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Indicatori di risultato

 

Come leggere i dati? Criteri di discussione e valutazione del progetto

Quali indicatori di risultato?

Quali dati considerare e come raccoglierli?

 

 

Come già detto, introduttivamente, questo progetto ha inteso mettere in luce se, quanto e come il ricorso, ampio ma oculato, alle nuove tecnologie telematiche modifichi significativamente la didattica della filosofia e il senso di questa modificazione.

Più specificamente si è cercato di capire se il ricorso a una forma di blended e-learning¸ centrato sull'uso di tools telematici quali il web forum e il blog, possa favorire, in modo verosimilmente più efficace di altre strategie didattiche, la trasformazione, auspicata in letteratura, dall'insegnare la storia della filosofia all'insegnare a filosofare (nel senso dell'attivare un procedimento maieutico di ricerca sui presupposti del proprio agire e pensare).

Se la modificazione prevista fosse dimostrata, come esito della ricerca, si sarebbe legittimati a dire che almeno un certo tipo di ricorso alle nuove tecnologie nell'insegnamento della filosofia costituisce innovazione didattica.

Sinteticamente, quindi, pare lecito esprimere l'ipotesi che ci ha guidato nella forma della domanda:

"il ricorso agli ambienti di apprendimento on line è un 'valore aggiunto' nella didattica della filosofia?".

In altri termini si è cercato di capire se il ricorso oculato a queste nuove tecnologie potesse essere insostituibile per l'insegnamento della filosofia e, almeno per certi scopi, più adeguato di altre soluzioni.

 

A scanso di equivoci non si è inteso proporre che il ricorso agli ambienti di apprendimento on line configuri una modalità radicalmente nuova di fare filosofia, tale da modificare il senso stesso di quest'attività o, perfino, la nozione di filosofia.

La nostra ipotesi è che tali mezzi consentano di praticare (finalmente!) la filosofia in classe come altrimenti sarebbe impensabile e finora è stato impossibile (di qui il loro "valore aggiunto").

Paradossalmente, quindi, noi ci siamo chiesti se il ricorso agli ambienti di apprendimento on line potesse rappresentare, più che un'innovazione in senso assoluto, un rinascimento, se fosse lecito servirsi di questa espressione, della filosofia e del suo insegnamento.

 

 

Come leggere i dati? Criteri di discussione e valutazione del progetto

 

Una ricerca di questo genere, pur non disdegnando pregiudizialmente di valersi di indicatori quantitativi (relativi, per esempio, alla frequenza di certi elementi nelle produzioni degli allievi o al grado dell'interesse manifestato per questo o quell'aspetto dell'attività misurato tramite questionario ecc.), non ha potuto caratterizzarsi essenzialmente che come ricerca qualitativa,

 

 

La definizione delle categorie di analisi dei dati

 

Per quanto riguarda la definizione della variabili o meglio, trattandosi di ricerca prevalentemente qualitativa, delle categorie dell'analisi, l'orientamento strettamente disciplinare della ricerca ha costituito un indubbio vantaggio.

Tali categorie di analisi, come è ampiamente suggerito dalla più recente letteratura, sono state, infatti, suggerite dalla stessa ipotesi di ricerca e dal modello teorico di riferimento, piuttosto che derivare astrattamente da generiche griglie di lettura psico-pedagogiche (si veda la critica di Lumbelli, p. 123, alle classificazioni aprioristiche di variabili per la ricerca pedagogica come quella fornite da Vertecchi, in termini di variabili socio-economiche, scolastiche ecc., relative agli allievi). Esse sono state ricercate, seguendo Lumbelli, considerando i tre seguenti fattori:

 

Nel nostro caso il "problema educativo" è consistito nel chiedersi se l'ipotesi di ricerca fosse o meno valida; in altri termini: era il problema di sapere se il ricorso agli ambienti di apprendimento on line costituisse o mano "valore aggiunto" per l'insegnamento della filosofia.

 

Le "unità di analisi" hanno corrisposto agli indicatori che ci hanno permesso di costruire griglie di lettura dei prodotti del percorso realizzato dagli allievi.
Dato l'orientamento disciplinare della ricerca non c'è stato bisogno di ricorrere alle "scienze dell'uomo" per la definizione di tali indicatori, dal momento che è stata la stessa filosofia, intesa (sia pure problematicamente) come disciplina, a suggerirceli.

Potendo contare su una classe di allievi che non partecipavano attivamente al progetto, che chiamiamo "classe di confronto" [preferiamo ricorrere a questo termine piuttosto che a quello, più tecnico, di "classe di controllo", dal momento che non ci siamo valsi di un "disegno sperimentale" in senso stretto] è apparso sufficiente elaborare indicatori capaci di "afferrare" un eventuale progresso nell'attivazione di determinate "competenze filosofiche" al termine del percorso comune a tutte le classi. Dallo scarto tra l'incremento medio delle competenze relativo agli allievi delle classi di progetto e quello relativo agli allievi dalla classe di confronto abbiamo potuto, se non dimostrare, almeno argomentare l'effettivo "valore aggiunto", generato dal ricorso agli ambienti on line.

 

La questione di quali indicatori concepire e per quali "competenze" è apparsa strettamente connessa, quindi, a quella dello statuto epistemologico della filosofia. Apporti di altri saperi (o pretesi tali) non avrebbero potuto che generare confusione .

Ad esempio, data una "comprensione filosofica" di quello che possa significare "argomentare una tesi" o "mettere in questione i propri assunti di partenza", sovrapporre a una rilevazione filosoficamente guidata di queste "competenze" (già in sé complessa e problematica, come vedremo), suggerimenti provenienti p.e. dalla psicologia (e quale?) o della linguistica (e quale?) non avrebbe potuto che confondere il quadro: sarebbe rimasto, infatti, sempre da interrogarsi se un allievo, che avesse conseguito quella determinata competenza dal punto di vista psicologico o linguistico, l'avesse anche acquisita dal punto di vista che ci interessa, ossia quello filosofico.

Anche il problema dell'identificazione di tecniche di rilevamento e di analisi particolari per la raccolta, la tabulazione e il confronto dei risultati della ricerca (intervista, osservazione strutturata, metodologia etnografica ecc.) è apparso, almeno in una certa misura, aggirabile o, per meglio dire, riconducibile al problema, di stretta pertinenza della didattica della filosofia, complesso ma delimitato, dell'identificazione dei metodi di accertamento adeguati delle competenze disciplinari.

 

Fissati questi "binari" l'esplorazione empirica ha avuto le sue guide per modificare in tutto o in parte, se necessario, in corso d'opera, la concettualizzazione sviluppata "a tavolino" (cosa che effettivamente è avvenuta, cfr. all. B [file word]):

 

 

Il problema del ricorso a eventuali softwares

 

Per l'analisi dei dati si sarebbe potuto ricorrere anche a softwares per l'analisi di dati qualitativi, assistita dal computer o CAQDAS, cioè Computer-Assisted Qualitative Data Analysis-Softwares quali ETNOGRAPH, NUD-IST, ATLAS (cfr. Silverman 2002, pp. 223 ss.).

Questi softwares presentano senza dubbio grandi vantaggi quali i seguenti:

Rispetto agli obiettivi della nostra ricerca, tuttavia, queste funzioni sono apparse di minore importanza per una serie di ragioni (che costituiscono altrettante controindicazioni all'adozione di questi softwares):

 

I limiti epistemologici delle nozioni di "obiettivo", "verifica" e "prova oggettiva"

 

Lo stile di ricerca didattica adottato (la ricerca-azione) e l'oggetto stesso della ricerca (l'innovazione metodologica rispetto all'obiettivo dell'acquisizione di uno stile filosofico di discussione), come si è chiarito ad abundantiam, richiedono modalità di indagine fondamentalmente ermeneutiche, discorsive, qualitative, conversazionali e riflessive.

Non è sembrato, pertanto, possibile e neppure legittimo identificare strumenti "oggettivi" (cioè garantiti, validati una volta per sempre) di monitoraggio e di valutazione dei risultati del nostro progetto di ricerca, sotto il profilo didattico, dal momento che gli stessi "obiettivi" di cui rilevare l'eventuale raggiungimento corrispondevano a risultati il cui "senso" non era possibile afferrare in modo univoco.

L'equivocità degli obiettivi di un progetto come il nostro dipende soprattutto dalla pluralità di accezioni, di significati e di sfumature che ciascuno può assegnare al fatto di "imparare la filosofia" o di "imparare a filosofare", anche in base alla propria "scuola di pensiero" (filosofica, psicopedagogica, epistemologica, didattica).

 

Per chiarire meglio questo punto di capitale importanza bisogna tener presente quanto segue.

La questione della verifica dei risultati di una ricerca didattica retroagisce, necessariamente, sul problema della verifica dei risultati dell'attività didattica che essa prende ad oggetto. Gli esiti della ricerca, infatti, dipendono dal fatto che un determinato metodo di insegnamento, rispetto a un metodo differente (di solito: quello "tradizionale"), consenta o meno di raggiungere determinati obiettivi, espressi generalmente in termini di risultati di apprendimento.

Nel nostro caso, ad esempio, se non si era in grado di stabilire univocamente (oggettivamente) se gli allievi delle classi di progetto avessero o meno rinforzato, grazie al percorso progettuale, determinate "competenze filosofiche", rispetto agli allievi della classe di confronto, non si sarebbe stati in grado neppure di dimostrare se il metodo didattico impiegato (il ricorso al web) avesse o meno il "valore aggiunto" ipotizzato.

Ma per verificare il possesso o meno di "competenze filosofiche", oggettivamente, bisognerebbe che ad esse corrispondessero apprendimenti accertabili empiricamente da chiunque, e nello stesso modo.

Questo è il presupposto della classica programmazione per obiettivi, così come di tutta una serie di tecniche particolari che con essa sono imparentate (dalla didattica breve al mastery learning).

"Purtroppo", la "verifica oggettiva" di una "competenza filosofica" non è possibile, dal momento che è controverso perfino che una competenza del genere semplicemente esista (come si dirà oltre).

