Tutto è uno

essere
Ascoltando non me, ma il Lògos, è saggio convenire che tutto è uno.
Da tutte le cose l'uno, dall'uno tutte le cose.
[Eraclito di Efeso, frammenti 50 e 10  DK]
  • Se, affinché qualcosa compiutamente sia, è necessario che se ne sia coscienti, come dobbiamo concepire l’universo, il quale ci appare molteplice, costituito di spazio, tempo, materia ed energia?

Vi sono numerosi indizi del fatto che l’universo che ci appare molteplice sia tale, appunto, soltanto apparentemente. Insomma, l’universo in sé (il noumeno) sarebbe uno. immobile, atemporale e inesteso.

  • Che genere di indizi?

Innanzitutto una è la coscienza in prima persona (non puoi avere due coscienze, solo attribuire congetturalmente ad altri una coscienza come la sola di cui hai esperienza cosciente).

Uno di conseguenza è il mondo come correlato della coscienza, il mondo percepito.

  • Questo è un dato psicologico…

Direi piuttosto fenomenologico…

  • A me sembra tuttavia che “esista” un mondo reale fatto di innumerevoli cose separate (alcuna delle quali anche coscienti) oltre a quello percepito.

Su quali basi?

  • Il senso comune?

Ma è lo stesso che ci suggerisce che la Terra è immobile e il Sole si muove nel cielo, ci fa cadere in illusioni ottiche ecc.

  • Perché in questo caso dovrebbe essere ingannevole?

Proprio come nel caso dell’astronomia, è proprio la ricerca scientifica, prima ancora che quella filosofica, ad onta del paradigma meccanicistico che ispira spesso i suoi stessi cultori, a correggere il senso comune: la ricerca scientifica, come ci ha portato all’eliocentrismo, ci porta verso il monismo (la teoria secondo la quale tutto è fondamentalmente uno).

  • A me sembra che la ricerca scientifica viceversa supporti la tesi che esista una realtà “là fuori”, del tutto indipendente dalla nostra coscienza, una realtà oggetto, appunto, dello studio scientifico…

Che cosa sono lo spazio e il tempo? Tutto suggerisce, come ho già ampiamente argomentato, che abbiano carattere “soggettivo” nel senso che non esistano in se stessi, ma solo in relazione con la coscienza stessa.

  • Mi potresti ricordare brevemente i tuoi argomenti?

Possiamo evocare gli argomenti filosofici di Kant e, per quanto riguarda in particolare il tempo, molti altri filosofi, come Aristotele, Agostino e Bergson, ma anche sul piano scientifico gli indizi al riguardo sono molti.

Consideriamo il tempo: la teoria della relatività (secondo Einstein il tempo percepito è illusorio, si tratta di una dimensione di un continuo “geometrico” che solo a noi appare scorrere come tempo) e la meccanica quantistica (secondo p.e. Rovelli non esiste il tempo a livello quantistico e anche il tempo scandito dall’entropia sarebbe in ultima analisi “soggettivo”) suggeriscono che il tempo non esista in se stesso, ma solo “per noi”.

Nel caso dello spazio il fatto che verosimilmente tutte le particelle dell’universo siano tra loro entangled (noi verifichiamo che lo sono solo alcune, ma è verosimile che lo siano tutte, essendo tutte scaturite da una singolarità originaria, secondo la teoria del big bang) può essere spiegato in vari modi, ma tutti convergenti verso l’ipotesi monistica:

  1. potrebbero essere “in realtà” ancora tutte unite anche se a noi sembrano separate (ipotesi di Bohm dell’ordine implicato)
  2. oppure, se ammettiamo che sia la “coscienza” a decidere, di volta in volta, quale universo esista nell’atto di osservare una singola particella in sovrapposizione di stati (determinando così anche lo stato di tutte le altre entangled) e se vogliamo evitare l’interpretazione “a molti mondi”, che viola il rasoio di Ockham, bisogna supporre che siano le stesse occorrenze della coscienza tra loro entangled a determinare lo stato dell’universo (a farlo transitare del possibile al reale) , cioè che esista una sola coscienza cosmica (ramificata sia “in serie” sia “in parallelo”) a determinare la realtà.

