"E' e non può non essere"; "ingenerato, imperituro, […] intero, immobile, senza fine, […] uno, continuo"; "nomi sono tutte le cose che i mortali hanno posto credendo che fossero vere". Con queste e altre parole si affaccia alla storia lo strano "mito" dell'Uno senza secondo, immobile ed eterno. Ne canta una dea, nel VI sec. a. C., ad Elea, nella Magna Grecia, a un "uomo saggio", Parmenide. Secoli dopo (VII d.C.), la scuola "filosofica" hindu di Gaudapada e Çankara osa riaffermare la dottrina dell'Uno senza secondo, la dottrina dell'assoluta non dualità o Kevaladvaita.

Nell'articolo dedicato a Plotino e Çankara, attingendo ai tesori della sapienza antica greca e hindu, si mette in luce quanto i diversi punti di vista da cui si è guardato all'Assoluto, sia nelle diverse tradizioni, sia all'interno di ciascuna di esse, rispecchino differenti gradi di penetrazione nel medesimo mistero, piuttosto che semplicemente differenti "opinioni" di singoli autori, e svolgano sostanzialmente una funzione maieutica.