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La coscienza sorge come esperienza affettiva?

Veit

Nell’articolo The Origins of Consciousness or the War of the Five Dimensions Walter Veit (nella foto) sviluppa un’interessante teoria della coscienza. Adottato il paradigma evoluzionistico, egli ritiene che si possano “sbucciare” tutta una serie di “aggiunte” caratteristiche della coscienza umana e rinvenire negli animali, nei quali la coscienza si sarebbe originariamente affacciata, una coscienza ridotta alla percezione delle proprie emozioni, segnatamente di piacere e dolore, dall’evidente funzione biologica (utile alla conservazione e riproduzione dell’organismo che ne è dotato).

Trovo ficcante e condivisibile l’idea che la coscienza non possa essere colta né con un approccio esternalista né con un approccio internalista. La coscienza non avrebbe a che fare originariamente col “self“, inteso come individuale, riferito al determinato organismo, né si ridurrebbe a un mero effetto ambientale (secondo un modello rozzo stimolo-risposta). Per motivi diversi da quelli di Veit sono conclusioni a cui sono giunto anch’io.

Ho trovato abbastanza istruttiva la critica all’approccio autopoietico, che pure in generale trovo convincente. In Veit è rappresentato da Evan Thompson. Effettivamente, se si fa dell’organismo una totalità senza esterno, come sostiene la “tradizione” dell’autopoiesi e tenderei a immaginare anch’io, quando sostengo che si tratta di un inviluppo dell’universo stesso, si perde la peculiarità dell’organismo vivente, cioè la capacità di azzerare in se stesso l’incremento dell’entropia (carattere che, pure secondo me, è connesso con l’emergere della coscienza). Se manca un confine tra dentro e fuori come si può mettere in evidenza questa peculiarità? Bisognerebbe immaginare una sorta di “onda entropica” che si innalza progressivamente dopo il big bang per poi calare via via che la vita evolve sulla Terra, senza tuttavia introdurre soluzioni di continuità…

Sono d’accordo nello scartare un modello di coscienza “diacronica”. Posso immaginare di avere l’Alzheimer e di perdere in tutto o in parte questa consapevolezza (come lo stesso “io” o “self“).

Non sono invece d’accordo nello scartare la coscienza sincronica, se ho ben capito quello che sostiene Veit. Il solito esempio della coscienza “diffusa” o “multipla” del polpo non mi convince affatto. In primo luogo nessuno d noi è un polpo e non possiamo sapere che cosa esperiremmo (questo è un limite più generale dell’approccio di Veit). In secondo luogo ammesso che un tentacolo del polpo non sappia cosa passa per il cervello del polpo e viceversa (come la parte destra del mio cervello non saprebbe che cosa pensa quella sinistra nel caso di resecazione del mio corpo calloso), questo significherebbe semplicemente che ci sarebbero tante coscienze sincroniche quanti sono i tentacoli o le parti indipendenti del sistema nervoso / cervello di una persona o di un animale. Un coscienza multipla è contraddittoria con la nozione di coscienza come esperienza soggettiva. Due persone hanno  verosimilmente “due” coscienze (come il tentacolo del polpo e il suo cervello in ipotesi), ma nessuna delle due è cosciente direttamente dell’altra (ciascuno effettua un’inferenza da sé all’altro, nel senso che ciascuno suppone per una serie di ragioni che anche l’altra persona sia cosciente). Se una delle due coscienze fosse direttamente cosciente anche dell’altra, si vedrebbe un panorama in cui i tetti p.e. di Udine si confonderebbero con quelli p.e. di Milano (se le due persone risiedessero rispettivamente in queste due città)  e, di nuovo, si registrerebbe UNA coscienza. Non vedo alternative.

Per quanto riguarda il superamento della nozione di coscienza percettiva o sensoriale, sono d’accordo con Veit che non si debba esagerare la metafora della “visione”. Ma da questo non capisco come si possa diminuire il valore della dimensione fenomenologica. Anche se il “folk”, a differenza dei filosofi, pensa che la coscienza abbia a che fare con questioni valutative legate all’affettività e ammesso e non concesso che questa dimensione possa dribblare lo hard problem, il “filosofo” testardo può solitariamente continuare a chiedersi come sia possibile l’esperienza fenomenica, anche se per convenzione linguistica accettasse di chiamare “coscienza” qualcos’altro, quello che appunto il “popolo” chiamerebbe così.