 

Più in generale, la stessa programmazione per obiettivi e le sue pretese possono essere messe in questione, se si mette in discussione che sia comunque possibile verificare oggettivamente qualcosa come un apprendimento al di fuori del rigido paradigma comportamentistico all'interno del quale la stessa nozione di apprendimento è sorta (originariamente, non a caso, con riferimento al "modello animale").

Prima di delineare la "tavola degli obiettivi" nel corpo del progetto vero e proprio appare, pertanto, opportuno sgombrare il campo, con una breve nota storico-epistemologica, dall'idea che si possa ricorrere, nella valutazione del nostro progetto, a strumenti ricavati dalla "programmazione per obiettivi", intendendo per "obiettivi", come ci si è ripetuto usque ad nauseam, i risultati di un'attività didattica che possano dirsi oggettivamente verificabili, se necessario grazie al ricorso a descrittori di apprendimento.

La nozione di "obiettivo", almeno nel campo della formazione, come è noto, non è neutra. I suoi presupposti epistemologici sono essenzialmente di matrice neopositivistica-comportamentistica.

 

La ricostruzione più convincente, anche se più polemica, delle matrici culturali della logica della "programmazione", della nozione di "obiettivo", delle pretese di "verificabilità oggettiva" di un itinerario didattico, l'ha fornita - ci pare - Gabriele Boselli, nel momento in cui ha cercato di argomentare la sua proposta "sovversiva": la postprogrammazione (intesa come forma di libera progettazione che dovrebbe nascere o, forse, meglio, ri-nascere dopo (post-) il "funerale" della programmazione).

Nella sua rapida ricostruzione storica Boselli richiama l'"esigenza", sorta nel secondo dopoguerra negli Stati Uniti, in polemica con l'approccio deweyano, giudicato troppo autoreferenziale, "di programmare il lavoro scolastico con le stesse regole che avevano determinato il successo dell'apparato militare e industriale. [...] Così come in una fabbrica si sa bene quali e quanti pezzi produrre, si preordina il sistema di produzione e si verificano qualità e quantità dei pezzi prodotti indipendentemente dagli operatori, anche nella scuola la personalità dell'insegnante non doveva più essere un elemento significativo, in bene o in male, della qualità/quantità della produzione; questa doveva comunque garantire determinati risultati".

Il testo chiave della "svolta" esce nel 1949. Si tratta dei "Basic principles of curriculum and instruction di Ralph Tyler, opera in sé non particolarmente innovativa ma di assoluta importanza in quanto obiettivazione dello spirito del tempo, [...] di quanto vent'anni prima Lang e Heidegger e dieci anni prima Husserl avevano indicato come essenziale per la civiltà contemporanea ed esiziale per il soggetto".

Si legga quello che ci dice Boselli, parlando degli Stati Uniti di quegli anni, con un occhio rivolto ai processi di autonomia scolastica, a cui stiamo assistendo in questi anni: "Tyler non ha fiducia nei programmi di Stato, diremmo noi 'ministeriali'. […] Occorrono per Tyler programmi locali, condivisi perché ideati da coloro che dovranno portarli avanti. La proposta della comunità scolastica locale come luogo di vera progettualità non può che essere condivisa […]. Ma la comunità deve essere autonoma dagli schematismi della replicazione e dell'efficienza fine a se stessa. Per Tyler è invece approvabile quell'educazione che realizza (e dimostra di aver realizzato) gli obiettivi riconosciuti dalla comunità locale [...]. Purtroppo sfuggi a Tyler (e in seguito sfuggirà ai suoi epigoni) che una programmazione locale pensata operativamente e senza un adeguato esame critico di ordine sociologico, filosofico e politico può non essere altro che un'espressione soltanto più povera della stessa cultura dell'establishment e non un contributo originale. Non sempre 'piccolo è bello'; spesso il piccolo è la brutta copia del grande, specie se adotta tecniche conformizzanti".

Queste tecniche, come spiega in maniera convincente Boselli proseguendo nella sua ricostruzione, hanno avuto lo scopo fondamentale di "programmare la conformità", riducendo le dissonanze cognitive, a partire da un paradigma esplicativo essenzialmente comportamentista (cioè sulla base di una "psicologia del topo estesa all'uomo"), semplicemente arricchito di iniezioni sociologistiche: "Quel che conta è il comportamento e ciò che lo determina; i comportamenti possono essere modificati per catene S/R condizionando a comportamenti diversi voluti da chi telecomanda i processi 'educativi'; verificare lo stato comportamentale è verificare il soggetto = quel che sa fare. Il soggetto è quello che fa".

Dopo avere osservato come questa volontà di conformazione attraversi non solo l'ambito "cognitivo", ma anche quello che si suole chiamare "socioaffettivo" (che cosa sono gli obiettivi della celebre tassonomia di Bloom, nella sua versione completa, se non l'indicazione del modello cognitivo e comportamentale a cui si intende "adattare" il bambino o l'adolescente, per conformarlo alla richiesta della società?), Boselli riporta alcune emblematiche conclusioni di alcuni studiosi del tempo, Howland, Janis e Kelley (siamo nel 1953), molto significative per la nostra ricerca: "Gli individui più intelligenti 'tendono a essere maggiormente influenzabili (da argomenti logici) di individui aventi una minor capacità intellettuale'". "L'influenzabilità", commenta Boselli, "è segno d'intelligenza. Se vuoi sembrare intelligente devi cedere alla logica altrui (specie se viene da posizioni di forza); devi adattarti" .

Come vedremo, se per intelligenza intendiamo quanto proprio la filosofia dovrebbe esercitare al massimo grado, nel momento in cui rifiutiamo questo modello "skinneriano" e adattativo di interpretazione dell'intelligenza (come pura competenza logica), non possiamo coerentemente considerare il test logico, che pure abbiamo "somministrato" agli allievi in ingresso e in uscita del percorso progettuale, come determinante della riuscita o meno del progetto. Le competenze logiche sono certamente importanti, ma, all'interno di un paradigma di tipo ermeneutico, esse vanno contestualizzate e comprese per quello che "significano", cioè come indizi di qualcosa di più sfuggente [infatti l'abbiamo ribattezzato, a posteriori, test logico-semantico].

Le conclusioni a cui perviene Boselli, che pure riconosce alla programmazione qualche merito per quanto riguarda il tentativo di conferire "scientificità" alle pratiche didattiche, non potrebbero essere più catastrofiche:

- "nel periodo di trionfo degli USA, del pragmatismo, dei comportamentismo, della cultura dei paesi di lingua inglese compare un testo, quello di Tyler [...] di estrema importanza perché esprime perfettamente questa cultura e prefigura per il mondo un dettato pedagogico di rilievo determinante. E un segno dei tempi e un progetto 'oggettivo' per la scuola dell'età terminale della modernità;

- dal 1949 a oggi la cultura, la visione dei mondo e il potere che hanno per baricentro New York hanno invaso il resto dei mondo, tutti i territori fisici e spirituali. La stessa ex URSS si appresta a diventare una zona della provincia americana;

- la programmazione, che mi appare come l'oggettivazione in senso didattico di questa cultura, informa sostanzialmente allo stesso modo tutte le istituzioni, dall'esercito all'industria, dalla finanza alla politica [...];

- la programmazione che si aggira per le scuole non è che un modesto esempio di quel 'pensiero oggettivo' dominante [altri parlano di pensiero unico] che quasi ovunque determina i giorni dell'uomo alla fine del secondo millennio dell'era cristiana;

- la programmazione scolastica, nei suoi modelli variamente evoluti, dalla 'qualità totale' alla 'programmazione per concetti', esprime settorialmente una cultura, quella della tarda modernità, di ben altre dimensioni e ordini di potenza; riproduce […] tutti i caratteri metasistemici che attraversano i linguaggi materiali e immateriali del nostro tempo " [Boselli 1998, pp. 11-21].

 

Al di là della fantasmagoria storico-epocale dipinta da Boselli, rimane certamente vero che se dovessimo continuare ad adottare un modello riduzionistico e neopositivistico nella verifica del "prodotto didattico" finiremmo, probabilmente, per dover trascurare proprio ciò che è più importante nella relazione educativa, soprattutto quando si mette in gioco la filosofia: ovvero tutto ciò che sfugge a una verifica di tipo oggettivo: dalla maturazione dello spirito critico all'acquisizione di autonomia e responsabilità nelle proprie scelte morali; "di ciò cui non si può parlare", diremmo, allora, col primo Wittgenstein, "si dovrebbe tacere".

 

 

Necessità di un procedimento indiziario e provvisorio

 

In ogni modo l'espressione "obiettivo" è entrata nell'uso corrente, anche se in modo spesso irriflesso, con un significato meno tecnico di quello originario, comportamentistico. In quest'accezione "addomesticata" esso indica lo scopo a cui mira un progetto, nella misura in cui se ne può valutare o meno il raggiungimento, senza, tuttavia, che tale valutazione richieda necessariamente forme di "verifica" "oggettiva" basata su "misurazioni" di tipo quantitativo.

In questo senso (consapevolmente?) "debole" vanno letti, ad esempio, gli obiettivi proposti all'insegnamento della filosofia dai "programmi Brocca".

Obiettivi quali "riconoscere e utilizzare il lessico e le categorie essenziali della tradizione filosofica" o "enucleare le idee centrali" di un testo o ancora "confrontare e contestualizzare le differenti risposte dei filosofi allo stesso problema" poco si prestano a una verifica oggettiva: la lettura, fornita da un determinato allievo, delle "categorie essenziali" della tradizione filosofica, delle "idee centrali" esposte da un testo, del "contesto storico" di una determinata dottrina ecc., infatti, può essere giudicata in modo più o meno pertinente e corretta, a seconda della prospettiva di chi valuta.

