sistema", né ci preoccupiamo di giustificare il passaggio logico-dialettico dall'una all'altra. Diciamo semplicemente che nella Logica, complessivamente, identica a una Metafisica, in forza dell'identità di pensiero ed essere, Hegel deduce e colloca al proprio "luogo logico" i principali concetti della filosofia pura (sostanza, qualità, quantità, misura, essenza ecc.), nonché della logica (universale, particolare, sillogismo ecc.). Nella filosofia della natura esamina il passaggio dal meccani(ci)smo all'organi(ci)smo attraverso il chimismo (dal semplice al complesso) per giungere alla coscienza dell'uomo. Infine, nella filosofia dello spirito soggettivo riesamina lo sviluppo della coscienza individuale, in parte già svolto nella Fenomenologia, per pervenire alla dimensione oggettiva o collettiva dello spirito (spirito oggettivo). La trattazione di quest'ultimo costituisce, forse, la maggiore fatica di Hegel, esposta in maniera analitica nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821).

 

 

 

Le idee politiche di Hegel sono un caposaldo del pensiero poltico e giuridico moderno: vennero riprese sia da filosofi comunisti (Marx), sia da filosofi liberali e nazionalisti (Gentile e Croce).

Per comprendere la dottrina politica di Hegel bisogna fare un passo indietro e focalizzare i concetti fondamentali del contrattualismo, dottrina considerata ancor oggi a fondamento dello Stato moderno, che Hegel presuppone ma critica.

 

GIUSNATURALISMO E CONTRATTUALISMO

Hobbes & Locke & Rousseau, dopo la rivoluzione culturale dell'umanesimo e del rinascimento e l'epoca della guerre di religione (XVI-XVII secc.), hanno introdotto per la prime volta l'idea che l'uomo sia nato libero, in una condizione originariamente a-sociale.
Egli, quindi, potrebbe in linea di principio decidere liberamente del proprio destino.
Lo Stato deve richiedere al singolo il minimo necessario per poter esistere a garanzia dei suoi diritti originari (in termini di tasse o servizi resi, come quello militare), mentre il singolo deve poter dedicare a se stesso il resto del tempo.
In altri termini viene concepita l'idea che il pubblico si fondi sul privato e non viceversa.

Secondo Hobbes (XVII sec.) e il pensiero che da lui prende forma (giusnaturalismo, cioè teoria del diritto ["ius"] naturale o contrattualismo, cioè teoria del contratto sociale) gli uomini nascono liberi ed indipendenti e hanno, originarimente, diritto a tutto (ius in omnia). Tutti possono tutto e possono tentare di soddisfare liberamente tutti i loro desideri (stato di natura).

Per evitare che ogni individuo viva nelle costante paura degli altri individui, tuttavia, ci si è organizzati - questa la ricostruzione di Hobbes - in uno stato civile alla base del quale vige, pertanto, un particolare tipo di accordo: il patto o contratto sociale.

Hobbes, in altri termini, sostiene che, in principio, prima dell'avvento dello stato e/o della società civile, tra gli uomini sussistesse lo stato di natura in cui tutti potevano tutto. Questo tipo di condizione è "scomoda" perché ogni uomo è costretto perennmente a difendersi dagli altri:, perciò è necessario stipulare un contratto in base al quale a un terzo soggetto (singolare o collettivo) viene dato l'incarico di governare e di formulare delle leggi: si tratta del contratto sociale che, secondo il giusnaturalismo e il contrattualismo moderni, sta alla base dello Stato.

Lo stato è, dunque, in ultima analisi, una semplice associazione di soggetti liberi.

La dottrina di Hobbes, che inaugura la filosofia politica moderna, viene ripresa con variazioni, relative alla forma dello stato (non più assoluto, ma liberale o democratico), da Locke (sec. metà XVII sec.) e Rousseau (XVIII sec.).

L'idea di fondo è stata fatta propria, nel XIX sec., dal liberalismo, corrente di pensiero che sostiene il valore sacro della libertà degli individui: come un'associazione privata, lo stato ha lo scopo di esercitare il monopolio della forza, quella che gli individui associati gli conferiscono (e potrebbero, quindi, sempre anche togliergli).

Secondo la concezione "giusnaturalistica" classica nello stato di natura il primo che si impossessa di beni che non appartengono a nessuno ne diventa il proprietario: quindi il diritto si basa sul possesso. Se decido di scambiare il mio oggetto con altri faccio l'operazione di scambio che presuppone un contratto privato. Lo Stato si limita a garantire tale contratto.

 

Nelle concezioni tradizionali (premoderne o extraeuropee) non si concepiscono gli uomini come individui isolati. Ogni cultura tradizionale mette prima al centro l'associazione (stato, città, comunità), quindi l'individuo, sacrificabile per il bene della comunità.

Secondo queste concezioni l'uomo è sempre stato (perché lo è per natura o essenza) un animale socievole e politico (cfr. Aristotele); ciò implica che prima "viene" lo Stato e poi l'individuo: se salvo lo stato salvo l'individuo.
L'uomo è considerato come la cellula di un organismo superiore.
Oggi questa concezione viene considerata disumana, perché implica che il singolo possa essere sempre sacrificato "sull'altare" della comunità: l'uomo esiste solo per la comunità; il piacere privato è considerato anti-sociale perché l'individuo vi si isola dagli altri e dalla comunità, come se una cellula di un organismo non svolgesse più solo le proprie funzioni, ma si prendesse delle licenze che non le competono, mettendo a repentaglio la salute dell'organismo.

Anche i totalitarismi (come quelli sorti nel XX sec.) prevedono uno Stato forte che permea ogni aspetto della vita del singolo, sottraendogli spazi di "privato" che viceversa le dottrine moderne, di tipo "contrattualistico", tendono a garantirgli.

 

L'attuale moderno stato di diritto (liberal-democratico), di tipo occidentale, è ispirato alla dottrina del patto sociale (che sarebbe espresso dalla "Costituzione" scritta, per es. quella italiana). Esso è "garantista", ovvero mediante il diritto, a cui esso stesso si attiene, regolamenta e tutela le libertà dell'individuo.