Ora Veit sembra consapevole di questo “diritto” del filosofo e, infatti, non appoggiandosi in modo esclusivo alla tesi dei “filosofi sperimentali della mente”, conclude nel modo seguente (mi sembra la sua tesi fondamentale):

“Hedonic value of a stimulus or a bodily state seems to be an evaluation of its expected value to the organism” . There doesn’t appear to be an additional problem of why there is valence. This makes the evaluative side of experience a compelling target for an attempt to bridge the gap between matter and mind. To have a phenomenological experience is to have an evaluative experience. To naturalize the puzzling notion of ‘qualia’ is simply to explain how and why organisms have such an evaluation. Phenomenal states simply are explained within the context of an affect-based model of phenomenological experience.

Ora, se Veit intende sostenere che l’esperienza valutativa (di fatto quella “affettiva”) sia alla radice evoluzionisticamente della coscienza fenomenologica non ho obiezioni di merito (ma solo di metodo: come fa a dimostrare una cosa del genere?). Se per “radice” non intendiamo “causa”, ma solo l’inizio nel tempo dell’esperienza della coscienza (come dire, nel mio modello, che quando l’Uno si incarna in una zebra la sua esperienza ha più carattere affettivo che visivo o intellettuale) non c’è problema.
Proprio di recente ho scritto una nuova pagina del mio sito, in cui riconosco il valore funzionale (per sopravvivenza e riproduzione) di “piacere” e “dolore” e delle altre emozioni. Considero queste emozioni come modi attraverso cui il corpo comunica/ricorda alla coscienza i propri bisogni.
Ma come centrare la coscienza nell’esperienza affettiva aiuti a superare il “gap between matter and mind” mi risulta oscuro.

Perché ciò che noi e probabilmente molti altri animali viviamo come piacere e dolore debba essere appunto “vissuto”? Se una certa percezione attiva certe sostanze nel cervello (poniamo: endorfine) che spingono verso un certo comportamento perché il tutto deve essere percepito come piacere? Lo hard problem mi sembra rimanere intatto.

Dal punto di vista epistemologico, come accennato, mi chiedo come la letteratura ampiamente citata da Veit (a cui Veit attinge) possa tranquillamente (o allegramente) attribuire “coscienza” a organismi non umani. Sono profondamente convinto che la coscienza sia diffusa al di là dei “sapiens” (p.e. nelle scimmie antropomorfe). Ma come dimostrarlo? È un’opzione metafisica? Vedo certamente come gli animali si comportano, ma come posso sapere che cosa e se “sentono”?
Ad es. Veit evoca a un certo punto il fatto che anche animali molto primitivi, come spugne ecc., sono in grado di distinguere se stessi dall’altro da sé. Ma anche il nostro sistema immunitario individua eventuali organismi “invasori”. Non per questo il nostro sistema immunitario è cosciente!

L’operazione di Veit mi sembra circolare. Da un lato invita a non fare della coscienza “umana” il paradigma di riferimento. Poi va a cercare in “natura” il precursore di questa coscienza in qualche struttura. Ovviamente deve trattarsi di qualcosa di più semplice. “Immagina” che questa “cosa” sia fatta in un certo modo “semplificando” all’estremo la coscienza umana e “proietta” questa sua immaginazione sulla natura.  Ma in ultima analisi è sempre dalla coscienza umana che bisogna partire, non perché noi siamo “speciali”, ma soltanto perché la coscienza umana è la sola di cui facciamo esperienza. E poiché la coscienza è caratterizzata proprio come “esperienza soggettiva” mi sembra difficile prescinderne.

Tuttavia Veit rifiuta il “biopsichismo”, come lo chiama, cioè l’idea che vita e coscienza evolvano di pari passo, pur volendo a tutti costi adottare il paradigma darwinistico (che dà per scontato) anche per la coscienza. Mi sembra di capire che Veit immagini una sorta di “delay” tra evoluzione della vita ed evoluzione della coscienza, pur sostenendo che entrambe evolvano per gradi.
Ma da quali “segni” egli pensa di riconoscere nel vivente non umano l’apparire dei primordi della coscienza? Come fa a distinguerli da riflessi inconsci?

Mi sembra che quello di Veit sia un esempio eloquente di come spesso l’approccio empirico (“naturalizzante”), che si propone come scientifico, sia del tutto inadeguato.
Mancando una chiarificazione filosofica a monte di quello che si possa intendere per coscienza, di come si possa riconoscere che un ente diverso da noi stessi ne sia dotato, finanche di come si possano verificare o falsificare le proprie assunzioni in tal senso, su quali basi si possa considerare scientifico e non meramente speculativo l’approccio darwinistico, si rischia di assumere un atteggiamento seriosamente “scientifico” versus il chiacchiericcio filosofico mentre si cade nell’errore contrario: si fa speculazione con l’aggravante di una mancanza consapevolezza di farla.