Assumendo il termine "obiettivo" in questo senso lato, come appare necessario per la natura del progetto e della disciplina che ne è fondamentalmente coinvolta (la filosofia), appare legittimo far corrispondere agli obiettivi non già altrettanti descrittori di apprendimento, ossia l'indicazione di prestazioni oggettivamente verificabili o perfino misurabili, quanto piuttosto indicatori di conoscenze e di competenze coerenti con le finalità del progetto, ma solo indirettamente verificabili.

Intendiamo per indicatori "categorie" che consentano la costruzione di "griglie" di valutazione di competenze rilevabili attraverso procedimenti di tipo "indiziario".

L'apparente carenza di "oggettività" che ne risulta è compensata dalla controllabilità intersoggettiva (e, quindi, negoziale) delle valutazioni prodotte, resa possibile dalla documentazione dell'esperienza che consente l'accesso di altri soggetti ai materiali sui quali l'attività valutativa si è esercitata.

 

Il conseguimento degli obiettivi, pertanto, nel nostro progetto, non si è presunto accertato univocamente ed esclusivamente attraverso prove iniziali e finali ("verifiche"), a cui pure si è ricorso, ma si presta, piuttosto, a venire tuttora discusso tra "esperti", in sede di valutazione, attraverso un'analisi interpretativa tanto del processo quanto del prodotto didattico.

La valutazione del progetto, dunque, si è valsa di

La valutazione, dunque, non è potuta essere il frutto, offerto alla discussione di "esperti", di un'interpretazione dell'intero processo e dei suoi prodotti (specialmente, per quanto attiene agli allievi, dei loro percorsi individuali, da inserire in un eventuale portfolio).

Ora, a questo scopo, la possibilità che lo strumento telematico ha offerto di documentare analiticamente le principali fasi dell'esperienza (i blog per i percorsi individuali, il web forum per la discussione dei gruppi) sembra avere consentito, meglio di qualsiasi "test sommativo" finale, una valutazione ponderata dei risultati dell'esperienza stessa.

D'altra parte il miglior banco di prova delle conclusioni (provvisorie) a cui si è pervenuti, appare la possibilità, mutatis mutandis, di replicare il percorso progettato in contesti diversi.

Ciò potrebbe dare luogo a un processo che, mentre verifica la qualità del progetto, in termini di punti di forza e di debolezza, ne attua anche ogni possibile miglioramento.

 

Il limite di questa modalità di valutazione appare la sua apparente "soggettività".

Il campione degli allievi coinvolti è statisticamente limitato, per non dire irrilevante, e il giudizio sull'esperienza, se è fornito dal docente stesso che l'ha guidata o anche da altro esperto o gruppo di esperti (della disciplina? dell'uso didattico dello strumento telematico?), appare condizionato dal contesto e/o dalle proprie idiosincrasie.

D'altra parte, poiché ogni esperienza di questo genere ha una sua componente situata che per definizione è irripetibile, è naturale che generalizzazioni affrettate, compiute sulla base della sua replicazione in altro contesto, non sono possibili, poiché ad ogni riproposizione dell'esperienza sono troppe le variabili in gioco.

A tutto ciò si può opporre che, come le più recenti tendenze della ricerca sociale hanno evidenziato (ricerca qualitativa, importanza dei casi limite, studi di caso, rivalutazione del particolare rispetto al generale, soprattutto in ambito sociologico, cfr. Silverman) anche una semplice esperienza può fare testo, se la si immerge in un adeguato contesto interpretativo.

La semplice esperienza, se condotta secondo i criteri della ricerca-azione, può essere comunque assunta, provvisoriamente, come modello, come tipo, e venire, altrettanto provvisoriamente, sulla base di criteri esplicitati, valutata; salvo poi venire replicata in forme nuove, in contesti diversi, allo scopo di corroborare o di mettere in dubbio la prima valutazione e i suoi presupposti, in un processo continuo, di ordine essenzialmente ermeneutico, in cui il dibattito scientifico, come risultante del confronto tra più soggettività "esperte", diventa il metro ultimo, anche se sempre provvisorio, di giudizio.

Si noti che, dato l'approccio ermeneutico-ricorsivo della ricerca-azione e la sua intrinseca dimensione di serendipity, appare non solo lecito, ma anzi indispensabile che la stessa lista degli obiettivi sia provvisoria e sempre rivedibile durante lo svolgimento della ricerca, sulla base delle risultanze di processo .

E, in effetti, all'originario "listone" di obiettivi si è deciso di sostituire in corso d'opera un "listino" assai più "mirato" (Cfr. l' all. B [file word], il § intitolato Obiettivi formativi).

 

 

Che cosa valutare?

 

Un problema epistemologico e didattico a parte, ma non di poco conto, riguarda l'oggetto a cui tali indicatori si riferiscono, ossia la "natura" dell'obiettivo formativo considerato.

Ci si può chiedere, infatti, non solo se per ciascun indicatore si tratti di atteggiamenti, attitudini, conoscenze, competenze, capacità, abilità ecc., ma anche, preliminarmente, che cosa si debba intendere con ciascuno di questi termini.

In stretta dipendenza da questo primo problema ci si deve chiedere, inoltre, posto che la valutazione riguardi, poniamo, una competenza, che cosa esattamente si valuta:

Da qualche tempo (in particolare in seguito alla riforma dell'esame di Stato, conclusivo della scuola superiore) si suggerisce da più parti (e anche da fonti "normative") di incentrare la valutazione su conoscenze, competenze e capacità (le 3 C), dimostrate dagli allievi al termine di ciascuna "unità di apprendimento" (modulo, unità didattica, percorso ecc.) o dell'intero corso di studi .

Cfr. il Regolamento degli esami di stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore (DPR, 23 luglio 1998, n. 323): "Gli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore hanno come fine l'analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo di studi. [..]. L'analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato tendono ad accertare le conoscenze generali e specifiche, le competenze in quanto possesso di abilità, anche di carattere applicativo, e le capacità elaborative, logiche e critiche acquisite. [...] L'esame di Stato comprende tre prove scritte [...] ed un colloquio volti ad evidenziare le conoscenze, competenze e capacità acquisite dal candidato" [art.1, cc. 1-3; art. 4, c.1].

 

In genere si mette, giustamente, l'accento sulla nozione di competenza, la più "nuova", ma anche, se vogliamo, la più problematica, assumendo, più o meno implicitamente, che per conoscenza si intenda, tradizionalmente, ciò l'allievo sa e per capacità ciò che egli sa fare (in senso cognitivo e non disciplinare) .

In realtà anche sulla nozione di "capacità" le definizioni sono piuttosto variegate. Si pensi, sempre in riferimento ai nuovi esami di Stato, come essa possa essere intesa, oltre che nel senso più generico e immediato di saper fare qualcosa, nel senso di "elaborazione circostanziata, valutazione critica di quanto acquisito", ma anche "nel senso di saper riflettere, pensare, discutere e mettersi in discussione; ed anche come utilizzazione significativa e responsabile di determinate competenze anche in situazioni organizzate in cui interagiscono più fattori e/o più soggetti e si debba assumere una decisione" [dal commento di R. Quaglia ai nuovi esami di Stato, vedi incidentali seguenti]. Di fatto la nozione di capacità tende a confondersi, in più punti, con quella di competenza. Non ne approfondiamo pertanto, in questa sede, la possibile articolazione, proprio perché intendiamo privilegiare, per i nostri scopi, quest'ultima.

 

Le definizioni di competenza sono molto varie, risentendo ciascuna della matrice culturale (pedagogica, economica, sociologica ecc.) di provenienza.

Come suggerisce Franco Cambi, "si tratta di non disperdere la ricchezza della riflessione che intorno alla nozione [di competenza] si è prodotta, di reinterpretarla in modo costante, di metterla criticamente a fuoco. E per la teoria e per la prassi" [Cambi 2004, p. 23].

In prima approssimazione pare che le più importanti caratterizzazioni della nozione di competenza convergano nell'intenderla, per così dire, come una sorta di intersezione tra l'asse delle conoscenze e quello delle capacità, ossia come una capacità applicata a determinate conoscenze o, inversamente, come ciò che determinate conoscenze (relative a un certo campo) richiedono in termini di capacità (traducubili in metodi, strategie, procedure specifiche).

Questa nozione, a ben vedere, è anche quella del "senso comune", registrata dal dizionario (da cui le definizioni "tecniche", in un certo senso, dipendono): competenza è la "piena capacità di orientarsi in un determinato campo" [Dal Dizionario della lingua italiana, di G. Devoto e G.C.Oli, Le Monnier, Firenze 1995].

Da una persona competente mi aspetto che "se ne intenda", ossia che sappia "il fatto suo", che sappia le cose (in un determinato campo, per esempio se si tratta di aggiustare un rubinetto che perde) in quanto le sa fare.

Il riferimento al "determinato campo" potrebbe far propendere per una caratterizzazione strettamente disciplinare delle competenze. Tuttavia, un campo può essere largo quanto si vuole, a seconda del punto di vista che si assume (può non coincidere, cioè, con una disciplina come viene comunemente caratterizzata). Possiamo, quindi, avere competenze trasversali o transdisciplinari semplicemente perché "ritagliamo" in modo trasversale o transdisciplinare la "realtà".

Ecco, quindi, ad esempio: le competenze logiche, argomentative, critiche, che non appartengono a questa o quella disciplina, ma che percorrono trasversalmente i saperi, pur essendo più proprie di una determinata forma di conoscenza piuttosto che di un'altra (le competenze critiche, ad esempio, massimamente della filosofia).

Il "taglio" può avvenire in senso orizzontale (ossia unire "discipline" diverse o dividere una disciplina in rami diversi), ma anche in senso verticale (ossia riferirsi a competenze di base, a competenze di secondo livello, di terzo ecc.).

"Non c'è competenza senza un conoscenze, senza un bagaglio strutturato di conoscenze" [Cambi 2004, p. 25].