L'individuo è libero di fare tutto ciò che non è vietato dalla legge.

 

Hegel, discutendo la nozione contrattualistica di Stato, ci aiuta a intenderne le implicazioni, anche se non dovessimo accettare le sue conclusioni finali.

Egli, pur senza tornare alla concezioni di tipo tradizionale che antepongono assolutamente lo Stato all'individuo negando a quest'ultimo ogni spazio di libertà (in filosofia: la dottrina politica di Platone, è un esempio classico), rileva un paradosso nella dottrina contrattualistica che così possiamo riassumere.

Lo Stato deve essere presupposto per convalidare qualsiasi contratto, compreso quello sociale. Come può, quindi, lo Stato stesso essere il risultato di un contratto?

Hegel dimostra che il movimento logico tipico della filosofia politica moderna è aporetico.

La proprietà presuppone il contratto piuttosto che essere il contratto a presupporre la proprietà; perché il titolo che afferma la proprietà è il contratto di acquisto di un bene.
Infatti è falso dire che il mero possesso costituisce un diritto in quanto è solo il riconoscimento pubblico del possesso (di cui è espressione il contratto) che mi garantisce il possesso stesso e ne fa qualcosa di "giuridico".
Non basta. Se tutto semplicemente dipendesse dal riconoscimento pubblico non sarebbe necessario presupporre uno Stato in quanto basterebbe che tutti fossero d'accordo sul possesso reciproco. Questo tuttavia, ancora una volta, è falso, perché in assenza di un arbitro dotato della forza di costringere al rispetto dei contratti stipulati, chiunque potrebbe, a suo piacimento, cambiare o stracciare il contratto precedentemente stipulato, quale mero pezzo di carta. Ci deve essere, dunque, qualcuno o qualcosa che con la forza ci faccia. rispettare il contratto. Questo "qualcosa" è lo Stato, l'autorità pubblica, che solo contraddittoriamente, dunque, potrebbe essere l'effetto di un contratto.

Secondo Hegel, dunque, lo Stato "viene prima":

 

 

Stato contratto proprietà

Lo Stato, quale è presupposto dalla teoria del diritto, deve esercitare tutti tre i poteri classici: potere giudiziario, esecutivo e legislativo, indipendentemente dai modi nei quali essi sono ripartiti tra i suoi organi. Inoltre, in caso di conflitto tra gli organi, è necessario identificare un'istanza decidente suprema che per Hegel coincide con il monarca.

La democrazia è contraddittoria perché non ha senso che ciascuno sia giudice in causa propria: lo Stato può costringermi a rispettare il diritto solo se non coincide con me, col cittadino, ma rappresenta l'universale interesse generale di contro al mio interesse particolare. Né l'interesse generale può coincidere con la semplice somma degli interessi particolari o privati. Anzi se questi prevalgono sull'interesse generale si ha la corruzione dello Stato e il dominio dispotico di alcuni privati (fossero pure la maggioranza) su altri privati.

 

Il diritto

Il diritto si fonda sulle libertà individuali (è il risultato di un contratto sociale).

Apparentemente non v'è niente di così esclusivo come la "proprietà" di cui si dice, appunto, che è "privata". Ma in tanto posso dire che qualcosa mi appartiene, in quanto tale appartenenza è oggetto di pubblico riconoscimento e presupposto dello scambio. Sarebbe ben misero un bene che non potesse divenire oggetto di scambio. Ma la possibilità dello scambio implica quella del contratto. Questo, per essere tale, esige una forza in grado di farlo rispettare, di punire la sua eventuale violazione ecc. Quanto di più personale, la proprietà, finisce per presupporre/implicare dialetticamente un'istanza pubblica, riconosciuta, che agisca sulla base di "norme". Già si intravede la necessità dello Stato (che dunque non può essere effetto di contratto, ma piuttosto il presupposto, la condizione di ogni possibile, sensata contrattazione).

Che cosa presuppongono in Hegel contratto e, quindi, proprietà privata?

"Il contratto presuppone che i contraenti riconoscano se stessi come persone e proprietari", dunque il contratto presuppone la proprietà, ma entrambi, contratto e proprietà, presuppongono il riconoscimento reciproco tra i soggetti. Non è possibile per Hegel isolare astrattamente i singoli momenti del tutto (proprietà, contratto, società ecc.) come se uno venisse prima degli altri, fosse il fondamento dell'altro. Nello spirito oggettivo (cioè in quella sorta di iper-soggetto sociale o collettivo al quale tutti apparteniamo) ciascun momento presuppone tutti gli altri. In particolare, come si vedrà subito, i concetti del diritto astratto (proprietà , contratto, sanzione ecc.) non avrebbero senso al di fuori di quel concetto supremo dello spirito oggettivo che rende effettivi tutti gli altri (compresa la morale, la società civile ecc.), cioè lo Stato.

 

La moralità

Ma nessuna legge "esterna" può prevenire il delitto se non si rovescia in legge "interiore", quale è la legge "morale". Ma la legge morale vincola ciascuno ad agire come ciascuno immagina che anche gli altri debbano agire (universalità dell'imperativo categorico di Kant), ma non prescrive in concreto alcunché. Paradossalmente la legge morale, in quanto è astratta, pretende quel valore universale che, in quanto è posto solo dal singolo, è tale contraddittoriamente.

La morale di Kant si base sull'affermazione: " Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te". Hegel rifiuta questa visione perché, in ultima analisi, egli osserva che se uno si decide per una propria morale non può non voler imporre agli altri la sua idea, ma proprio questo è paradossalmente immorale. Quindi la morale soggettiva o astratta è immorale. Egli giunge alla conclusione che l'unica morale che non porta a contraddizioni è quella che si traduce nel costume rispecchiato dalle leggi dello Stato.