Del resto, se il tempo è legato alla coscienza, il big bang non è mai veramente esploso “nel passato”, ma siamo ancora “tutti” nella singolarità originaria, che soltanto “appare” frammentata. Si tratta, come lo chiamava il fisico John Archibald Wheeler, teorico dell’universo partecipativo, di un “big wow!”.

L’universo “in sé”, dunque, il noumeno, è fuori del tempo e dello spazio, almeno quali noi li percepiamo. Non ha un’età, né dimensioni, quali a noi appaiono.

La “scienza” ci dice da secoli (dai tempi di Galileo, Cartesio e Locke, che distinsero le qualità primarie od oggettive da quelle secondarie o soggettive dei corpi) che esso non ha colori, non come noi li intendiamo.

Se guardiamo una rosa rossa e poi ci giriamo dall’altra parte, abbiamo la netta impressione che la rosa rimanga rossa anche se non la vediamo. Ma sappiamo che si tratta di un’illusione. Il “rosso” percepito dipende dalla struttura della nostra retina e del nostro cervello (un altro animale lo vedrebbe diversamente, anche un semplice daltonico). Ciò che potrebbe restare è la radiazione elettromagnetica che “noi” percepiamo come “rosso” (di una certa frequenza).

Ma neppure le qualità “primarie”, come la forma geometrica, la massa, la densità etc., in quanto sono dipendono da spazio e tempo, che, a loro volta, dipendono dalla coscienza, sono, dunque, assolutamente “oggettive”; come ha dimostrato Kant, esse dipendono essenzialmente del nostro modo di percepire il mondo.

Non c’è ragione di pensare, del resto, che la percezione del rosso sia soggettiva e quella del tempo e dello spazio sia oggettiva. Dove passerebbe il discrimine? Sembra più corretto far riferimento, in generale, a percezioni che non sarebbero quello che sono senza il soggetto percipiente e l’oggetto percepito.

Ora, se conveniamo di chiamare “soggettivo” ciò la cui esistenza implica quella della coscienza e mettiamo in fila (o a sistema) quanto è finora emerso su queste pagine e che ho qui riassunto, ne risulta il quadro seguente:

  1. proprietà emergenti, forze ecc., per tacere della classiche qualità secondarie (colori, sapori ecc.) sono soggettive;
  2. tempo e spazio sono soggettivi;
  3. le grandezze fisiche fondamentali (le classiche qualità primarie), come combinazione di spazio, tempo ed energia (cioè forza x spostamento), hanno pure carattere soggettivo;
  4. il fenomeno quantistico dell’entanglement suggerisce che ciò che sembra separato nello spazio e nel tempo sia unito;
  5. la coscienza, come “luogo” del “collasso della funzione d’onda”, cioè della riduzione a 1 di più stati (micro)fisici reciprocamente contraddittori sovrapposti, in poche parole luogo del passaggio del tutto dalla potenza all’atto, dunque come compimento dell’universo (tèlos), è sempre una sola.

A queste considerazioni possiamo aggiungere altre osservazioni:

  1. non facciamo esperienza di “confini” netti tra le “cose” (propriamente, neppure, di “cose”, in quanto le “cose” si distinguono solo nominalisticamente le une dalle altre);
  2. gli stessi organismi viventi, che vantano senza dubbio una maggiore unità, rispetto alle “cose” inanimate, “sconfinano” tipicamente con il loro ambiente, ne costituiscono un inviluppo, senza che si possa tracciare una linea di demarcazione netta tra interno ed esterno.
  • Spiegami meglio questo punto.

Guardiamo a un essere vivente: non c’è un confine netto tra lui e il suo ambiente (o tra la specie o la popolazione a cui appartiene e la sua “nicchia ecologica”, come argomentano ad es. gli autori che si ispirano al concetto di autopoiesi). Materia ed energia devono necessariamente essere continuamente scambiate con l’ambiente e così anche le informazioni.
Possiamo paragonare (anche tecnicamente: trattandosi di “strutture dissipative” che riducono a zero l’entropia interna al prezzo di aumentare quella esterna) i viventi a vortici (e l’universo in cui sono immersi a un fiume). Li distinguiamo e li possiamo anche contare senza che vi sia un confine netto tra ciascun vortice e il fiume, che ne risulta “ripiegato”.
Possiamo dunque anche dire che in ciascun vivente l’intero universo si “ricapitola”, come in un nodo in cui si rispecchia e che in relazione con tutto ciò che lo circonda.
A maggior ragione se il vivente è cosciente.