Ci si riferisce

 

La stessa distinzione di "livelli" di competenza, mutuata dalla psicologia cognitiva, appare discutibile: ciascuna competenza può essere considerata come il risultato di un'astrazione operata nel momento in cui la si "valuta" (a fini di "certificazione" o a quelli di "orientamento" vero questo o quel "settore" del mondo della ricerca o del lavoro) sul(la pelle del) soggetto in cui la si riconosce; soggetto in cui, verosimilmente, essa è inestricabilmente collegata con tutti gli altri elementi della sua "personalità": intelligenza, desideri, attitudini, atteggiamenti ecc.

È chiaro che la nozione di competenza, sollecitata criticamente (ed ermeneuticamente!) come abbiamo provato a fare, perde la sua specificità (e con ciò la sua precisa distinzione dalle nozioni, altrettanto variamente definibili e ambigue, a seconda del paradigma di riferimento, di capacità, abilità ecc.), a tutto vantaggio dell'aggettivo che, di volta in volta, la specifica: altro sono le competenze logiche, argomentative, critiche, metacognitive, in generale, altro le competenze di balistica, di idraulica, di ingegneria navale ecc.

 

 

Esistono competenze filosofiche?

 

Alla luce di tutto questo ci si può chiedere se quel "filosofare" che costituisce il risultato atteso del nostro progetto, come "effetto" o "prodotto" privilegiato del ricorso ad ambienti di apprendimento on line, possa essere caratterizzato in termini di competenze; ossia se implichi l'attivazione di competenze, se non oggettivamente verificabili (per le ragioni più volte dette), almeno congetturabili attraverso un procedimento di tipo indiziario, per le tracce che lascerebbero nel dialogo educativo, nelle produzioni on e off line degli allievi. E se sì, quali.

Non si tratta di una questione oziosa come si potrebbe credere.

La stessa idea che la filosofia formi competenze (elencabili come obiettivi del suo insegnamento) o possa essere esercitata solo a condizione che determinate competenze siano acquisite (in termini di prerequisiti) può essere messa in discussione. Basta che ci poniamo dal punto di vista, radicale, che intende, classicamente, la filosofia come un non sapere aperto alla ricerca, più che come un sapere costituito; come una docta ignorantia, più che come un sistema di conoscenze strutturate; come un atteggiamento e una disposizione dell'anima (uno stile), più che come un sistema di competenze formate.

Possiamo qui evocare, en passant, quello che uno dei rari "maestri" che si incontrano nella vita (un docente di filosofia teoretica dell'Università di Padova, prematuramente scomparso: Giovanni Romano Bacchin) un giorno ebbe a dire, a lezione, in forma lapidaria: "Filosofia è incompetenza".

Tuttavia, sempre rimanendo su un piano "teoretico", si potrebbe controargomentare che di Socrate si dice non solo che "non sapeva", ma anche che "sapeva di non sapere": così, in generale, per "essere assolutamente incompetenti" non solo si richiede, forse, una particolarissima competenza, ma questa potrebbe anche essere tra le competenze più difficili da conseguire, tali e tanti sono i condizionamenti che ci fanno "credere di sapere, mentre non sappiamo".

Se per essere filosofi bastasse essere ignoranti, i filosofi pullulerebbero. Evidentemente si tratterà di essere "ignoranti" in un certo modo (intelligente): ecco, quel modo lì, di essere ignoranti "filosoficamente" richiede uno sforzo, implica un "savoir faire"; può essere caratterizzato, in ultima analisi, come una precisa competenza.

 

Esiste, poi, un altro problema, non secondario. "Filosofia" è, etimologicamente "amore del sapere": se il "sapere di non sapere" può essere rappresentato come una - per quanto paradossale - competenza, l'amore che esso evoca (quello, appunto, di sapere: la molla che attiva la ricerca, si pensi solo all'eros platonico), nel gergo della didattica del nostro tempo, andrà declinato nel registro della motivazione.

La cosa che qui mette conto di rilevare è che, se questo è vero, non si dà filosofia, senza, insieme, competenze e motivazioni.

Questo potrebbe valere, si dirà, per tutte le forme di sapere: senza motivazione a svolgere un determinato esercizio, per esempio, uno studente, che sarebbe "potenzialmente", in quanto a competenze, un ottimo matematico, non potrà conseguire risultati apprezzabili.

Ma, in questo caso, la mancanza di motivazione non inficia la competenza (potenziale) in matematica, solo rende difficile riconoscerla, dato che le prove di questo ipotetico studente darebbero probabilmente risultati negativi. Sulla competenza resta legittimo il dubbio, mentre la prestazione, la performance potrà legittimamente essere giudicata insufficiente.

Se per essere filosofi, però, è necessario amare il sapere, una mancanza di motivazione, in un certo senso, investe la stessa competenza filosofica, intesa come ciò che contraddistingue la filosofia come tale (nel senso in cui, ad esempio, si parla di competenza affettiva o di competenza relazionale). Non si può propriamente filosofare senza desiderare di farlo: quindi la motivazione alla filosofia è, paradossalmente, essa stessa una "competenza" filosofica (qualcosa, in assenza della quale, uno non può essere riconosciuto, neppure potenzialmente, come filosofo).

 

Sono state tentate varie analisi disciplinari (o epistemiche) della filosofia, a fini didattici, per distillarne competenze, declinabili come altrettanti obiettivi di apprendimento.

Tra le proposte più convincenti, possiamo ricordare quella del gruppo di lavoro afferente all'I.R.R.E. dell'Emilia Romagna, che, dopo avere identificato sette nuclei fondanti della filosofia, li ha tradotti nei seguenti "obiettivi finali di competenza":

Di tutte queste competenze, tuttavia,

per quanto difficile sia fare questa distinzione nel momento in cui non facciamo delle "competenze", nel soggetto a cui sono attribuite, abilità nettamente distinguibili le une dalle altre, se non per "astrazione".

Osserva Franco Cambi: "Tra logica (come imparare a ragionare) e critica (come esercitare il pensiero radicale) corre l'asse dell'insegnamento filosofico nella scuola secondaria, poiché lì non è tanto la funzione di interpretazione storica della cultura, come suo nucleo di coordinamento teorico, che deve essere esplicitata, quanto quella di dar forma a un pensare rigoroso e problematico che nella stessa problematizzazione trova il connotato, forse primario, del proprio rigore [...] È vero, poi c'è anche lo sguardo storico privilegiato che essa ci dà di un'epoca, di una cultura, e così via: ma si tratta qui di un aspetto del tutto secondario. Di supporto e di completamento. Esso non occupa né può occupare il focus di questo insegnamento così complesso ma, al tempo stesso, così formativo" [Cambi 2004, p. 94].

Se questo è vero, allora le pur fondamentali competenze di interpretazione, di contestualizzazione, di storicizzazione e di attualizzazione - enucleate dalla proposta del gruppo dell'Emilia Romagna - potrebbero rappresentare altrettanti prerequisiti (transdisciplinari) dell'esercizio autenticamente filosofico, specialmente se esso è mediato dalla lettura dei classici, come nel paradigma didattico ermeneutico adottato e proposto.

Tuttavia, se si vuole compiere il passaggio cruciale dall'insegnare la storia della filosofia (e, sia pure, anche attraverso i testi) all'insegnare a filosofare bisognerà concentrarsi sulle competenze logiche e critiche, intrinsecamente connesse con l'esercizio filosofico, come esercizio non solo e non tanto ermeneutico, quanto maieutico.

Possiamo seguire ancora Cambi, al riguardo:

"Che cosa significa far apprendere competenze logiche e competenze critiche in filosofia? Significa [per ciò che concerne le competenze logiche] far maturare capacità argomentative e dimostrative, connesse all'uso della varie logiche che la cultura filosofica occidentale ha posto in essere nella sua millenaria tradizione. Da quella della dimostrazione a quella della spiegazione, che va dalla logica formale alla logica della scienza moderna e che fissa nei procedimenti deduttivi e induttivi i propri precorsi regolativi. Una logica antica e attualissima insieme. Che da Aristotele e dagli stoici si sviluppa tra Otto e Novecento, tra Frege, Russell, Hilbert e altri ancora, e incrocia la logica scientifica che da Galilei a Newton si è sviluppata come l'asse del sapere moderno. Ma accanto ad essa sta anche la logica argomentativa, connessa alla retorica e all'arte del convincere, che ha avuto uno sviluppo altrettanto centrale in Occidente, fino a Vico, fino all'ermeneutica, fino a Perelman. Poi c'è la logica della comprensione che ruota intorno all'interpretazione, ma guarda al particolare, al 'caso', alla sua irriducibilità a legge o a norma. Sono logiche diverse, applicate a saperi diversi, ma tutte animano la forma mentis filosofica che su di esse deve modellarsi, seguendo e realizzando quell'ideale del rigore che è costitutivo della filosofia, la quale vuole portare episteme là dove c'è doxa, come sottolineava Platone.

Ma la logica e il suo pluralismo fenomenologico e dialettico non sono che un aspetto della mentalità filosofica, del logos filosofico, metariflessivo e problematico. L'altro aspetto è la critica, ovvero l'esercizio di un pensiero che riflette sempre sul proprio statuto e vuole realizzarsi in forma sempre più radicale, in modo che nessun presupposto, nessun principio o credenza o convinzione sia posta nel pensare senza essere sottoposta ad analisi, a un sondaggio che la giustifichi, la comprenda, la interpreti. La filosofia nasce già con Socrate quale 'atteggiamento critico' e tale identità l'accompagna per tutta la sua strada. Fino a Cartesio, a Kant, a Marx, a Nietzsche, a Wittgenstein. La criticità è la conditio primaria della filosofia, ma essa può realizzarsi in molti modi, da quello trascendentalistico di Kant a quello genealogico di Nietzsche, a quello decostruzionista di tanti autori attuali (Foucault, Derrida, Deleuze). Insegnare la criticità nella scuola è sì insegnare filosofia, ma anche imparare a filosofare in modo radicale, il che implica non il 'pensare pensieri già pensati' ma il 'pensare problemi'" [Cambi 2004, pp. 93-94].