L'ESEMPIO DELL'OBIEZIONE DI COSCIENZA

Posso disobbedire eticamente all'obbligo di prestare servizio militare, se ammetto che anche gli altri possano fare altrettanto, ma con ciò, in effetti, obbedisco "egoisticamente" solo a una legge che mi sono dato da solo.

Io. singolo, mi pongo in coscienza contro la guerra, mentre lo Stato richiede il servizio militare. Io singolo, proprio perché la mia azione rivesta carattere morale, devo desiderare che tutti seguano la mia legge (astenersi dal servizio militare). Tuttavia non accetterei che un altro con una legge diversa dalla mia (per esempio un "militarista") volesse imporre la sua legge a me. Ma questo mio rifiuto della legge dell'altro singolo che "in coscienza" si schiera dalla parte della guerra configura una violazione del principio generale: "agisci secondo una regola che possa valere anche per tutti gli altri". Infatti in questo caso la regola "la legge che uno dà a se stesso in coscienza deve valere anche per gli altri" la applico solo a me stesso, ma la respingo quando si tratta di un mio avversario. Dunque non agisco moralmente, ma arbitrariamente.

Trasformo una legge individuale (nel mio caso pacifista) in una universale, senza accettare che altri facciano lo stesso, e violo paradossalmente la legge morale proprio quando cerco di affermarla.

 

In Hegel io, per essere agire secondo la "vera morale" (sintesi tra la tesi della legge individuale e l'antitesi della legge universale) devo voler fare secondo la legge già esistente, quella effettivamente universale.

La vera etica è quella pubblica: per questo è necessario che chi rappresenta lo Stato non abbia interessi privati.

La stessa moralità, in quanto domanda, universalità, esige sottomissione alla legge che "concretamente" è universale, cioè che vale attualmente per tutti. E questa non può essere se non la legge dello Stato che si rivela, in tal modo la suprema istanza politica, etica, giuridica e sociale.

In altre parole per Hegel la regola di Kant produce antinomie.

Bisogna seguire la legge già vigente che è accettata da tutti. In caso di disputa è il Codice Civile a dirimere i dubbi. L'evoluzione del diritto è l'effetto delle operazioni di grandi statisti (detti "individui cosmico-storici", per es. Napoleone) oppure dal movimento della comunità (che Hegel interpreta come Zeitgeist, "spirito del tempo").

 

Lo Stato

I momenti unilaterali della famiglia (in cui si realizza in modo immediato l'identità della legge esterna e di quella interna grazie all'amore) e della società civile (in cui vige la competizione degli individui limitati solo esternamente dalla legge) si rivelano presupporre/implicare dialetticamente per il loro stesso sussistere lo Stato.

Lo Stato, a sua volta, come presupposto della stessa nozione di popolo (non c'è popolo prima o fuori dello Stato che lo fa tale), della vigenza dei contratti (cfr. diritto astratto) ecc., non può essere inteso né come effetto del "contratto sociale" come prescrive la tradizione del pensiero politico moderno (cfr. Hobbes, Locke, Rousseau) (se così fosse, quale forza potrebbe garantire il contratto sociale, prima dello Stato stesso?), né derivare la propria sovranità dal popolo (come nella moderna concezione democratica), ma deve essere originario e sovrano in modo assoluto, incarnando, nella sfera oggettiva, lo stesso spirito del proprio tempo con tutto ciò che implica (legislazione, costumi, scienza, arte ecc.).

Quale la differenza fondamentale tra la maniera illuministica (e anche odierna) di concepire lo Stato e quella di Hegel?

In ultima analisi nella prospettiva del diritto naturale moderno, fatta propria dall'illuminismo e comune ai nostri giorni, "prima viene l'individuo, poi lo Stato". Dal diritto naturale di ciascuno scaturiscono una serie di doveri per lo Stato ecc. Lo Stato stesso è concepito come l'effetto di un contratto (immaginario) stipulato tra soggetti che, quindi, si presuppone che fossero già liberi, dotati di un codice morale ecc.

Hegel fa notare che si tratta di un'astrazione contraddittoria. La libertà come noi la conosciamo, la stessa moralità ecc. presuppongono lo Stato. L'individuo come cittadino può godere di una serie di vantaggi e di libertà nello Stato solo se come suddito assolve i suoi doveri verso di esso (alcuni dei quali possono prevedere anche il sacrificio della sua stessa vita). Lo Stato, concettualmente, viene prima dell'individuo.

Conseguenza (antidemocratica) di ciò è che la sovranità deve risiedere nello Stato stesso e non nel popolo che è, a sua volta, "fatto" dallo Stato (p.e. non ci sarebbero "Francesi" - e neppure una lingua comune come il "francese" - se nel corso del M.E. i re discendenti da Ugo Capeto non avessero condotto lunghe guerre per costruire lo Stato di Francia).

Questo tratto della filosofia politica di Hegel, che riprende una concezione classica della politica risalente a Platone, è stato alla base teoricamente di alcune forme del totalitarismo del Novecento, in particolare di quella del fascismo italiano sulla base della mediazione della filosofia neo-hegeliana di Giovanni Gentile

Quale per Hegel lo scopo (duplice) dello Stato e delle leggi?

In ultima analisi lo scopo di Stato e leggi per Hegel è duplice. Da un lato essi rendono possibile libertà e benessere dei cittadini, sono quindi un mezzo per uno scopo chi li trascende. Ma dall'altro lato hanno anche per scopo se stessi: lo Stato riconduce le sfere particolari che gli sono sottomesse alla "vita della sostanza universale", cioè allo spirito di cui esso stesso è il momento oggettivo; le leggi realizzano il costume, la moralità come altrimenti ai singoli non sarebbe possibile fare. La legge morale suggerisce che si debba agire per uno scopo diverso dal puro piacere. Ebbene tale scopo (ancora astratto nella prospettiva di Kant) si rivela ora (in Hegel) lo Stato stesso come manifestazione dello Spirito del mondo. Da questo punto di vista noi siamo i mezzi per la gloria dello Stato. Altrimenti non sarebbe giustificato p.e. il sacrificio militare.