  • E con questo?

Se anche l’organismo in cui emerge la coscienza è, in un certo senso, tutt’uno con l’universo e se, come dimostrato, si dà sempre solo una coscienza (alla volta), anche per questa via si può concludere che tutto è sempre solo uno.

Anche se la coscienza appare sempre associata a un organismo vivente, in quanto essa è sempre solo una alla volta, possiamo, dunque, rappresentarcela come la coscienza dell’universo stesso, come l’esserci o l’attualità stessa dell’universo (in quanto è in atto e non più soltanto in potenza).

Del resto anche se conferiamo una certa “oggettività” a spazio e tempo, indizio (o traccia) del fatto che tutto sia uno sono i campi di forza, le interazioni gravitazionale, elettromagnetiche, debole, forte, il campo di Higgs etc.: queste forze  sono veicolate alla velocità non superiore a quella della luce (in quanto, a differenza dell’entanglement quantistico, presuppongono già lo spazio e il tempo, quali appaiono alla coscienza) tramite onde che da ciascuna parte del tutto raggiungono prima o poi, anche se quasi impercettibilmente, ogni altra parte del tutto, facendo sì che nessuna “parte” sia esattamente quella che è e come è se l’altra non fosse quella che è e come è, determinando, cioè, la totale interdipendenza funzionale di ogni “cosa” (stringa, particella, atomo, molecola etc.) con ogni altra.

Considera poi questo: se le “cose” appaiono come appaiono soltanto in quanto vengono osservate, esse possono tranquillamente essere immaginate, in assenza di osservatori, come contenute in un punto privo di dimensioni e saturo di informazioni (appunto la singolarità originaria prima dell’emergere del tempo).  Tu stesso saresti contenuto in questo punto.

Questa “soggettività” dell’apparire non vuol assolutamente dire che le cose si manifestino arbitrariamente. Qualunque cosa sia, l’uni-verso è qualcosa di “logico”, di ben fatto, di “legale”. In questo senso non ha nulla di “soggettivo”, nel senso di arbitrario. Come non posso non vedere la rosa rossa a certe determinate condizioni di luce e di distanza (e di veglia, mia), così non posso non vederla a un metro da me ecc. Ma questo non richiede l’esistenza (se vogliamo chiamarla così) del “mondo là fuori“, più di quanto richieda la mia (come coscienza percipiente).

La rosa che ci appare è simile alla figura in un videogioco. La vedo a monitor come se fosse davanti a me con certe caratteristiche. Manovro il joystick e sparisce dalla visuale. Non è solo “nascosta” allo sguardo da qualche parte “accanto” o “dietro” il monitor. Si è completamente dissolta nelle sue qualità e nella sua forma (spaziale e temporale). Ne resta, tuttavia, traccia precisa nel programma. Il quale mi impone di rivederla esattamente com’era prima se muovo indietro il joystick. La figura è solo un insieme di numeri.

A. Come suggerisce questa stessa immagine del videogioco, possiamo rappresentarci l’ordine implicato come il “programma” (l’insieme ordinato di algoritmi in senso informatico) l’esecuzione del quale costituisce l’ordine esplicato (questa è solo una metafora, perché ciò che appare non può essere derivato logicamente da ciò che è possibile, non è, cioè, tecnicamente “computabile”) .

Le informazioni contenute nel tutto puntiforme sarebbero organizzate in base ad algoritmi che farebbero sì che qualcosa ti possa apparire come se fosse disteso nello spazio e nel tempo o, il che è lo stesso, che tu possa essere cosciente di qualcosa.

Le informazioni contenute nel programma ovvero nell’ordine implicato costituiscono un cosmo intelligibile (noetòn), di cui il cosmo percepibile (aisthetòn) è la manifestazione (l’esplicazione).