 

Alla luce di tutto questo, se vogliamo identificare indicatori di riuscita del progetto, ossia "dimostrare" che il ricorso a determinati tools telematici favoriscano più di altri strumenti l'imparare a "filosofare", in senso proprio, allora dobbiamo isolare competenze il più possibile (nei limiti più volte illustrati) disciplinari, anche per differenziare questa modalità di fare filosofia da quella, più tradizionale, ermeneutica "a base cartacea" .

Prescindiamo qui dalla modalità inveterata di insegnare filosofia limitandosi ad "esporre" in una serie di lezioni frontali, in forma narrativa, i contenuti del manuale (o magari a leggere questo stesso manuale in classe). Tale modalità non ci pare neppure degna dell'aggettivo "tradizionale".

Tali competenze specificamente filosofiche avranno quindi a che fare essenzialmente con la concettualizzazione, l'argomentazione e la problematizzazione.

Accanto a queste competenze (che, in base alla considerazioni che abbiamo fatto, "riassorbono" in sé anche le conoscenze e, soprattutto, le capacità; termine, quest'ultimo, che ci concederemo di usare, come sinonimo, a titolo di variatio) dobbiamo porre, come già detto, la motivazione che appartiene, intrinsecamente, alla competenza filosofica, in generale.

In generale, se la distinzione tra un tipo di competenza e un altro è un'astrazione, nel "continuum" delle facoltà intellettuali di un soggetto, compiuta soprattutto a fini di valutazione, certificazione e orientamento, la stessa distinzione tra competenze e "atteggiamenti" può essere considerata, a sua volta, il risultato di un preciso approccio antropologico ed epistemologico (che deve molto alla psicologia cognitivista) in base al quale il "cognitivo" andrebbe distinto dall'"emotivo".

Senza entrare in una discussione di questo approccio, legittimo purché consapevole della propria relatività, ci limitiamo a sollevare il problema della sua pertinenza (e di quella di categorie interpretative come atteggiamento o interesse) rispetto all'"imparare a filosofare".

La filosofia, come detto, è "amore della conoscenza" e, quindi, include, per così dire, per statuto disciplinare, il desiderio nella dimensione della ricerca: è impossibile, in altri termini, filosofare senza desiderare di farlo, così come non basta desiderare qualcosa per filosofare: il desiderio deve, infatti, essere disinteressato e concernere la conoscenza dell'oggetto, non il suo possesso.

Così come abbiamo accettato, in via provvisoria e problematica, ironica, si potrebbe dire, ma in senso socratico, non sarcastico, di declinare una serie di "competenze filosofiche", possiamo certamente adottare anche un indicatore, volutamente generico, della dimensione emotiva (la motivazione), astrattamente "separata" da quella cognitiva; avvertendo però che, in filosofia, non può sussistere una reale separazione tra conoscenza e desiderio di conoscenza, o, in termini più psico-pedagogici, tra competenza e motivazione.

L'elemento capace di caratterizzare, in modo coerente, l'aspetto "emotivo" dell'apprendimento di un soggetto (all'interno di un paradigma di tipo cognitivistico) sarà, quindi, quello della motivazione, intesa, in senso stretto, come dimensione della significatività degli apprendimenti all'interno della "visione del mondo" del soggetto stesso (così come, in semiotica, si dice motivato un segno che ha un rapporto determinato col proprio significato, per esempio di similitudine, come nel caso del segno iconico [Cfr. Eco 1968, p. 112]).

Il grado apparente di interesse di un gruppo di allievi, la loro partecipazione, il loro atteggiamento (in senso generico) possono costituire, allora, nel loro insieme l'indicatore (esterno) della motivazione degli allievi (che si rileva anche e più, ovviamente, attraverso la qualità della loro produzioni grazie agli altri indicatori, quelli interni); motivazione la cui presenza, come detto, è importante per stabilire la riuscita del progetto nella misura in cui non basta ragionare bene per "filosofare", bisogna anche "desiderare di farlo".

 

Per quanto riguarda che cosa esattamente intendiamo valutare in rapporto a ciascuna competenza filosofica (e alla motivazione a conseguirla o esercitarla), partiamo dal postulato (indimostrabile? forse, ma non più di quello contrario) che assolutamente tutti gli allievi, in quanto "esseri umani", possiedano le fondamentali competenze logiche e critiche, oltre che motivazionali, pertinenti all'esercizio filosofico; e le possiedano, contra Piaget, fin dall'infanzia; come, peraltro, diversi studi e la stessa possibilità di praticare la cosiddetta Philosophy for Children suggeriscono [Cfr. Santi 1995, p. 23-24].

Si tratterà, quindi, di valutare

Se, per ipotesi, tutti possiedono le "competenze filosofiche" che vogliamo rilevare, non necessariamente, però, le sanno (o le vogliono) esercitare su qualunque oggetto, poiché nel concreto esercizio (performance) della competenza (esercizio che, solo, consente di rilevarla) interviene anche la motivazione.

Proprio perché il "filosofare" è un'attività che implica, per definizione, accanto alle necessarie competenze, anche la necessaria motivazione (il "desiderio" della conoscenza), possiamo riconoscere - in un certo senso più facilmente che se si trattasse di altra disciplina - se un determinato allievo, all'interno di un determinato percorso, esercita o meno una competenza filosofica specifica (ossia, non solo se possiede le competenze logico-critiche per discutere di un tema, ma anche se le vuole usare).

Tuttavia, è legittimo che certi oggetti "piacciano" più o meno di altri e che quella motivazione, che non è "scattata" nella discussione filosofica di un determinato tema, p.e. quello della libertà, scatti magari nella discussione di un altro tema. Perciò, affinché un confronto tra diversi gruppi di allievi sia attendibile, se si vuole accertare l'incidenza relativa del ricorso a determinati tools telematici nel rafforzamento delle competenze filosofiche, appare indispensabile che i "contenuti" (i temi) su cui la filosofia (come attività) si è esercitata siano gli stessi per tutti i gruppi; inversamente, la rilevazione delle competenze e della motivazione sarà tale, in primo luogo, in riferimento a quei determinati contenuti.

Questo significa che, a rigore, non appare corretto affermare che un determinato allievo non "possiede competenze argomentative", in generale. Si dirà piuttosto che non le "ha dimostrate" su quel determinato tema (è mancata la performance). Si potrà, invece, paradossalmente dire che quell'allievo non possiede (non solo "non dimostra") "competenze filosofiche" riguardo a quel determinato argomento, nella misura in cui queste includono anche la motivazione specifica allo studio di quell'argomento.

Analogamente, una frequente indisponibilità a filosofare, su temi diversi, potrebbe essere indizio di una carenza diffusa per quanto riguarda la competenza filosofica, permettendo un certa generalizzazione; senza però, che, ancora, sia possibile dire con certezza se ciò dipenda da carenze "cognitive" o "motivazionali", dal momento che la competenza filosofica implica che le due componenti (cognitiva e motivazionale) si integrino (essendo sufficiente la mancanza di una sola delle due, indipendentemente da quale sia, a dimostrarne l'nsufficienza).

 

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Quali indicatori di risultato?

 

Rispetto all'iniziale elencazione di un numero abbastanza alto di obiettivi formativi (cfr. all. B [file word]), su suggerimento di Pierpaolo Limone (comunicazione personale), alla luce di quanto argomentato fin qui e sulla base delle effettive attività e produzioni degli allievi, si è ritenuto, alla fine, di valutare le produzioni degli allievi sulla base dei seguenti indicatori:

A tali indicatori, fondamentali rispetto alle finalità formative del progetto, si può aggiungere una lista di indicatori di capacità di ordine strettamente logico (riconducibili all'unica categoria: competenze logiche), verificato essenzialmente mediante il test logico-semantico [cfr. anche il file word]:

- derivare conclusioni corrette,

- definire,

- riconoscere e sviluppare un sillogismo ipotetico,

- riconoscere le assunzioni sottintese,

- riconoscere diverse forme di fallacia,

- distinguere dalla dimostrazione scientifica l'argomentazione sulla base di autorità,

- svolgere un ragionamento per assurdo,

- distinguere tra asserzioni contrarie e contraddittorie.

 

 

Dimostrare impegno, partecipazione, interesse

 

Più che di una vera e propria competenza (ma si veda quanto diciamo sopra circa la specificità della filosofia e del suo rapporto col desiderio) si tratta di un indicatore del livello di motivazione degli allievi, utile a calibrare la restante analisi dei prodotti dagli allievi.

In presenza, ad esempio, di un impegno scarso da parte di un allievo, il mancato rafforzamento di certe competenze può facilmente essere imputato non tanto a un'inadeguatezza dello strumento e della metodologia adottati, quanto a questa stessa carenza di impegno.

Per altro verso un buon livello di interesse prodotto dal lavoro on line può essere di per sé salutato con soddisfazione, ma a condizione che se ne riesca ad argomentare le ricadute in termini di competenze acquisite o acquisibili.

 

 

Definire e distinguere concetti

 

La capacità di definire e distinguere nozioni, se riferita a un determinato campo semantico, come quello della libertà e dei problemi ad essa connessi (arbitrio, determinismo, destino, scelta ecc.), costituisce una vera e propria competenza di carattere transdisciplinare.

Non sempre è indispensabile definire una nozione, quando questa è evidente o di senso comune (altrimenti si andrebbe all'infinito, dato che per definire una nozione si ricorre ad altre nozioni). Adoperare una nozione in modo chiaro, distinguendola in modo convincente da altre nozioni (distinzione palesata dal "contesto d'uso" dei termini in gioco), presuppone, in un certo senso, la sua definizione, sia pure implicita. Ecco perché si è ritenuto di considerare unica questa competenza che possiamo chiamare, genericamente, semantica.

Pur non essendo strettamente una competenza filosofica, si tratta di una competenza di fondamentale rilievo filosofico, in quanto si tratta del presupposto di ogni altra possibile "operazione" filosofica.

Dal punto di vista storico la ricerca della "definizione" delle parole è coincisa con la ricerca dell'essenza delle cose a cui tali parole si riferiscono: teorizzata da Aristotele, la ricerca della definizione è da questi fatta risalire, come è noto, allo stesso Socrate, il filosofo per antonomasia.