 

 

DIALETTICA E FILOSOFIA

 

Cfr. Hegel, Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto

Hegel considera la filosofia semplicemente "il proprio tempo appreso col pensiero". Ora tale comprensione (o "intelligenza") avviene tanto nella coscienza del singolo (spirito soggettivo) quanto nello Stato (spirito oggettivo). Ma avviene in modo pieno e assoluto nella filosofia stessa (che non è più del singolo che della comunità). La filosofia è lo spirito stesso che, nella storia, impara a poco a poco a conoscersi attraverso le figure del processo dialettico. In modo meno perfetto lo Spirito si conosce, via via, anche attraverso l'arte (in modo sensibile) e la religione (attraverso una "rappresentazione" di sé, Dio). Ma è solo nella filosofia, cioè in definitiva in quella dello stesso Hegel, che lo Spirito (cioè, in ultima analisi, l'Umanità), ricomprendendo in sé tutti i momenti della propria storia dialettica, riconosce compiutamente se stesso.

 

 

L'IDEALISMO

L'identità, affermata da Hegel, di reale e razionale può essere compresa sotto diverse prospettive.

Il reale è razionale nel senso che ciò che si verifica realmente (ad esempio sul piano storico) ha sempre dalla sua una ragione, e, quindi, può essere giustificato.

Anche la Natura obbedisce a leggi razionali, che "noi" siamo in grado di concepire (cioè, "lo Spirito" è in grado di concepire), mentre essa stessa ne è apparentemente inconsapevole.

La società, altresì, è regolata da leggi positive (politiche e morali), che hanno una propria intima ragion d'essere, che noi non semplicemente conosciamo ma rendiamo vere realizzandole (ma restando sempre singolarmente liberi di trasgredirle, a differenza di quello che può fare una pietra verso le leggi naturali).

Più radicalmente l'identità di reale e razionale è intesa da Hegel in senso idealistico, ossia nel senso di una riduzione di tutta la realtà a razionalità.

Per comprendere questo passaggio, che risale a Fichte, discepolo di Kant, bisogna ritornare alla "rivoluzione copernicana" di Kant.
Secondo Kant noi ricostruiamo tutta la realtà a partire dal fenomeno (ossia da come essa ci appare) sulla base di forme e principi a priori (categorie). Dunque gli "oggetti" di cui facciamo esperienza sono in gran parte dei "costrutti" della mente (infatti, se togliamo immaginariamente dagli oggetti quello che "noi" ci mettiamo: colori, sapori, odori, ma anche forme, grandezze, numero ecc; di quella che consideriamo la "realtà" rimane ben poca cosa).
Tuttavia, secondo Kant, la fonte della nostre sensazioni rimane esterna, anche se "inconoscibile": si tratta della "cosa in sé".
La tesi idealistica, inaugurata da Fichte, ma fatta propria anche da Hegel è essenzialmente la seguente:
la "cosa in sé", estremo baluardo di realtà non soggettiva, non esiste se non come "concetto" della nostra mente (e, in particolare, della mente di Kant). Infatti, non ne facciamo alcuna esperienza, per la stessa ammissione di Kant.
Tutta la realtà, in ultima analisi, si risolve in nostre sensazioni e in nostri concetti.

Applichiamo l'idealismo, così inaugurato, alla natura: le leggi fisiche sono costrutti dello Spirito e non esistono se non nella nostra mente.
Applichiamolo alla società: lo Stato non esiste se non nella mente degli uomini che lo concepiscono (infatti non ha forma né colore, non è un "oggetto" fisico, in tanto esiste, in quanto è pensato).

Per contestualizzare il percorso svolto si può leggere, sul manuale Abbagnano - Fornero, Autori di Fare filosofia, Torino, Paravia 2001, vol. II[citato per cap. § e capoverso], il cap. XIV (Hegel), §§ 2-4 e §§ 8-12

 

 

DESTRA E SINISTRA HEGELIANE

 

Per contestualizzare il percorso si può leggere, sul manuale Abbagnano - Fornero, Autori di Fare filosofia, Torino, Paravia 2001, vol. III [citato per cap. § e capoverso], cap. III

Originariamente hegeliani di sinistra si dissero coloro che intendevano l'equazione reale = razionale nel senso che la realtà storico-empirica (accidentale, imperfetta) dovesse essere resa razionale attraverso riforme, dunque gli hegeliani progressisti. Quelli di destra, più vicini alla lettera hegeliana, intendevano che l'esistente dovesse venire giustificato e sostenuto in quanto già razionale, dunque erano i conservatori.

Oggi, dopo Marx, tendiamo a sovrapporre all'originario significato di DX e SX un secondo significato, connesso all'attribuzione o meno di valore alla giustizia sociale, intesa come eguaglianza economica. Ma come si vede nello schema non sempre i due significati si possono sovrapporre.

 

 

DIALETTICA DEL CONCRETO (FEUERBACH)

Ludwig Feuerbach (1804-1872) intende mettere in discussione i presupposti idealistici di Hegel, ricorrendo allo stesso metodo hegeliano, la dialettica.

Nella Fenomenologia dello Spirito, come abbiamo visto, per Hegel " questo x", che sembra riferirsi solo al particolare (soggetto), si riferisce in realtà all'universale (predicato).

In "questo è un libro" "questo" indica il particolare, mentre "è un libro" indica l'universale.

La verità universale è dunque indicata dal predicato, non dal soggetto (in forza di un processo dialettico).

Per Feuerbach il soggetto è la "cosa vera", mentre il predicato è solo un pensiero. Quello che "importa" è il soggetto.

 

 

L'ALIENAZIONE RELIGIOSA

 

Per Hegel lo Spirito è più "importante" del singolo, le opinioni del singolo non contano poi così tanto, ma "esistono" tanto più quanto più sono manifestazioni dello "spirito" del proprio tempo.

Per Feuerbach non è Dio (lo Spirito) ad aver creato l'uomo, piuttosto è l'uomo (tesi) ad aver creato Dio (antitesi) attraverso una proiezione, alienazione.