D’altra parte questo “universo in sé”, logicamente possibile, non è compiutamente in atto (reale o esistente) perché questo richiederebbe che esso venga interamente “osservato”, ossia che “qualcuno” o “qualcosa” ne sia cosciente.

Ma ciò non è possibile, perché la “coscienza” (che qualcuno o qualcosa ne potrebbe avere), in quanto necessariamente prospettica, richiede tempo e una localizzazione, per cui questo “in sé” deve sempre apparire, in un certo senso, parzialmente.

B. La teoria secondo la quale tutto è uno è suggerita, del resto, proprio dalla percezione prospettica della coscienza.

L’universo in se stesso (la “cosa in sé”), in quanto ordine implicato, può essere immaginato, sotto questo profilo, come il punto all’infinito della prospettiva (in senso tecnico, rinascimentale) che fa apparire l’universo come mondo.

Tale punto inesteso va concepito come tale da contenere in sé tutte le informazioni necessarie e sufficienti a proiettare il mondo ovvero quell’ordine esplicato, che scaturisce dall’interazione dell’universo con se stesso attraverso la coscienza.

In ogni determinata prospettiva gli “oggetti” emergono da uno sfondo comune, in ultima analisi da un “punto all’infinito” (per rimanere nella metaforica della prospettiva in senso tecnico, rinascimentale).

All’universo puntiforme e privo di dimensioni in cui sono contenute tutte le informazioni necessarie e sufficienti a proiettare (sulla “superficie della coscienza”, per così dire) l’universo così come appare si può forse risalire

  1. nel tempo (apparente) se lo intendiamo come la singolarità da cui sarebbe scaturito il big bang e
  2. nello spazio (apparente) se lo intendiamo p.e. come “campo di punto zero” o come “vuoto quantistico”, rilevabile ovunque se si scende al di sotto della grandezza di Planck (10-33cm)
  3. sotto il profilo filosofico-teologico, se lo intendiamo come il Principio di ogni cosa (l’arché), l’Uno, appunto, o, semplicemente, Dio.

Si tratta dello “sfondo” da cui emergiamo anche noi, che sembriamo avere coscienza di “oggetti” (“sembriamo” perché la coscienza non appartiene più al “soggetto” che all’ “oggetto” ma coincide con l’apparire degli oggetti a un soggetto o, il che è lo stesso, con il percepire oggetti da parte di un soggetto).

L’emergere della coscienza (p.e. alla nascita o al risveglio), in quanto implica la separazione delle sfere soggettiva e oggettiva, fa apparire l’universo, in prospettiva, non solo nel tempo, ma anche nello spazio, come mondo.

Il mondo diviene (o, il che è lo stesso, l’universo appare divenire).

Percependo se stesso (acquisendo coscienza di sé, p.e. nell’uomo) l’universo sviluppa  (nel tempo), dando luogo all’ordine esplicato, le immagini dell’ordine implicato (il punto all’infinito saturo di informazioni, il programma cosmico) che esso stesso originariamente (e immobilmente) è.

Nondimeno questo fondo non può essere direttamente osservato perché nessuno può osservare se stesso in quanto “osservatore”.

Se tutto è uno, il soggetto percipiente, infatti, è lo stesso dell’oggetto percepito.

  • Come è possibile?

Riguardo all’identità tra percipiente e percepito si può evocare la nozione di “gerarchia aggrovigliata“, introdotta da Douglas Hofstadter in Goedel, Escher e Bach, così come è stata reinterpretata da Amit Goswami in Evoluzione creativa [p. 83 e ss.]: la condizione di veglia nella quale sono cosciente è determinata dallo stato del mio corpo, ossia dallo stato attuale dell’universo di cui il mio corpo è inviluppo; inversamente, l’universo stesso, che mi appare, in prospettiva, come mondo, è determinato, per come mi appare, dal mio esserne cosciente: questo è il nodo insolubile (il nodo di una separazione di “facies” che si determinano reciprocamente) o nastro di Moebius in cui (o da cui) si sviluppa coscienza.

  • Ma come è possibile, allora, una separazione tra noi e lo sfondo da cui emergiamo, se tutto è uno?