Senza voler sottilizzare troppo (Aristotele distingue tra definizione e giudizio) dal punto di vista linguistico una definizione (espressa nella forma "x è y") contiene una tesi su un determinato tema ("x"): per esempio: "la libertà [tema] è assenza di costrizioni [tesi, definizione]".

In quanto costituisce esplicitamente o implicitamente una tesi, la definizione può venire argomentata e discussa con riguardo sia ai suoi presupposti sia alle sue conseguenze (implicazioni): essa costituisce pertanto una buona base per l'esercizio di altre due competenze di rilevanza filosofica, quelle che abbiamo espresso con i seguenti indicatori: argomentare le proprie tesi sulla base di presupposti condivisibili; interrogare e problematizzare assunti propri o altrui.

Preferiamo l'espressione "una buona base" a quella di "prerequisito", perché, come dimostra l'analisi della produzioni degli allievi, in casi non infrequenti risulta che un allievo che non si è preoccupato di definire le nozioni in campo è riuscito, nondimeno, a dare prova, ad esempio, di una certa competenza argomentativa. Per spiegare questa apparente incongruenza bisogna ricordare che le competenze "testate" dalla prove sono quelle che vengono effettivamente esercitate, non quelle realmente possedute. Vale il modus tollens. Mentre un allievo può (per mille ragioni, soprattutto di ordine motivazionale) non dimostrare una competenza che tuttavia possiede (e i cui effetti si possono, quindi, registrare in altri momenti e sotto altre sembianze), egli non può, però, dimostrare una competenza che non possiede. Ecco perché ci sembra legittimo, a titolo di postulato, e contra Piaget, attribuire a tutti tutte le competenze possibili e immaginabili, salvo non riscontrarne, qui e là, la realizzazione empirica.

 

 

Farsi soccorrere da altri (autori, interlocutori)

 

Sotto la denominazione di capacità di "farsi soccorrere da altri" ci si intende riferire a un complesso di competenze di rilevanza filosofica che condividono quella che si potrebbe chiamare la "struttura del soccorso" e che vanno accuratamente distinte da un'eventuale propensione all'ossequio al principio di autorità, anche se non sempre questa distinzione è agevole.

L'espressione "soccorso", qui, è mutuata dalla fine analisi, condotta da Thomas Slezàk, dell'uso che Platone, nei suoi Dialoghi, fa del mito e delle filosofie pre-socratiche a cui spesso si rivolge [Slezàk 1991, pp. 85 ss].

Nel testo filosofico platonico gli "autori", siano questi filosofi, poeti, artisti, scienziati ecc., sono chiamati in causa, "soccorrono", non tanto (se non ironicamente) come autorità che non si possano mettere in discussione, quanto piuttosto come "riserve" inesauribili di opinioni, argomenti, prospettive sui temi più diversi.

Si noti che spesso e volentieri la lettura che Platone fornisce di questi "autori" è forzata e non filologica, in quanto funge da pretesto per la discussione platonica stessa (in modo non del tutto dissimile da certe interpretazioni allegoriche delle Sacre Scritture che ne traggono un significato morale o anche teologico, lontanissimo dall'intenzione originaria dello scrittore sacro).

 

Questo approccio coinvolge un problema di valutazione molto delicato.

Se si richiede una comprensione culturalmente corretta, storicamente fondata, degli autori studiati da parte degli allievi, ci si deve attendere da loro un'applicazione meno "arbitraria" dell'arte dell'interpretazione di quella fattane dallo stesso Platone e da certi teologi allegoristi.

Nello stesso tempo, come la nozione di "circolo ermeneutico" [cfr. Gadamer 1983, pp. 312 ss.] suggerisce, si deve pur sempre concedere che gli allievi si riferiscano agli autori sulla base di quel poco che ne conoscono, condizionati da una precomprensione (soprattutto a livello lessicale) che spesso è parzialmente mistificante (con effetti curiosi quali, tipicamente, equivoci dovuti ad affinità fonetiche, anacronismi ecc.).

 

Più in generale, soprattutto se adottiamo una prospettiva ermeneutica, possiamo ammettere che non si parta mai da zero, ma che, quando si ragiona, si muova, anche senza volerlo, da presupposti di ordine culturale (veri e propri "pregiudizi", che, tuttavia, appaiono inevitabili, almeno in prima istanza).

 

Per focalizzare e precisare questi presupposti è spesso utile e quasi indispensabile esplicitarli ricorrendo a nozioni sviluppate dalla "letteratura" sul tema; che, nel caso dei problemi filosofici, è spesso rappresentata dagli autori di riferimento.

Gli autori possono essere "evocati" non solo per richiamare tesi od opinioni che si condividono, che si intende argomentare o che si vuole mettere in discussione, ma anche per alludere a certe loro argomentazioni senza doverle necessariamente riprodurre per esteso; dunque a scopo di abbreviazione.

 

Infine, nel corso di un dibattito, spesso e volentieri, "autori", ai cui punti di vista e alle cui argomentazioni ci si riferisce, sono anche gli altri interlocutori, sia colui a cui ci si rivolge dandogli del tu, sia agli altri partecipanti alla discussione che si possono citare ricorrendo alla terza persona.

Compagni e docente, dunque, nel loro "piccolo", possono e debbono essere citati, durante la discussione, con lo stesso tipo di criterio dei "classici".

Anche se, in questo caso, l'"autorevolezza" o l'"attendibilità" dell'interlocutore possono apparire minori che se si trattasse di veri e propri "autori", la "struttura del soccorso" non appare sostanzialmente diversa e la citazione può essere valutata in base agli stessi criteri.

 

In generale, bisogna prestare particolare attenzione al fatto che il ricorso agli autori non sfoci nell'ossequio a un improprio principio di autorità, che non ha cittadinanza, come è noto, in filosofia.

Per discriminare il "soccorso" dall'"ossequio" all'autorità, distinzione non sempre facile, può essere utile, in molti casi, chiedersi se il richiamo all'autore venga impiegato come un'argomentazione impropria, il cui "tipo" (spesso operante in forma criptica) è il seguente:

o se invece, più correttamente, si tratti di un richiamo esplicativo funzionale, il cui "tipo" è:

 

La mancanza di riferimenti agli autori, teoricamente, non dovrebbe essere valutata negativamente.

Si pensi allo stile della filosofia analitica di ambito anglosassone, in cui ci si concentra sulla discussione dei problemi valendosi spesso quasi esclusivamente delle risorse del linguaggio naturale, con scarsissimi riferimenti "dotti", specie ad autori del passato (al limite dialogando a distanza con altri filosofi contemporanei dello stesso ambito di ricerca).

Tuttavia, non bisogna dimenticare che apparteniamo con legittimo orgoglio alla tradizione dell'Europa continentale, nonché la valenza formativa e didattica, da un lato, e di ricerca, dall'altro lato, di questi riferimenti culturali.

 

Dal punto di vista della formazione è rilevante che un allievo sappia ricorrere e ricorra effettivamente agli autori studiati o ai loro stessi testi per argomentare o discutere una tesi; competenza che possiamo chiamare ermeneutica, in quanto presuppone una corretta interpretazione dei testi degli autori evocati, e che va incoraggiata anche mediante la "leva" della valutazione cosiddetta formativa.

 

Dal punto di vista della nostra ricerca sui benefici del lavoro on line, i riferimenti "spontanei" che gli allievi fanno agli autori ci aiutano a valutare il grado e il modo di una possibile integrazione tra la discussione on line e la normale attività di studio, che verte, appunto, sui testi della tradizione filosofica e sulle più "autorevoli" prospettive che essa propone.

 

 

Argomentare le proprie tesi sulla base di presupposti condivisibili

 

La capacità di argomentare le proprie tesi, nonostante le apparenze, non appartiene specificamente all'ambito filosofico; semmai essa può essere riferita a un ambito retorico di pertinenza della discipline linguistico-letterarie e delle scienze della comunicazione (configurandosi, dunque, anch'essa, come competenza transdisciplinare).

Infatti, la capacità di persuadere gli altri delle proprie opinioni, a cui qui ci si riferisce, non mette in questione la verità di queste stesse opinioni, perché non si propone come ricerca di una conoscenza (filo-sofia) che ancora si ignora, ma come difesa di un sapere che si presume tale.

Classicamente furono, come è noto, i sofisti a introdurre le tecniche argomentative nell'Atene del V sec. a. C., allo scopo di "rendere più forte il discorso più debole" (e viceversa). Proprio contro questa tendenza sorse e si sviluppò la filosofia classica (Platone, Socrate, Aristotele), che ha rivendicato per sé la ricerca disinteressata della verità, soprattutto attraverso la forma privilegiata dal dialogo.

Dal punto di vista empirico, tuttavia, non è agevole discriminare tra l'esercizio retorico dell'argomentazione e l'esercizio filosofico del dialogo.

Se gli scopi sono toto coelo diversi, la tecnica spesso coincide.

Basti pensare alla classica argomentazione per assurdo: questa può essere altrettanto adoperata da un "sofista" per confutare strumentalmente un avversario allo scopo di fare trionfare la propria tesi (che egli si guarderà bene dal mettere a sua volta in discussione), quanto da un "filosofo" (o da un "matematico") per verificare la tenuta di un'ipotesi (si pensi all'èlenchos socratico).

Inoltre, come l'esempio storico di Socrate dimostra ad abundantiam, spesso il filosofo, per avere "ragione" dei rètori e per smascherare i loro "sofismi", deve padroneggiare la loro stessa tecnica, dunque non disdegnare di esercitare la "competenza argomentativa" dei suoi "avversari".

La competenza argomentativa, dunque, se non è specificamente filosofica, è certamente di rilevanza filosofica, costituendo un prerequisito dell'esercizio vero e proprio della filosofia come ricerca disinteressata dalla verità.