L'uomo ha alienato se stesso in Dio (Dio è a immagine e somiglianza dell'uomo, non viceversa).

La riprova è l'attribuzione a Dio di qualità umane.

L'uomo moderno, tuttavia, ha capito di essere lui il "Dio" della terra (sintesi).

La religione deve essere riportata sulla terra (secolarizzazione-laicizzazione).

I motivi dell'alienazione in Dio (cioè della creazione di questo super-uomo immaginario) sono:

L'idealismo di Hegel viene rovesciato in materialismo da Feuerbach. Rispetto al materialismo tradizionale proprio per es. di certo illuminismo settecentesco, di derivazione cartesiana (La Mettrie, L'uomo macchina ecc.) Feuerbach riconosce il valore e il senso dell'alienazione spirituale, nel momento stesso in cui ne denuncia la falsità, grazie alla analisi dialettica che svolge, di ispirazione hegeliana (materialismo dialettico)

 

 

NATURA DEL MARXISMO

 

Marx (1818-1883) si ispira alla concezione dialettica hegeliana, ma la vede radicata nella storia: il pensiero dialettico (teoria) può anticipare/prevedere scientificamente la sintesi rivoluzionaria tra opposti (le classi in lotta), ma solo la prassi, la rivoluzione storica, può realizzare tale sintesi. "I filosofi finora hanno interpretato il mondo. Ora si tratta di trasformarlo" (dalle Tesi su Feuerbach, 1845)

E' difficile classificare il marxismo come "filosofia". Dal punto di vista marxista la "filosofia" è una forma di ideologia, un elemento della sovrastruttura, in definitiva una "mistificazione". Marx preferiva considerare la sua dottrina come scienza, il "socialismo scientifico", ma anche la scienza è, in generale, per Marx un prodotto ideologico. Di qui la difficoltà a intendere il marxismo. Potrebbe essere inteso come l'"ideologia" della classe operaia, ma non nel senso marxiano di ideologia che significherebbe "mistificazione". Forse la cosa può intendersi in questo modo: come filosofia o ideologia speciale, diretta a trasformare il mondo piuttosto che a interpretarlo [cfr. Tesi su Feuerbach, 1845], il marxismo potrà essere riconosciuto come "vero" (corrispondente all'interesse non solo della classe operaia, ma di tutti) pienamente solo nella futura "società senza classi".

 

 

CRITICA DELLO SOCIETÀ BORGHESE

 

Karl Marx nacque a Trèviri nel 1818, al confine fra Germania e Francia. Studiò a Jena, la città in cui nacque il romanticismo. Nel 1843 fondò "La Gazzetta Romana", nella quale era facile individuare una critica alla filosofia del diritto hegeliana; solo l'anno seguente Marx divenne l'uomo che noi tutti conosciamo, il fondatore del comunismo. Nella sua dottrina di fondo, già nel 1843, è implicito l'obiettivo utopistico dell'anarchia: egli, a differenza di Hegel, vede lo stato come un elemento sostanzialmente di parte del sistema sociale, che può essere a favore del proletariato o della borghesia, comunque lontano da una condizione di neutralità quale quella che esso vanta (specialmente in Hegel, ma anche nella tradizione premoderna) .

Per porre fine alla diseguaglianza Marx a partire dal 1844 prevede una rivoluzione che abbia come esito una società senza classi. La teoria, dopo l'attuazione di un primo stato comunista, prevede l'estinzione dello stato (anarchia).

Questo obiettivo, storicamente, è risultato, per ora, irraggiungibile, forse destinato a rimanere un'idea. I sistemi ispirati alla dottrina di Marx non sono mai riusciti a superare la fase della dittatura del proletariato, che anzi ha assunto quasi sempre i caratteri di una dittatura dei diversi partiti comunisti sul proletariato e sulla società in generale (cfr. leninismo).

Più che sugli esiti rivoluzionari, dunque, la nostra riflessione filosofica si concentrerà sull'analisi critica svolta da Marx del sistema capitalistico nel quale in buona sostanza ancora viviamo.

Marx sostiene che la società moderna sia attraversata da contraddizioni, fin tanto che il potere è nelle mani di chi detiene i mezzi di produzione. Questa situazione è descritta da Marx come democrazia formale, quando almeno formalmente lo stato assume la veste di democrazia liberale e rappresentativa. Cfr. l'antinomia della democrazia già in Hegel: se il governo appartenesse effettivamente a tutti (democrazia sostanziale) il sistema coinciderebbe di fatto con l'anarchia, altrimenti si configura comunque il dominio ("kratìa") di alcuni su altri.

La soluzione della contraddizione (rappresentata da una democrazia che non è una vera democrazia) sta nella rivoluzione da parte del proletariato (succedaneo della "sintesi" dialettica di Hegel, realizzata non nel pensiero, ma nella prassi, non nel presente, ma nel futuro, non tra concetti, ma tra classi in lotta). La rivoluzione istituisce lo stato socialista, che secondo Marx, come detto, è il mezzo per pervenire all'obiettivo anarchico del comunismo vero e proprio.

 

 

L'ALIENAZIONE SOCIO-ECONOMICA

 

Nei Manoscritti del 1844 [trattandosi del testo di un manoscritto Marx ci dà solo l'idea di quello che pensava verso il 1844, senza impegnarsi a sostenere pubblicamente tesi che in seguito avrebbe potuto anche smentire - quando scrive "noi" è sottinteso un riferimento ai "compagni" della Lega dei giusti (poi dei Comunisti) di cui faceva parte] Marx presuppone quella che chiamerà la struttura, che è data dalle "leggi" scoperte dell'economia politica (p.es. la "legge della domanda e dell'offerta" ecc.). Tuttavia considera già tale struttura non qualcosa di naturale, come gli economisti classici, ma di storico, effetto del modo di produzione capitalistico. Indizio del carattere non necessario, ma provvisorio e instabile della struttura economica è la sua contraddittorietà, che Marx mette qui in evidenza, in primo luogo, dal punto di vista del lavoro in fabbrica, caratteristicamente alienato.

