La dottrina eleatica e le sue aporie (secondo Platone)

“Dietro” a Platone, dietro, cioè, all’intuizione che si possa avere scienza solo di “ciò che è” (o dell’essere) e non di ciò che diviene e/o appare, si staglia la figura di Parmenide di Elea (fine VI sec. a. C.); una figura eccezionale, nel senso che è l’unico pre-socratico a cui, come Platone segnala nel citato passo del Teeteto (in cui si critica la dottrina di Protagora), non si può in alcun modo attribuire, neanche parzialmente, la teoria secondo la quale “tutto scorre”:

Tutto ciò che noi diciamo che è, diviene perché muta luogo, si muove, si mescola con altro; e perciò non è corretto dire che è, perché niente mai è, ma sempre diviene. E i su questo punto tutti i sapienti, ad eccezione di Parmenide, bisogna dire che concordano: Protagora, Eraclito, Empedocle e i poeti più grandi.

Secondo Parmenide il “divenire” che ci appare, in quanto logicamente contraddittorio, sarebbe illusorio. La sola cosa di cui si può dire che “è” è appunto… ciò di cui si può dire che “è” senz’altre specificazioni, salvo le proprietà di essere ingenerato, imperituro, dunque eterno, immobile, omogeneo, unico. Tale dottrina, che Parmenide enuncia in un poema (come qualcosa di rivelatogli da una dea, probabilmente Mnemosyne, dea della memoria, o forse Dike, dea della giustizia), argomentando solo alcune proprietà dell'”essere” (come i manuali di solito chiamano ciò che, letteralmente, Parmenide denomina  “ciò che è” o, a volte, anzi, soltanto “che è”) – ad esempio quella di essere ingenerato in quanto non può provenire dal nulla, cioè da un luogo inesistente -, viene difesa strenuamente, con celebri argomenti per assurdo (quelli dell’Achille e delle freccia contro il divenire, quelli del mucchio e del calvo contro il molteplice), dal suo discepolo e amico Zenone (sempre di Elea).

Cfr.  U1, P3, T11-13, pp. 86-89; questo videoU1, cap. 3, §§3-4, pp. 35-43 e questa scheda sulla negazione eleatica del divenire.

Questa dottrina eleatica (comune a Parmenide e Zenone e sviluppata da altri filosofi, come Melisso di Samo) rende inconcepibili non solo il divenire, ma anche il molteplice.

Platone, tuttavia, ha bisogno di una molteplicità di idee o essenze per rendere ragione dei fenomeni (delle cose come appaiono). A questo fine egli compie il celebre (metaforico) parricidio di Parmenide, dimostrando la concepibilità del non essere come essere diverso (o altro) e, giustificando, per tale via, la pluralità delle essenze.

Cfr. U3, cap. 3, § 1, pp. 225-28