 

Elementi fondamentali per l'esercizio dell'argomentazione, in quanto questa è distinta dalla dimostrazione scientifica, sono sia la coerenza interna del ragionamento, sia il fatto di muovere da presupposti condivisibili.

Si tratta, in altri termini, della forma dell'entimema (dialettico o retorico), che Aristotele distingue accuratamente dal sillogismo scientifico, per il fatto di partire da premesse incerte, ma presumibilmente condivise dai propri interlocutori (o dal proprio particolare interlocutore, nelle argomentazioni dette ad hominem, come l'èlenchos socratico).

Se ci si riflette, la maggior parte dei "ragionamenti" che siamo chiamati a fare nella vita familiare, sociale, etica e politica, hanno questa natura.

Secondo certe correnti dell'epistemologia contemporanea le stesse scienze cosiddette esatte, dal momento che muovono da ipotesi, che sono "vere fino a prova contraria", non sono lontane dal possedere un sistema di garanzie interne di ordine piuttosto argomentativo che dimostrativo.

Si noti che il fatto di muovere da "presupposti condivisibili" non deve essere inteso come un valore in sé, poiché non si tratta in alcun modo di premiare il conformismo.

Semplicemente, affinché un'argomentazione risulti efficace per il proprio interlocutore (nel caso di uno scritto si deve fare riferimento a un interlocutore medio o al più probabile interlocutore o, in termini comunicazionali, al destinatario eventuale), bisogna "mettersi nei suoi panni", facendo provvisoriamente (o anche strumentalmente) propri i suoi assunti di partenza (salvo poi, se lo si crede opportuno, in un secondo tempo, rimetterli in discussione).

 

Per valutare la "solidità" di un'argomentazione non è, quindi, sufficiente vagliarne l'interna coerenza, ma occorre pronunciarsi anche sull'accettabilità "culturale" dei presupposti da cui essa implicitamente o esplicitamente muove (gli assunti del parlante e quelli, presunti, del destinatario).

Data l'ambiguità del linguaggio (che investe anche il problema della coerenza) e la relatività dei valori delle culture in cui siamo immersi (che riguarda soprattutto la questione dei presupposti da cui ci si muove), non sembra possibile pervenire, in questo campo, a giudizi assoluti sull'"efficacia" di un'argomentazione, ma soltanto a giudizi fondamentalmente soggettivi, sempre rivedibili e da sottoporre a loro volta a continuo vaglio critico (e autocritico).

L'inevitabile soggettività della valutazione delle competenze argomentative possedute da un altro soggetto è un motivo più che sufficiente per escludere che tali competenze possano essere materia di analisi con pretese di oggettività.

La valutazione, anche se, per ovvie ragioni deontologiche ed epistemologiche, si sforza di essere la più obiettiva possibile - cercando di mettere tra parentesi, ad esempio, le opinioni politiche e religiose di chi valuta - non può che rimanere soggettiva e discrezionale (che, però, non significa arbitraria, coinvolgendo l'expertise del valutatore)

Ciò che si può legittimamente chiedere a chi valuta è di argomentare a propria volta il proprio punto di vista, esponendo quindi anche il proprio giudizio all'analisi dei propri presupposti, in una circolarità infinita, di tipo dialogico ed ermeneutico (che, peraltro, restituisce la dimensione propriamente filosofica e non tecnica dell'attività valutativa).

Il fatto che l'analisi sia condotta con modalità cosiddetta "qualitativa" o, meglio, ermeneutica, non esclude che i suoi risultati, frutto della riflessione di una o più soggettività esperte, possano essere "tabulati", trasformati, cioè, mediante opportune griglie di lettura, in valori e indici numerici che ne permettano una lettura sinottica, complessiva, anche se, per la ragioni dette, sempre sub iudice, costitutivamente provvisoria.

Come è stato opportunamente osservato [cfr. Baldacci 2001, p. 22] la distinzione tra metodiche qualitative e quantitative non va sovrapposta, nella ricerca sociale, a quella tra approcci soggettivi e oggettivi anche se tradizionalmente ciascun tipo di approccio tende a privilegiare una determinata metodica.

 

 

Interrogare e problematizzare assunti propri o altrui

 

Con l'espressione "interrogare e problematizzare assunti propri e altrui" si fa riferimento a una competenza che possiamo considerare specificamente filosofica, nella misura in cui ammettiamo (pur senza concederlo) che si possa parlare di "competenze filosofiche"

Stando così le cose, il procedimento che mira ad "accertare" che una determinata pratica possa essere caratterizzata come "filosofica", dal momento che non può farsi il "processo alle intenzioni", avrà sempre carattere indiziario.

La rilevazione dell'indicatore in questione costituirà un indizio, non una prova, dell'atteggiamento o dell'attitudine, più o meno "filosofici", dell'allievo, in quanto autore del testo (orale o scritto) su cui la rilevazione è effettuata.

Lo scopo della messa in questione dei presupposti delle proprie e altrui affermazioni, affinché tale esercizio possa essere considerato autenticamente filosofico, deve essere la ricerca della verità.

Nonostante la straordinaria varietà di prospettive filosofiche elaborate nel corso dei secoli il loro "minimo comune denominatore" - che, peraltro, è quello che ci consente di caratterizzarle appunto come "filosofiche" - sembra essere il fatto che il pensiero umano vi si esprima liberamente, senza limiti che non siano quelli che esso stesso si dà, senza intenzioni che non siano di conoscenza e senza riconoscere presupposti che non siano (eventualmente) "trasformati" in principi, ossia in nozioni di cui rivendicare esplicitamente (a ragione o a torto) il carattere dell'evidenza e della verità (assolute).

La stessa fondamentale distinzione tra "filosofie" che presumono di avere raggiunto questi "principi ultimi" e "filosofie", oggi prevalenti, che sembrano aver rinunciato a questa pretesa fondativa, non mette in questione il "metodo" che le une come le altre adottano: quello che consiste nel non soddisfarsi di nessun "assunto" o "presupposto" che non sia di volta in volta vagliato nelle sue pretese e nella sua legittimità. E questo perché la filosofia, come tale, ha di mira la verità, sia che presuma di pervenirvi, sia che si concepisca come destinata perennemente a mancarla: è questo scopo che "regola" le sue procedure e determina la necessità della messa in questione (che non è, quindi, fine a se stessa, come a volte potrebbe sembrare) degli assunti su cui di volta in volta ci si fonda.

 

Non può sfuggire il portato educativo del rafforzamento di questa "competenza filosofica", a condizione che, però, essa venga correttamente intesa ed esercitata a scopo di conoscenza e non di sopraffazione: tale portato sarà, pertanto, tanto più evidente quanto più saranno stati i propri e non gli altrui assunti a venire messi in discussione (ossia se si registreranno forme di autocritica piuttosto che di critica).

Nella misura in cui l'esercizio filosofico stimola il dubbio (su base razionale) sui fondamenti non sempre espliciti delle proprie credenze e opinioni, esso può svolgere quel lavoro di "catarsi" o "purificazione" di cui parlavano gli antichi: esso, cioè, può indurre il soggetto ad ammettere (ed eventualmente "espellere") motivazioni spesso inconfessabili, sottese alle proprie "credenze", di cui sono "spia" le aporie misconosciute del discorso consapevole.

Il mancato riconoscimento di tali motivazioni, col tempo, può essere fonte di incomprensioni e di sofferenza, nel rapporto con gli altri e con se stessi. Tale rapporto, infatti, in termini esistenziali, resterebbe viziato da "inautenticità"; in termini di senso comune: dal fatto di "raccontarsela" .

Proprio il "lavoro" su queste forme di autoinganno a cui spesso si va incontro, per le più diverse ragioni, è compito della consulenza filosofica.

 

 

Quali dati considerare e come raccoglierli?

 

Alla luce delle "competenze" di cui "verificare" il raggiungimento e/o il potenziamento abbiamo individuato una serie di "dati" utili per ragionare sul risultato della ricerca, quali i seguenti (elencati secondo un ordine che va da ciò che "sembra" più soggetto a "misurazione" a ciò che appare più opinabile):

Il test logico-semantico

 

All'inizio e alla fine del percorso è stato proposto un identico test a risposta multipla [cfr. anche il file word] sulle abilità di ragionamento o "competenze logiche".

Il test è mutuato dai tests of reasoning skills diffusi in ambito anglosassone e adottati da alcune sperimentazioni di Philosophy for Children [cfr. Santi 1991, pp. 147 ss.].

Il test è articolato in 15 items in ciascuno dei quali vengono proposte 4 diverse conseguenze dalla medesima premessa, di cui una sola corretta e le altre tre fallaci, allo scopo di testare le seguenti competenze logiche:

- derivare conclusioni corrette,

- definire,

- riconoscere e sviluppare un sillogismo ipotetico,

- riconoscere le assunzioni sottintese,

- riconoscere diverse forme di fallacia,

- distinguere dalla dimostrazione scientifica l'argomentazione sulla base di autorità,

- svolgere un ragionamento per assurdo,

- distinguere tra asserzioni contrarie e contraddittorie.

 

Come è naturale, trattandosi di riconoscere un ragionamento semplicemente coerente e non il valore di verità delle conclusioni a cui esso perviene, ciò che rileva non è il "contenuto" semantico del ragionamento (ciò di cui si tratta), ma solo la sua "forma" logica.

In via teorica, quindi, l'esecuzione del test non richiede il possesso di particolari prerequisiti, soprattutto in termini di preconoscenze.

Tuttavia, rispetto al modello del test of reasoning skills "puro", quello proposto presenta un'importante differenza: il tema intorno a cui sono costruiti i "ragionamenti" è quello stesso sui cui verte il percorso progettuale: il problema della "libertà" e alcune sue implicazioni.

L'idea di non esercitare gli allievi su temi pretestuosi o comunque avulsi da quello del percorso nasce da una considerazione di fondo: niente prova che le "competenze logiche" esistano indipendentemente dai "contenuti semantici" cui si riferiscono. Ecco perché abbiamo ridenominato il test logico, in sede di ricostruzione del percorso progettuale, test logico-semantico.