L'alienazione è contraddittoria perché esprime il fatto che ciò che appartiene all'operaio in quanto egli lo produce, in quanto prodotto del lavoro, non gli appartiene più, in quanto merce: il suo stesso lavoro, la sua umanità, se stesso come uomo non gli appartengono più. La tesi ("si tratta del mio lavoro") implica il proprio contrario. Mentre per Hegel il gioco dialettico riguarda solo il pensiero, i concetti; per Marx riguarda l'uomo storico e concreto, appartenente a una determinata classe sociale, di una determinata epoca.

Cos'è l'alienazione?

L'espressione deriva da "alieno", cioè "altrui" (di un altro). Alienare significa rendere altrui qualcosa di proprio (sinonimo: "espropriazione"). Anche la vendita di una merce è un'alienazione.

Per Marx più l'operaio lavora più è povero. Il borghese meno lavora più è ricco.

Forme di alienazione sono:

1. ALIENAZIONE DEL PRODOTTO

L'uomo si aliena rispetto al prodotto che non gli appartiene sebbene esca dalle sue mani.

Il prodotto del lavoro è alienato (= altrui, di un altro).

2. ALIENAZIONE DELL'ATTIVITA' L'uomo si aliena dalla propria stessa attività lavorativa perché è una merce come le altre che egli vende. L'operaio diventa merce. L'operaio fa di se stesso una merce nel momento in cui produce merci. L'operaio mentre produce si sente una merce perché le merci che produce non sono sue. Il suo lavoro, infatti, è stato comprato come una merce qualsiasi.
3. ALIENAZIONE DELLA LIBERTÀ DI DIVENTARE CIÒ CHE SI VUOLE IN QUANTO UOMO (ESSERE GENERICO)

Si aliena da se stesso come uomo perché è strumento a fini estranei di un lavoro forzato (se fosse veramente libero farebbe ciò che vuole e riempirebbe la sua attività di infiniti lati creativi).

L'operaio diventa bestia. Si sente libero solo quando mangia, beve, dorme. E' ricattabile in quanto tiene alla vita. L'uomo asservito alla produzione industriale non può cambiare liberamente attività, come sarebbe nella sua natura di essere generico (Gattungswesen), che, a differenza degli altri animali, non ha una specifica vocazione produttiva. L'uomo è obbligato ad una sola attività (come le bestie). Fuori del lavoro c'è solo la vacanza, cioè l'assenza del lavoro; se il lavoro non fosse alienato non ci sarebbe differenza tra lavoro e vacanza; con l'eliminazione della proprietà privata cade la distinzione tra lavoro e vacanza.
4. ALIENAZIONE DELL'ALTRO UOMO L'uomo è alienato dall'altro uomo, il datore di lavoro, perché non ha con lui un rapporto alla pari.

Il potere (cioè, per Marx, il possesso dei mezzi di produzione) cambia i rapporti tra le persone. Chi ha il potere aliena l'altro uomo, lo mette in soggezione. Quando una persona esercita il potere su un altro uomo, i due non si riconoscono reciprocamente come uomini ma il lavoratore vede l'imprenditore come una divinità o un dèmone, mentre l'imprenditore considera l'altro una merce.

 

Delucidazione del terzo tipo di alienazione (dalla propria natura di essere generico)

L'uomo può produrre anche cose che non sono uomini, mentre gli animali producono solo secondo le loro capacità e principalmente esemplari della stessa loro specie. L'uomo invece produce le cose nel modo migliore possibile rispetto all'essenza di ciascuna cosa, non rispetto all'essenza propria. L'uomo può situarsi dove vuole nella gerarchia del mondo e da solo può fare tutto. Cfr. Pico della Mirandola, pragmatismo americano ecc. Il problema, per Marx, è che questo non è (più/ancora) possibile finché sussiste l'alienazione. Si tratta, dunque, di un presupposto antropologico della dottrina di Marx a cui, tuttavia, non corrisponde (né può) alcuna evidenza storica, dato che la storia è storia di lotta di classe, cioè dello sfruttamento di una classe (dominante) sull'altra (oppressa).

L'alienazione è la condizione dell'operaio (vs. "lavoratori autonomi"). Alienato = espropriato.

Il lavoro, nella società capitalistica, aliena l'uomo da se stesso. Per Marx l'alienazione non è sempre stata così radicale. "All'inizio" tutti gli uomini erano uguali: vigeva un comunismo primitivo. Nel capitalismo l'operaio esiste solo in funzione del profitto del capitalista. È vero che l'operaio è "libero di licenziarsi" se non gli "aggrada" il contratto che lo lega al singolo imprenditore, ma, poiché tutti i capitalisti hanno interesse a proporre il minimo livello salariale (cfr. la teoria della domanda e dell'offerta), in assenza di tutele pubbliche (minimo salariale ecc.), l'operaio si trova di fatto asservito al mercato, la sua libertà di scelta risulta meramente formale.

Si può capire, quindi, che l'alienazione è massima nel capitalismo, ossia in una società dove la polarizzazione delle classi porterà (per Marx) alla divisione esclusiva tra borghesi e proletariato (classe dominante e dominata) e all'estinzione di una classe media (causa di concorrenza).

 

 

ROVESCIAMENTO DELLA DIALETTICA ASTRATTA

 

Di Hegel Marx riprende la dialettica, ma

a) la riferisce alle contraddizioni tra le forze storiche della società e non ai puri concetti della ragione;

b) assume che solo la prassi rivoluzionaria, non il pensiero, possa risolvere tali contraddizioni. La pretesa hegeliana di filosofare non per trasformare la realtà, ma per comprenderne la struttura dialettica, finisce solo per giustificarla. Di qui l'accusa di "misticismo logico", cioè, nonostante il valore del metodo dialettico scoperto, di averlo piegato alla funzione ideologica di "giustificazione dell'esistente", cioè del modo di produzione capitalistico.

