Filosofia e vita quotidiana

Nell’agile volumetto La filosofia nella vita quotidiana. Una proposta, pubblicato da Diogene Multimedia (Bologna) quest’anno (2018), il mio amico “filosofo praticante” (come mi piace chiamarci) Stefano Zampieri (che si è già prodotto in diversi testi intersecanti, da diverse angolazioni, il multiverso delle pratiche filosofiche) propone un nuovo modo di intendere non solo la filosofia, tout court, ma la stessa pratica filosofica (come ad esempio la consulenza filosofica), cioè appunto come una forma di filosofia nella (non “della”!) vita quotidiana.

L’angolazione è senz’altro azzeccata e meritevole di attenzione, dal momento che, come scrive l’autore, “tornare alla filosofia è tornare alle cose stesse, alla complessità della vita di tutti i giorni, la sola che viviamo” (p. 9).

Opportunamente Zampieri chiarisce, nel secondo capitolo del volumetto, che per quotidiano non si deve intendere qualcosa di separato dal “non quotidiano”: quotidiano è tutto: “La vita quotidiana è ciò che ci circonda da ogni parte, e noi siamo in essa come un pesce nell’acqua” (p. 14).  Sotto questo profilo quotidiana è la routine, ma quotidiano, pur se meno frequente, è anche l’evento che la rompe (cfr. il quarto capitolo, pp. 21-25); quotidiano è il bisogno (materiale), ma quotidiano è anche  il desiderio (di qualcosa di ideale o di immaginario, cfr, p. 71) ecc.

Che ha a che fare il quotidiano con la filosofia? La chiave di volta del discorso di Zampieri, nella mia prospettiva, sta nel terzo capitolo, intitolato Quotidiano. Luogo di di autenticazione.  Il quotidiano, infatti, è “il luogo in cui tutto il nostro operare ritorna e si mette alla prova [corsivo nel testo]”, “il luogo dell’autenticazione [e, potremmo aggiungere, della falsificazione] dei processi intellettuali, delle teorie, delle affermazioni scientifiche, dei progetti politici, economici, sociali ecc.” (p. 16).

Il libro offre anche qua e là un saggio, un esempio, di questo processo di autenticazione/falsificazione dei processi intellettuali e delle teorie, soprattutto quando mette in discussione la “bestia nera” del filosofare di ogni tempo, i “luoghi comuni” (cfr. p. 42); ad esempio quando, intelligentemente, riabilita la routine, troppo spesso frettolosamente screditata, ma che ha, invece, una funzione fondamentale per la nostra vita, tanto naturale quanto intellettuale (cfr. pp. 57-60); o quando, evocando Blanchot, mette in luce le virtù della noia in quanto “presupposto per una percezione reale del quotidiano” (p. 56) in quanto tale.

Dunque, il filosofo, che vive nel quotidiano, è colui che lo interroga criticamente? Senz’altro, ma non solo. “La pratica filosofica è nella vita quotidiana anche quando la descrive e la mette in questione. La pratica filosofica, non può non essere consapevole del suo stato di implicazione radicale [corsivo nel testo]” (p. 80). Certo, perché, come avverte Zampieri, “il quotidiano, non è affatto un  oggetto, ma è una condizione, un modo di essere dell’uomo in un determinato spazio-tempo. E dunque non può essere circoscritto e delimitato come un oggetto, ma deve essere invece  percorso, attraversato, vissuto” (ibidem).

In questa prospettiva si comprende bene il legame inscindibile tra quotidianatà e pratica filosofica, intesa, come in Zampieri, come qualcosa che “può tornare ad essere il primo dei compiti per chiunque voglia interrogarsi senza sconti e senza infingimenti, intorno alla propria esistenza” (p. 9), o, come ho scritto io, come qualcosa che “rinasce” come palestra di vita.

A questo punto, però, sorgono alcuni interrogativi, i seguenti:

  1. Se il “quotidiano” è qualcosa di così vasto e inoggettivabile, anche se centrato sul soggetto che lo “abita”, come risulta dal testo di Zampieri, ha senso parlare di una particolare “filosofia nel quotidiano” che non sia la filosofia tout court? Tradizionalmente la “cosa” su cui la filosofia, anzi il filosofo in carne e ossa si interroga e in cui è, tuttavia, necessariamente implicato (e da cui dipende) è il “tutto”, l’essere; certo, a condizione che si tratti di un “vero filosofo”, non p.e. di un docente di filosofia (cfr. la distinzione che fa Epitteto nel suo Manuale, n. 46, n. 49,  n. 51 e n. 52, tra i “filosofo” e il “grammatico” che si spaccia per filosofo). Ora, il “quotidiano” non è forse la sola forma possibile in cui, se siamo intellettualmente onesti con noi stessi, cioè se siamo “veri filosofi”, ci si manifesta l’essere, il tutto (anche quando puliamo il culetto di nostro figlio o siamo in ritardo a un appuntamento)?
  2. Se, certamente, il filosofo vive la quotidianità senza pretendere di smarcarsene (vi è, per così dire, “gettato”), questo implica che la debba anche accettare così com’è, che non vi si debba (o se ne debba) in alcun modo “elevare”? La critica che il filosofo esercita vuole soltanto comprendere il quotidiano o mira anche a trasformarlo? E, in quest’ultima ipotesi, come non ricadere in quella che Zampieri chiama critica “dialettica” del quotidiano (per la quale evoca p.e. Lukàcs)?
  3. Se, come scrive Zampieri, si tratta di “tornare all’esercizio della filosofia nelle strade” (p. 8) al modo di Socrate (esplicitamente evocato nel capitolo introduttivo, attraverso una lunga e preziosa citazione di Plutarco), si può davvero prescindere dal modello rappresentato dalla tradizione antica (così ben ricostruito da Pierre Hadot e, sulla sua scorta, da Michel Foucault) e immaginare “una filosofia del Terzo MIllennio” del tutto nuova, come Zampieri sembra suggerire a p. 81? E se sì, in che termini?

A ciascuno di questi interrogativi il volumetto non offre risposte conclusive, forse non a caso…


P.S. Con alcuni dei testi di Zampieri sulle pratiche filosofiche ho già ampiamente avuto modo di “interagire”. Cfr. la mia recensione di L’esercizio della filosofia, in “Phronesis”, IX, n. 16, 2011 e, soprattutto, il confronto serrato con il Manuale delle consulenza filosofica su questo sito.

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