Infatti, non è affatto possibile. È alcunché di apparente. Si tratta della sfera di quella che possiamo denominare, con Parmenide di Elea, dòxa (opinione) e con Sri Shankaracarya , Maya (nel senso del “velo di Maya” di schopenhaueriana memoria).

Sotto questo profilo non ha neppure senso parlare di menti estese, come fanno Sheldrake e altri, supponendo che la mente si espanda, simile a campo di forze (o di informazioni) oltre il corpo fisico, a meno che non si intenda per “campo mentale” un campo non locale coincidente con lo stesso universo, quale si presenta in una determinata prospettiva. La mente non “si estende” nel mondo, ma è il mondo stesso.

Sotto questo profilo, se guardo un punto P apparentemente fuori di me, non è vero né che esso sia davvero fuori di me, né che esso sia soltanto un’immagine (nel mio cervello) di un ipotetico punto P (o P1) davvero fuori di me. Come scrive Henri Bergson:

La verità è che il punto P, i raggi che emette, la retina e gli elementi nervosi interessati, formano un tutto solidale, che il punto luminoso P fa parte di questo tutto e che è proprio in P, e non altrove, che l'immagine di P è formata e percepita.
[Henri Bergson, Materia e memoria, tr. it. Laterza, Bari 1996, p. 16]
  • Ma come intendere che il punto di vista da cui le cose appaiono in prospettiva sia tutt’uno con queste stesse cose, non sia separato?

In prospettivaprospettiva si dànno due punti immaginari: il punto all’infinito verso cui tendono le linee prospettiche e il punto di vista, il punto ideale in cui si immagina collocato l’occhio dell’osservatore.

Ora, se tutto è uno e l’universo è curvo (illimitato ma finito, come argomentano tanto la fisica teorica quanto Parmenide di Elea) questi due punti (con tutto quello che è compreso tra loro) coincidono.

  • Come possono coincidere?

Il punto all’infinito verso cui tendono le linee prospettiche è il mio stesso occhio, visto, per così dire, “dall’altra parte”, nello “specchio” del mondo.

  • Come è possibile?

In una sfera a quattro dimensioni ogni punto è centro ed estrema periferia. L’impressione, soggettiva, ottica, che ciascuno ha di essere al centro di un mondo limitato ma infinito è forse più di un’impressione. Le cose appaiono come effettivamente sono, mentre ciò che crediamo che esse siano (là fuori, in 3D, solide e indipendenti), è forse solo un’illusione.

  • Ma mi consta che solo la prospettiva cosiddetta “centrale” conosca un solo punto all’infinito. Per la prospettiva accidentale i punti sono due, per quella razionale sono addirittura tre, uno per ciascuna delle tre dimensioni dello spazio.

Il discorso non cambia. Anzi si rafforza. In ultima analisi ciascun punto della sfera immaginaria che ti circonda, ciascun punto che entra nel tuo campo sensoriale (visivo, ma anche uditivo, tattile ecc.), coincide col  punto di vista da cui lo guardi, col punto di ascolto da cui lo odi ecc. L’estremo limite dello sguardo coincide con la sua sorgente, ovunque tu ti rivolga.

In questo senso noi guardiamo sempre come attraverso uno specchio (certo, talmente deformato da renderci irriconoscibili). Sempre in questo senso possiamo ben chiamare riflessione ciò che accende in noi la coscienza.

C. La prospettiva secondo la quale tutto è uno è suggerita anche dalle teorie secondo le quali l’universo avrebbe carattere virtuale od olografico (cfr. ad esempio quanto scrive Raphael Bousso in The Holographic Principle).  Il mondo (l’universo spaziotemporale come appare in prospettiva) non sarebbe che l’immagine olografica (l’ologramma) dell’universo così come esso è in se stesso.

Come scrive il fisico Leonard Susskind, autore con Gerard ‘t Hooft dei primi studi sul c.d. principio olografico:

Ecco dunque la conclusione a cui eravamo giunti io e 't Hooft: il mondo tridimensionale dell'esperienza comune - l'universo pieno di galassie, stelle, pianeti, case, massi e persone - è un ologramma, un'immagine della realtà codificata su una lontana superficie bidimensionale. Questa nuova legge della fisica, chiamata principio olografico, afferma che tutto ciò che è contenuto in una data regione spaziale può essere descritto da bit di informazione confinati sul bordo della regione stessa.
[La guerra dei buchi neri, p. 256]

L’universo in se stesso (la “cosa in sé”), in quanto ordine implicato, può essere immaginato, in generale, come una lastra olografica bidimensionale.