L'ipotesi, in altre parole, è che l'esercizio continuo a considerare da diverse prospettive la questione della libertà e le sue possibili soluzioni (reso possibile, in particolare, grazie al ricorso agli ambienti di apprendimento on line) potrebbe rinforzare la capacità di distinguere i ragionamenti corretti da quelli fallaci soprattutto o esclusivamente nel caso che questi si riferiscano allo stesso tema, anche se correttezza e fallacia del ragionamento, in quanto tali, sono indipendenti dal valore semantico delle loro conclusioni.

Se accettiamo, ad esempio, sia pure a titolo di mera possibilità, teorie come quella di Gardner circa l'esistenza di "intelligenze multiple" [cfr. Gardner 1994] e, più in generale, l'idea che presiede alla stessa nozione di "competenza", ossia che lo stesso soggetto possa esprimere capacità anche molto differenziate a seconda dell'"argomento" su cui si esercitano (un ragazzo "geniale" nell'intendersi coi compagni durante una partita di calcio potrebbe non esserlo altrettanto nell'intendere il significato di un testo in lingua latina e viceversa), non sembra corretto estrapolare immediatamente dal risultato positivo di una prova di logica concernente un determinato tema il possesso di determinate "abilità" o "capacità" logiche in senso generale; piuttosto si potrà ricavare l'acquisizione di specifiche competenze nella trattazione di quel determinato tema, su cui ci si è, appunto, esercitati.

Si consideri solo come la familiarità non solo con un determinato argomento (nel nostro caso quello della libertà), ma anche con presupposti e implicazioni delle tesi che gli si possono riferire, possa consentire a un soggetto, se non altro, di abbreviare i tempi da dedicare alla comprensione degli items di un test che gli si riferisce, a parità di "capacità logiche" generali, sortendo a risultati verosimilmente migliori di quelli che si avrebbero se il test fosse riferito a un tema del tutto "nuovo".

 

 

Le prove finali dei moduli

 

Al termine di ciascuno dei due moduli che hanno accompagnato l'attività progettuale, ossia

sono state somministrate prove semistrutturate [file word] di accertamento della comprensione dei contenuti culturali proposti nel quadro dei rispettivi moduli.

Ciascuna prova, sul modello anche della terza prova del nuovo esame di Stato, ha proposto una sezione a risposta multipla chiusa e una sezione a quesiti a risposte aperte.

Preferiamo parlare di "prove" piuttosto che di "verifiche" poiché, in ambito scolastico, anche di questo termine, come di quello di "sperimentazione", si può registrare un abuso. In senso stretto la verifica è un accertamento adottato per "verificare" appunto empiricamente un'ipotesi ovvero "falsificarla". Il termine, dunque, di chiara matrice neopositivistica, andrebbe impiegato, a rigore, all'interno di attività di ricerca strettamente sperimentali (cfr. Becchi e Vertecchi 1986, p. 26). Se, come abbiamo argomentato a più riprese, si sostiene un approccio alla ricerca e, a maggior ragione, alla didattica, di altra matrice (ermeneutico, negoziale, conversazionale ecc.), pare più corretto parlare di "prove", in senso deliberatamente generico, aperto. Si tratta, in altri termini, di tutte quelle produzioni degli allievi o quelle tracce anche indirette, che, documentando il processo scolastico, permettono, mediante un procedimento essenzialmente indiziario, di elaborare la valutazione propriamente detta, come atto interpretativo e costitutivamente provvisorio. Il termine "prova" evoca, soggettivamente, anche la tappa di un percorso "iniziatico" (certo, ormai del tutto laicizzato e secolarizzato, anche se certi effetti di crisi, prodotti dalla percezione di un fallimento della prova, sul piano psicologico, non vanno sottovalutati e attestano la persistenza di una sovradeterminazione simbolica della nozione di "prova"), di progressiva maturazione e presa di coscienza delle proprie capacità, guidato da una motivazione il più possibile profonda.

Tali prove, correnti nell'insegnamento della filosofia, hanno consentito di "misurare" meglio l'effettiva incidenza dell'innovazione didattica sperimentata, "scontando", per così dire, la "normale" differenza media di profitto tra le classi coinvolte nel progetto.

 

 

Il questionario di valutazione finale

 

Al termine del percorso progettuale è stato somministrato agli allievi un questionario di valutazione finale [file word].

Scopo del questionario (anonimo) è stato quello di rilevare

Quest'ultimo aspetto ci è parso particolarmente rilevante all'interno di una dinamica di valutazione di tipo negoziale ed ermeneutico: nella ricerca-azione è essenziale per la valutazione della ricerca "dare voce" di tutti i soggetti coinvolti. In altri termini, la valutazione del risultato di una ricerca-azione è sempre anche un'autovalutazione; anche se, per non cadere in forme di pura autoreferenzialità, essa deve anche esporsi al giudizio di terzi (di qui la funzione della documentazione dell'intero processo).

Per semplificare la lettura dei risultati, il questionario si è articolato in 9 quesiti a risposta multipla (chiusa), di cui 8 di diretto interesse per il progetto.

Un solo quesito (il n. 0) è stato introdotto (cogliendo l'occasione della somministrazione del questionario) per testare la percezione degli allievi di una nuova modalità di verbalizzazione del percorso (di costruzione, cioè, del cosiddetto "diario di bordo"), non direttamente pertinente al progetto, in quanto adottata in tutte le classi, sia di progetto che di confronto

Il questionario, data la natura degli 8 quesiti proposti, è stato somministrato solo alle classi di progetto.

 

I quesiti proposti sono stati i seguenti:

 

Per la discussione delle risposte degli allievi si vada all'analisi dei dati.

Osserviamo qui che il criterio che ha presieduto alla scelta di questi quesiti è stato quello di rendere possibile una valutazione il più possibile articolata e differenziata - anche se "obbligata" dalle risposte multiple - del progetto da parte degli allievi, distinguendo il particolare i diversi a- touts del progetto:

- il fatto di concentrare il lavoro sui problemi piuttosto che sugli autori;

- il fatto di ricorrere alla rete telematica;

- l'uso della rete come sostituiva di attività equivalenti su cartaceo,

- il ricorso al web forum come strumento non sostituibile da equivalenti cartacei;

- la possibilità di costruire un blog personale.

Le risposte previste per ciascun quesito hanno permesso agli allievi di esprimere, a consuntivo, il loro parere sui punti di forza e di debolezza del progetto; e anche qualcosa di più: di suggerire il "senso" che per loro esso ha avuto nel suo insieme e nelle sue diverse articolazioni.

Infine, il questionario ha previsto anche uno spazio facoltativo per "osservazioni, precisazioni, suggerimenti", a integrazione delle risposte multiple selezionate, qualora giudicate insufficienti.

 

 

Le produzioni scritte e la loro analisi

 

Data l'impostazione della ricerca come ricerca essenzialmente qualitativa la "parte del leone", per quanto riguarda la valutazione dei suoi risultati, deve essere svolta dall'analisi delle produzioni scritte degli allievi.

Scopo di questa analisi è

 

Per conseguire questo scopo appare utile confrontare, sulla base di precisi indicatori,

Come detto, non si ritiene di poter "fotografare" competenze di rilievo filosofico mediante descrittori di comportamenti ben definiti, ma solo di poter elencare categorie di competenze a titolo di indicatori per la costruzione di una griglia di lettura per la valutazione delle produzioni.

 

Si potrebbe imputare questo metodo di apparente mancanza di oggettività.

Parliamo di apparente mancanza di oggettività in riferimento al fatto che laddove questa oggettività sembra raggiunta, essa, ci sembra, lo è in modo ancora più illusorio (perché mascherato dalla stessa apparenza di oggettività): se, infatti, i risultati di certe prove appaiono attendibili perché basati su descrittori analitici di comportamenti registrati o non registrati, la scelta dei descrittori stessi e delle categorie descrittive (che appartengono alla dimensione qualitativa e non quantitativa di una ricerca empirica) non può essere che a sua volta soggettiva e lasciare, al campo dell'interpretazione, il problema aperto della validità della prova. Vedi la nostra critica alla pretese della cosiddetta ricerca sperimentale.

Tale apparente mancanza di oggettività del metodo dovrebbe essere compensata:

 

Oggetto di analisi sono stati:

 

Le categorie corrispondenti alle competenze di rilevanza filosofica oggetto di valutazione analitica, per ciascuna tipologia di produzione analizzata (dialogo, web forum, blog, saggio breve), sono espresse dai seguenti indicatori di risultato, la cui pertinenza abbiamo giàà ampiamente argomentato:

 

Si è anche valutato, per ciascun indicatore, se tra il dialogo iniziale e i prodotti successivi si sia o meno registrato un scarto significativo, allievo per allievo.

Nella valutazione di questo scarto, rispetto a ciascun indicatore di competenza, si è prestata particolare attenzione a non enfatizzarlo arbitrariamente, per effetto, magari, del buon livello complessivo delle prestazioni.

Ad esempio, agli allievi che si siano dimostrati capaci di definire validamente i concetti in campo altrettanto nel dialogo quanto nel blog, con simile grado di precisione, non si è riconosciuto, per quanto riguarda questa competenza, alcun progresso pur assegnando loro una buona valutazione complessiva finale.

Viceversa, per restare nell'ambito di questa competenza semantica, a coloro che non si sono preoccupati di definire le nozioni di cui si sono serviti nel dialogo, ma l'hanno invece fatto nelle produzioni successive, è stato riconosciuto, per quella specifica competenza, un progresso effettivo.

 

Per esprimere il valore medio del potenziamento (o grado di progresso) delle competenze, classe per classe, si è introdotto un indice di rafforzamento.

Questo indice esprime, in termini percentuali, per ciascuna determinata competenza, il numero degli allievi, in rapporto al totale di ciascuna classe, che hanno dimostrato di averla significativamente rafforzata, sulla base del confronto tra il dialogo scritto prima dell'accesso al percorso e le produzioni successive.