 

Cfr. L'ideologia tedesca (1846)

Marx critica il capovolgimento dei concetti universali e individuali: egli sostiene che l'individuo è dotato di realtà e l'universale è solo un suo predicato. Egli distingue la funzione progressiva dell'intelletto finito da quella della ragione speculativa nella quale vede la (fittizia) sostanza universale, ricollegandosi così alla critica dell'ideologia.

In sostanza Marx legge la dialettica del questo (dell'ora e del qui) della Fenomenologia di Hegel al contrario. La verità non è il "questo universale", l'ora solidale con l'Io che la pensa, mentre l'ora determinata (notte/giorno) sarebbe l'individuale contraddittorio, apparente; al contrario veri e concreti sono i singoli momenti del tempo, mentre il concetto universale di "ora" resta un'astrazione.

 

 

 

LA DISTINZIONE TRA STRUTTURA E SOVRASTRUTTURA

 

 

Tesi: I rapporti giuridici e le forme dello Stato hanno le loro radici nei rapporti materiali dell'esistenza; l'anatomia della società civile è da ricercarsi nell'economia politica.

Corollari:

 

La struttura è data da

Ogni società è caratterizzata e definita dalla sua struttura.

Al di sopra della struttura c'è un insieme di elementi "spirituali" atti a mantenere tale struttura: la sovrastruttura

La sovrastruttura è data da

 

La STRUTTURA, dunque, è costituita, essenzialmente, dall'economia, cioè dai rapporti di produzione stessi.

In generale con la SOVRASTRUTTURA il borghese sottomette l'operaio.

Il "modo" in cui il borghese sottomette l'operaio, fa sì che l'operaio non si ribelli.

Il borghese usa per es. la "morale" per ingannare l'operaio. M. considera, cioè, la morale come qualcosa di ideologico..

 

 

LA NOZIONE DI IDEOLOGIA

 

Marx fa un'osservazione e una domanda: "Gli operai sono tanti, ma sono sempre più poveri". Perché?

I borghesi sono pochi, ma sono sempre più ricchi

Marx risponde che non sarebbe possibile tale situazione se non esistesse una "perversione culturale", per cui gli operai sono convinti che tale struttura sociale sia giusta.

 

Elementi dell'ideologia (cioè, in ultima analisi, della sovrastruttura) sono il diritto, lo Stato, la proprietà privata, la morale, la religione (considerata "l'oppio del popolo"), la letteratura e la cultura. Tutti questi elementi mantengono invariati i rapporti di produzione.

L'ideologia è secondo la definizione marxiana una "rappresentazione deformata della realtà". Più genericamente essa può essere considerata come "il modo di intendere la realtà". Secondo Marx l'uomo percepisce la realtà attraverso il contesto sociale e culturale proprio di un'epoca. Questa visione è quindi "filtrata" dalle convinzioni proprie dell'osservatore, che dipendono dalle sue concezioni morali, religiose e metafisiche. Tali convinzioni, tuttavia, sono condizionate, a loro volta, da ciò che è interesse della classe dominante che si creda. Il modo ideologico di intendere la realtà è caratteristicamente deformato in questo senso.

Il proletariato, nonostante si avvii in molti casi a costituire la maggioranza della popolazione, non si ribella contro l'oppressore in quanto alla base della società ci sono: diritti, leggi, credenze, religione, morale, cultura ecc.. Tutte questi elementi della sovrastruttura costituiscono ciò che Marx definisce "ideologia", essendo strumenti (culturali) mediante i quali la classe dominante controlla il resto della società. Marx propone, allora, un'ideologia contraria a quella tradizionale che è strumentale al dominio di classe: vuole insegnare la rivoluzione.

La lotta di classe appare l'unica soluzione possibile: operai contro borghesi: ogni tipo di accordo tra borghesi e operai finisce per essere un inganno per il proletariato poiché preserva il vantaggio originario dei capitalisti.

Le rivoluzioni si producono quando si sviluppa un'ideologia operaia che si oppone a quella borghese, quando, cioè, in seguito a forte sviluppo tecnologico, i rapporti di produzione non sono più confacenti allo stato delle forze produttive.

Per M. nell'800 il sistema borghese è già in crisi.

Secondo Marx nella società prevale sempre l'interesse economico delle parti sugli elementi della sovrastruttura: l'ideologia serve solo a far prevalere i propri interessi.

L'ipocrisia è, dunque, strutturale alla società borghese.

Anche l'ideologia rivoluzionaria dello stesso Marx esprime determinati interessi, quelli di una particolare classe (in modo non ipocrita, ma scoperto). Marx ritiene, tuttavia, che nella fase del comunismo, cioè nella futura "società senza classi", alla lunga i vantaggi saranno di tutti secondo la massima: "A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità".

 

 

LA FILOSOFIA MARXISTA DELLA STORIA

 

La storia è storia della lotta di classe

Cfr. Manifesto del Partito Comunista (1848)

Le classi si distinguono a seconda di chi detiene i mezzi di produzione (dominante-dominato).

Come fa una classe dominata a diventare dominante?

Dobbiamo considerare le tecniche di produzione. Col passare del tempo chi sviluppa i mezzi di prod + avanzati tende a sovrastare gli altri. I precedenti dominatori sono sempre economicamente + "statici" rispetto ai nuovi (mezzi + vecchi).

Per Marx quando il proletariato avesse scalzato i borghesi non ci sarebbero + state classi da assoggettare, si sarebbe ritornati ad un comunismo analogo a quello primitivo dal punto di vista del possesso dei mezzi, ma enormemente più ricco dal punto di vista della produzione di beni e servizi.