Tale “lastra” va concepita come tale da contenere in sé tutte le informazioni necessarie e sufficienti a proiettare il mondo, l’immagine olografica ovvero quell’ordine esplicato, che scaturisce dall’interazione dell’universo con se stesso attraverso la coscienza.

Proiettando, di volta in volta, diverse “parti” della lastra olografica in cui sono inscritte tutte le possibilità dell’universo (potrebbe trattarsi, come detto, del campo di punto zero, come luogo “geometrico” in cui sono descritti tutti i possibili cammini – in sovrapposizione di stati – delle onde in cui si risolvono i quanti di materia ed energia dell’universo), appaiono, qui e ora, determinate “cose” (possiamo rappresentarci queste “cose” come insiemi di “creste” di onde di possibilità interferenti, creste in cui la probabilità di trovare particelle di coordinate determinate sale a 1, ossia diventa certezza).

Va considerato che, a differenza che negli ologrammi di cui abbiamo esperienza all’interno del nostro mondo, chi proietta, nella mia interpretazione di questo modello, è lo stesso che percepisce l’effetto della proiezione. Anche quella dell’ologramma, dunque, come quello del programma, va intesa come una metafora.

  • Va bene, ma non è dimostrato che le cose stiano esattamente così.

Forse no, ma questo approccio sembra il migliore possibile, il più capace di “salvare i fenomeni”, non ti sembra?

La tesi “Tutto è uno” (titolo di un fortunato e discusso libro di Michael Talbot, giovane precocemente scomparso, forse troppo incline a credere al paranormale per essere, a sua volta, credibile, ma dotato di straordinarie capacità intuitive) è, in sé, tutt’altro che originale. L’argomentano, variamente, Parmenide, Plotino, Shankara e altri ancora. La si ritrova in qualche misura in Niccolò Cusano, Giordano Bruno, Baruch Spinoza (nella versione di un panenteismo costantemente a rischio di venire equivocato come volgare panteismo). Ritorna nella teoria dell’ordine implicato di David Bohm (ispirata ai risultati della fisica dei quanti).

A titolo di congettura, evocando proprio Parmenide, una tesi affine è sostenuta anche dal premo Nobel Frank Wilczek, nel suo libro Una bellissima domanda:

Alle frontiere della fisica e della cosmologia, [il principio di] complementarità [proposto da Niels Bohr, tra prospettive diverse dalle quali guardare alle cose] è senz'altro in azione. Attualmente tracciamo uno scomoda separazione fra leggi della fisica e condizioni iniziali, che chiede di essere trascesa. La visione del mondo di qualsiasi osservatore finito si evolve, ma lo spaziotempo nella sua totalità, che è il contesto  più naturale per la descrizione del mondo, non si evolve. Nella meccanica quantistica, la funzione d'onda di un sistema nella sua totalità può essere costante nel tempo, mentre le sue parti, considerate separatamente, subiscono cambiamenti relativi. (Per gli esperti: ciò avviene regolarmente, nelle autofunzioni dell'energia dei sistemi complessi). Qualcosa del genere potrebbe benissimo essere vero del mondo nel suo complesso. "Cambiamento senza cambiamento", il grande e fecondo principio di simmetria, sarebbe dunque incarnato appieno, come affermava paradossalmente Parmenide; "Non resta ormai che pronunciarsi sulla via che dice; l'essere è. Su questa via ci sono segni indicatori assai numerosi. L'essere, infatti, è ingenerato e imperituro, tutt'intero, uno, continuo e senza fine".
[Wilczek, p. 290-91]

Assumiamo questa tesi (che tutto è uno) per ora come ipotesi o, meglio, come postulato. Essa, insieme ad altre ipotesi accessorie, potrebbe contribuire a “salvare” (“spiegare”) tutti i fenomeni noti.

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di Giorgio Giacometti