 

Nel Manifesto Marx sostiene che la borghesia abbia avuto nella storia una funzione rivoluzionaria. Dove essa è giunta al potere, infatti, è riuscita a creare un mondo a sua immagine e somiglianza, distruggendo condizioni di vita feudali, patriarcali, "idilliache", sostituendo allo sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, uno sfruttamento diretto ed aperto. Essa ha portato al frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Nel periodo del suo dominio ha sviluppato enormemente le forze di produzione, fino a provocare crisi di sovrapproduzione; ha introdotto, infine, la "libera concorrenza" mediante una costituzione politica e sociale (liberale-rappresentativa) adatta al dominio della classe borghese.

Nell'Ideologia tedesca Marx afferma che la divisione del lavoro riguarda sia i rapporti internazionali che l'organizzazione interna di una nazione. Essa comporta la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo. Ai diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro corrispondono diverse forme di proprietà. Dalla divisione del lavoro è determinato il "grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione".

 

 

LE CONTRADDIZONI DEL CAPITALISMO (IL CAPITALE)

 

Nel Il Capitale (1867 e ss.) Marx ritiene che la contraddizione sia la molla del progresso. Concependola come antinomia storico-materiale (conflitto insolubile d'interessi tra classi sociali) egli ne prefigura nel presente la soluzione nella sintesi della teoria = pensiero (interpretazione della realtà cfr. Tesi su Feuerbach), ma la vede realizzata nel futuro nella sintesi della prassi = rivoluzione (trasformazione della realtà).

Per Marx nella società c'è in primo luogo la seguente contraddizione (® alienazione): gli operai, lavorando, producono ricchezza, ma vengono impoveriti. L'unica sintesi possibile per eliminare questa contraddizione è la rivoluzione.

Nell'economia borghese i capitalisti diventano più ricchi a danno dei proletari che invece si impoveriscono. I rapporti tra queste due classi (capitalisti e proletari) si chiamano rapporti di produzione in relazione al possesso o meno dei mezzi di produzione. I capitalisti possiedono i mezzi di produzione.

Secondo Marx è vincente la società che, nel tempo, produce di più. Dal momento che con l'avanzare dei secoli cresce lo sviluppo tecnico, quando lo sviluppo delle forze produttive non corrisponde più al modo di produzione di una determinata società, questa, per crescere, deve cambiare modo di produzione: una nuova classe dominante, detentrice dei nuovi mezzi di produzione, deve imporsi (imporre non solo la sua forza, ma anche la sua ideologia). È stato, per es., il caso della borghesia vs. l'aristocrazia. Sarà il caso del proletariato.

Attualmente, nel tempo, abbiamo:

Capitalista ------------> + Ricchezza

Proletario -------------> - Ricchezza

N.B.. Per Marx la "ricchezza" è riferita al valore delle merci prodotte.

Questi due fattori, come si può vedere, sono in contraddizione (se consideriamo che chi produce ricchezza non ne gode).

L'alienazione viene ora illustrata da Marx sulla base dei concetti di valore = lavoro, ciclo capitalistico e plusvalore.

La società si polarizza tra capitalisti e proletari. In una società capitalista pura (prefigurata da Marx, ma non ancora esistente) quelli che cercano di resistere alla polarizzazione (artigiani, commercianti) vengono assorbiti: o riescono ad accumulare sufficiente capitale da divenire essi stessi capitalisti, o, dopo essere falliti, sono costretti a proletarizzarsi. (Cfr. quello che si teme possa accadere oggi con gli ipermercati nei confronti dei piccoli negozianti)

Ma dietro questa polarizzazione delle classi si annida una contraddizione.

Marx usa per la prima volta la parola contraddizione, nel senso in cui ancora oggi spesso viene usata o riferita a proposito di disagi e conflitti sociali (p.e. contraddizione nello sviluppo tra Nord e Sud del mondo ecc.), piuttosto che nell'originaria accezione puramente logica (incompatibilità tra proposizioni o giudizi).

I capitalisti, sfruttando gli operai, producono qualcosa (merce) che poi viene venduta alla classe media.

Se questa sparisce, viene assorbita dalle altre due classi in lotta, è la crisi.

Se la classe media scompare o anche solo si riduce si va incontro ad una sovrapproduzione in quanto non si riescono a vendere le merci prodotte: nel 1873 scoppia una depressione economica che i marxisti interpretano come prova della loro teoria. Un momento simile, quando il sistema collassa, secondo Marx è l'ora della RIVOLUZIONE.

Le contraddizioni del capitalismo (denunciate da Marx nel Capitale) sono principalmente queste:

1. Proprio l'obiettivo di vendere, che anima il capitalismo e lo rafforza, non impedisce, anzi fa sì che, alla fine, paradossalmente, le merci restino invendute *

2. Chi domina, riducendosi sempre più di numero, finisce per soccombere perché i proletari, in maggioranza, possono rovesciarlo

3. In particolare con l'avvento della fabbrica gli operai sono sì più sfruttati, ma, sradicati dal mondo differenziato da cui provengono (quali contandini, artigiani, ecc.), si riconoscono reciprocamente nel contesto socializzante della fabbrica come aventi ormai gli stessi interessi, diamentralmente opposti a quelli del capitalista.

 

 

LA TEORIA DELLA RIVOLUZIONE

 

Concepita dialetticamente la storia come storia della lotta di classe (materialismo storico), Marx afferma che la soluzione della contraddizioni del capitalismo non può essere teorica, ma pratica: la rivoluzione. Posto che lo Stato è elemento sovrastrutturale funzionale al dominio di classe della borghesia si tratta di impossessarsene o per via democratica o con la forza, a seconda delle circostanze, per poi riplasmarlo per l'interesse della classe operaia fino all'eliminazione di ogni possibile minaccia contro-rivoluzionaria. Solo a quel punto, con l'estinzione dello Stato, potrà rifulgere la "società senza classi" nella quali "a ciascuno sarà dato secondo i suoi bisogni e ciascuno darà a seconda delle sue capacità". La "sintesi dialettica" è collocata nella storia futura e ha i tratti dell'utopia. A differenza degli utopisti del passato (da Tommaso Moro ai socialisti del primo Ottocento), Marx, però, crede di avere indicato non solo il fine, la società giusta, ma anche i mezzi per conseguirla.